Artefatti. Nemmeno la morte si salva dalla bruttezza contemporanea

Note idiosincratiche sul mondo nuovo, l'insopportabile muffa del cattivo gusto trova nuove strade per opprimerci

Selfie di una Barbie

Si notano sempre più spesso condotte sconvenienti in centro storico, il cosiddetto “salotto cittadino” tanto decantato dai burocrati del turismo locale, altroché chiasso proveniente da benemeriti aperitivi spontanei, la sgradevolezza è sempre in qualche modo premeditata, attitudinale, sagomata da anni di onanismo televisivo, protetta dallo spirito del tempo: signore e signorine che vanno a matrimoni religiosi abbigliate come adescatrici, i maschi invece moda-mafia, gessato cravattona gialla occhiali a specchio, autovettura d’epoca noleggiata, pacchiani schiamazzi; applausi altresì ai funerali, festeggiamenti di laurea che si tramutano in baccanali di cattivo gusto coronato alloro, frizzi e lazzi (perché fare i pagliacci? C’è ancora un confine tra goliardia e indegnità comportamentale?), nessun rituale è risparmiato dalla canzonatura; mandrie di alienati col monopattino che sferragliano sul ciottolato – viatico meritevole invece di cavalli e carrozze – obnubilati tra neon violenti di vetrine bianche, catene d’abbigliamento minimaliste, libri telefoni gadget o tutto insieme poco importa; sessantenni color ocra ostensori dell’abbronzatura perenne, centro estetico dieta equilibrata, deambulanti per vie medievali in brache corte e scarpe da ginnastica fluorescenti.

Qua non s’invecchia più, eppure tutto decade, tutto sprofonda nella nuovissima presunta bellezza. Dove siamo, in spiaggia? Sul panfilo? A Capalbio? O forse la passeggiata preserale, in un capoluogo di provincia centro-padano, è considerabile alla stregua di una propaggine dell’annichilente, metodica, ossessiva religiosità da palestra? Per l’appunto, proprio la palestra è l’orrore, cloaca salutista, chiesa del male ben peggio del periferico centro commerciale carrello-spesone-marmocchi vocianti, giacché ci si va mica per fare a pugni come ai gloriosi tempi della boxe, ma più miseramente con la scusa balorda di tenersi in forma nell’asettico pollaio meccanico. Per giunta pagando, quando dovendo faticare per vivere si guadagna sempre meno. Che ce ne faremo mai di tutta questa patriottica forma fisica, di questa tonica beltà diffusa, omologata insacchettata dentro tessuti tecnici catarifrangenti? Quando s’è perduta la buona abitudine di sfidare il rivale a duello, perché addestrarsi? A cos’altro, senza guerre all’orizzonte? difatti la faccenda è sfuggita di mano ed ora ci ritroviamo tra le palle sacrestani dei bilancieri che mangiano solo pollo e riso in bianco, e femmine isteriche coi muscoli. Bel risultato.

Guarda quel tale, ad esempio, si sta liberando il padiglione auricolare con il mignolo, mentre come tutti è ingobbito sul telefono, quell’altro al buffet s’è riempito il piatto a dismisura perché pensa che le tartine siano gratis. Piccinerie, consuetudini mondane, minuta volgarità si converrà, non fosse per l’apocalittico onnipresente filtro Instagram, in grado di trasfigurare centuplicando dozzinali vicende e ombelicali quisquiglie in un impeccabile caleidoscopio demiurgico, oscenità saturate di un mondo parallelo fagocitante quello reale, la natura sputata fuori col tramonto giusto, stereotipata per eccesso. Questa è pornografia, vieppiù a tavola: perché mai immortalare la pasta e fagioli appannando la fotocamera, quando basterebbe ai sensi, vista olfatto gusto, l’atto di mangiarla? La foto è diventata più importante del piatto, nell’odierna gerarchia del kitsch postmoderno. Poi ci lamentiamo degli stranieri sovente inurbani, certo, pure quelli africani sciabattano rumorosamente, con andature da dromedari e approcci confidenziali immotivati – “Ciao Capo!” – ma chi ti conosce? Diamoci del Voi piuttosto. La città è inaffrontabile, vieppiù se piagata da nomea culturale e presidi Unesco Rinascimento interattivo con la nuova App, perché allora arrivano i turisti a frotte, la vera barbarie della nostra epoca cinicamente economica, pigramente generalista, vacuamente affollata.

