Perché leggere “Il Dio che non c’è” di Giancarlo Dotto

Il volume, difficile da classificare tra i saggi, è un ibrido portentoso, c'è all'interno vita e genio, in un caleidoscopio dionisiaco. C'è anche un estratto del libro edito da Gog

Il dio che non c’è di Giancarlo Dotto

“Il Dio che non c’è” edito da Gog è uno dei libri più originali degli ultimi mesi. L’autore, Giancarlo Dotto, firma del Corriere dello Sport, ma anche scrittore e biografo di Carmelo Bene (di cui è stato sodale) conferma come la parola scritta, quando è intrisa di esperienze, incontri, cortocircuiti e contaminazioni, conserva una forza mitopoietica, passando da Mike Tyson a Amy Winehouse, fino a Diego Armando Maradona. Il volume, difficile da classificare tra i saggi, è un ibrido portentoso, c’è all’interno vita e genio, in un caleidoscopio dionisiaco. Andrebbe letto sul terrazzo di Villa Sticchi a Santa Cesarea Terme, dove Carmelo Bene ambientò “Nostra Signora dei Turchi”. Da lì si può ricercare, cogliendo la miriade di spunti offerti da Dotto, una via per rifuggire la post-umanizzazione del nostro tempo. Basta provarci. Chi scrive ha ancora negli occhi i colori senza tempo che sfavillavano da quella balconata… (Michele De Feudis)  

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A proposito di morti incomprensibili e lutti inconsolabili. Diego Armando Maradona, smisurato cabezon su un tronco da nano, «gli antropofagi mozzati di Shakespeare, la testa sotto le spalle» (Carmelo Bene), maniaco della palla, un maestro nel palleggiare qualsiasi cosa, una mela, un arancio, una moneta, un cuore finto di polistirolo, e quel cuore un giorno era il tuo. Diego, voglio dirtelo, sei diventato un mito definitivo per me, prima di diventare una reliquia e poi uno stadio, il giorno in cui hai ballato il Bombon Asesino in ciabatte nella cucina di casa. Non quando hai fatto la foca il tuo primo giorno al San Paolo, diventando il giorno stesso una statuina nei presepi di Gregorio Armeno e il sudario con la maglia numero 10 che avvolge la bara di Aurelio Fierro a Napoli, meritando lo stupore impaginato del «Times» e il mai estinto gorgheggio di massa “Oh mamma, mamma, mamma, ho visto Maradona e innamorato so’…”. O quando hai stranito gli inglesi in Messico dribblando mezza squadra di tonti e segnando il gol fake con la mano di un Dio, in questo caso non nominato invano. La truffa del secolo. Non lo sei diventato quando hai baciato la barba di Fidel o quando hai fatto il gesto dell’ombrello a Equitalia. Quando hai vinto mondiali stellari, palloni d’oro, scarpe d’argento, targhe di platino, marcato gol irreali, come quello alla Juve, la punizione oltre la barriera degli avversari e la legge della fisica, quando calciavi da Dio o cantavi come un usignolo.

Non mi stanco di guardarlo. Quel video. Emir Kusturica e Paolo Sorrentino si taglieranno prima o poi le vene all’idea di non averlo potuto filmare loro. Quel balletto ipnotico di un uomo in ciabatte, strafatto, perso, come un vecchio orango obeso nei suoi incubi, con tutta quella carne addosso e chissà quanto alcool in pancia, che si allaccia, il traballante orango, alla sua poco affabile bionda che simula a fatica il disprezzo. E, mentre la ripugnante gang dei social si era già infilata l’infradito della deplorazione, io ero toccato da una sola cosa: la bellezza inarrivabile di quel video. Non collocabile nel tempo, ma certo nella parabola di un uomo che non ha mai più smesso di dare scandalo di sé, non sapendo che farsene di sé. Più che mai, dal giorno in cui ha appreso che “essere Maradona” è una gigantesca menzogna e che è vero tutto il resto, quella carne addosso, la vita che passa e la bionda che ti abbraccia, ma non c’è amore.

Due minuti scarsi che raccontano la grandezza al suo apice, il giorno in cui è perduta per sempre. Sulle note maliarde di Bombon Asesino dei Los Palmeras, i Casadei della cumbia argentina, Diego Armando Maradona, l’uomo che è stato in cima al mondo, mostra il suo culo nudo e flaccido a chi lo sta per tradire. “Prendetelo, fotografatelo e mostratelo, miserabili. Non sarà per questo che io sarò meno Maradona e voi meno miserabili”. Impossibile scansare lo sguardo da quel video. E dobbiamo dire grazie all’infame che, dopo averlo girato, lo ha messo in rete, a quel Giuda nascosto tra i presunti amici di Diego, che gli amici quasi mai ha saputo scegliergli. Ammesso che un geniaccio così, il Caravaggio dei calciatori, abbia mai scelto qualcosa. A cominciare da questo suicidio distillato negli anni. Più sfarzoso e dunque maradoniano di una palla brutale in testa, alla Cesare Pavese. Una sfilza di prodezze nel teatro dell’autodistruzione. Quando sei stato una volta Maradona, non sarai mai un saputo trombone tappezzato di medaglie che porta in giro la sua vecchia gloria. Disponibile a frequentare inferi e divinità, oppure nessuno. Non era molto diverso quel giorno Diego, gonfio come una rana, che sale caracollando le scalette dell’aereo per raggiungere il suo amico Fidel Castro a Cuba, non sapendo ancora se a salvarsi o a dannarsi, o quando si presenta dalla Carrà gonfio come due rane e stordito come Buffalo Bill, un che di Bombolo e di una bambola gonfiabile. Una definitiva bestia da circo.

Video pirata, il Bombon Asesino che circola in rete lo stesso giorno in cui Diego, 34 anni prima, segnava in Messico all’Inghilterra il “gol più bello della storia”. Di sicuro, il più delirante. La decadenza di Diego. Niente del boulevard al suo tramonto, non c’è la cosmetica lussuosa e ridondante delle vite da star, ma una scena domestica pornografica per l’insieme inarrivabile di squallore e apatia, dove l’autodistruzione di Diego trova la sua via maestra. Un balletto debosciato, in cui spicca una forma di lucidità spirituale: se disfatta deve essere, che sia almeno estrema. Dopo aver deliziato le folle, sparato la faccia allucinata alle telecamere, e sparato un giorno davvero ai giornalisti con un fucile a pallini come fossero piccioni, urlandogli «Y sigan chupando!», “succhiatemelo”, la suburra da cui viene e da cui non si è mai scostato. Diego mostra il suo sedere molle al mondo, non avendo più nulla e nessuno da dribblare. Proteggerlo da se stesso? Impossibile. La strada era segnata. E il verso anche.

Alla fine ce l’ha fatta. Lo stesso giorno di Fidel Castro e di George Best. Lui che già moriva da anni, a ripetizione, tre, quattro, cinque volte, e i medici ogni volta lo tenevano in vita. Curvi sul suo strematissimo cuore, a lavorarlo di bisturi, o sulla sua enorme pancia dove ha stipato tutta la sua enorme vita, schifezze e cose sublimi. Fino a che, stremati, si sono stancati di tenerlo in vita. Cercava la morte in modo fantasioso, un genio anche qui, una volta facendosi mordere in faccia dal suo cane. Operato, ricoverato e salvato. Il suo ascensore ha toccato paradisi reali e artificiali ma, da diversi anni in qua, puntava spedito, dritto all’inferno.

Era il dio del calcio, Maradona, ed era quel sublime avanzo umano, stordito da droghe e alcol, a caccia ovunque di euro e di dollari. Le foto pubblicate dal «Clarin» del luogo dove Diego ha vissuto le sue ultime ore, ammesso che sia stato vivere, lo raccontano più di tanto inutile chiacchiericcio. Una casa vista lago, nel quartiere San André di Tigre, lotto 45. Più che una casa, la sistemazione di un accampato che arrangia i suoi ultimi, faticosi patti con la vita. Mobilacci sparsi di pessima fattura, di quelli che i poveri comprano a rate per l’eternità, confidando che resistano almeno il tempo della loro vita residua. Il pavimento in qualche resina o plastica di terz’ordine, color vomito. Un divano letto dozzinale, buono per cimici di lusso e quel che resta del Pibe, il materasso matrimoniale, la tristissima tivù 32 pollici, un gabinetto chimico, una sala giochi quando non c’è più niente da giocare. Un’ancor più triste poltrona con massaggio incorporato, di quelle che sostituiscono in molti casi l’abbraccio e le carezze di una donna, probabilmente l’ultimo che ti sarà dato. Ma è la cucina che stringe il cuore. Le tue sinapsi non ce la fanno a mettere insieme la star planetaria, celebrata dalle folle e dai Capi di Stato, il divo che si affacciava dai palazzi presidenziali e dalle suite di alberghi pentastellati, con quell’opprimente bugigattolo dove galleggiano sparsi una vecchia caffettiera, un thermos bluastro, orrende scodelle, un fornello da battaglia, ai suoi ultimi fuochi. Stai lì per declamare l’inevitabile stupore, l’ovvio sdegno, ma poi capisci in tempo che la miseria di Diego era la sua grandezza. Ciò che lo ha reso unico e irripetibile. A dirla tutta, la fedeltà commovente, irriducibile alle sue radici. Al suo piccolo mondo antico di Villa Fiorito, nome che la dice lunga su quanto si può essere crudeli nell’assegnare un nome. Il quartiere dov’è cresciuto. Niente fogne, niente luce, strade il minimo indispensabile, quanto serviva per i corrieri della droga. Ma, in quelle case al confine della baracca, Diego deve aver conosciuto una qualche felicità, frugolo pirotecnico tra i piedi di un padre analfabeta ma dal cuore grande come una casa e una madre che lo ha amato come nessun’altra donna mai più.

Michele De Feudis- Giancarlo Dotto

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