E se la campagna fosse più fasulla della città? Ma certamente, davvero tutto è ugualmente falsato, corrotto e abbruttito dacché le parole d’ordine, costrette in piroette enfatiche, larve morbose della trimurti “Storytelling, Progetto, Evento”, sono calate in provincia come ovunque, ma recando danni peggiori alla comunità decentrata: servono a descrivere il vuoto pneumatico di un sempre più generico e verboso progresso, tradendo quel poco di vero rimasto che abbiamo sotto al naso.

Le definizioni hanno preso una piega standardizzata, ripetitiva, artificiosamente cosmopolita, buona qui come altrove, ovunque e in nessun dove, così il luogo specifico – questo prato col fico, quel cumulo di letame, ad esempio – patiscono come una ferita la parola aliena, l’impostura astratta del politicante orante devoto all’orto sinergico, prono alla messianica green-economy, replicante il verdetto futuribile del mondo migliore, mentre il microcosmo presente, o ciò che ne resta d’agreste, è ucciso a tradimento: abbecedario funebre, c’è troppo lezzo di globo in campagna, sarebbe il caso di disimparare anche quei pochi rudimenti d’inglese, così da giustificare l’incomprensione con l’attualità.

Gioconda con mascherina, un murales

Sul quotidiano locale, sfogliato in qualche bettola risparmiata dallo stare al passo coi tempi, pensionati pescatori d’acqua dolce, cacciatori di leprotti che parlano solo dialetto, possono ancora bearsi nell’ignoranza superiore, sogghignando ebbri dal pulpito, imbarbarirsi di risate nel leggere i titoli di colonialismo lessicale quali: “Avviso ai lettori, sospesi gli eventi della community a causa del coronavirus, si attende il green pass”, “Canottieri Mincio, code al front office”, oppure “Smart working? Una gabbia per donne”; anche se l’apoteosi da tinello del Commonwealth la si trova nelle pagine della cultura: “Human Rights work, exhibition, a cura di Creative Lab, nella suggestiva location…”. Venduto al demonio chiunque blateri di virtuose sinergie e progetti condivisi, di specificità coibentate, sharing economy sparita nel gabbiotto info-point – “me lo mandi via PEC” – eccellenze del territorio veramente tali se si riuscisse in qualche modo a lasciarle perdere, a lasciare stare con l’ammodernamento asfissiante, delicatamente senza costruirci sopra un coperchio di marketing esotico grazie all’elemosina delle fondazioni bancarie. Ed invece ci si ostina col lab, l’hub, il contest, la call, lo storytelling, il project e le insegne luminose che attirano gli allocchi. Il futuro è morto, soffocato di vane parole e dal packaging ecologico finto-povero, tant’è che per celebrare le esequie dell’archetipo paesano si ripiega nel nostalgico esproprio, ribattezzato vintage, nella retorica seppiata del com’eravamo, olografica digitalizzazione di una vanga, l’albero degli zoccoli in 3D.

Dice quel tale intervistato: “Dobbiamo fare qualcosa per il paese, altrimenti i giovani se ne vanno”. Dove? A Milano in affitto? Non resteranno di certo perché s’è mutato in inglese il nome della solita sagra del Patrono, che stava bene così com’era. Summer Fest con street food sulla locandina darà forse modo a qualcuno di ritenersi appagato per aver coraggiosamente ambito ad un pubblico internazionale, in un paesino di mille anime. Bisognava cambiare, si deve farlo, come l’avesse ordinato il dottore o qualche idiota della tivù. Ma fa schifo.

Con la scusa del “mettere in sicurezza” come dicono pappagallescamente quasi tutti gli amministratori locali, solitamente si compiono i peggiori danni estetici, altroché arredo urbano! Grazie alle nuove luci a risparmio energetico anche i borghi si sono trasformarti in ambulatori dentistici all’aperto, confermando il sospetto di un occulto disegno per urbanizzare i piccoli paesi prendendo a modello la serialità di Legoland. Segnaletica verticale, scatolotti autovelox, ciclabili senza direzione, muri e muretti e dossi, panettoni di cemento gialli, strisce pedonali ogni dieci metri con segnalatori luminosi lampeggianti, telecamere, eccetera. Soprattutto farmacie, nuove chiese sempre più grandi, discoteche della salute sempre più illuminate, santuari interstellari con la croce verde pulsante giorno e notte, imperi del bugiardino. E di contro è sempre un tagliar piante, “perché erano malate, perché erano un pericolo”. Piove tre giorni in fila ed è allerta, bollino rosso, ecco spuntare le divise giallo-fluo della Protezione Civile, certamente disegnate dal costumista di Star Trek.

Questa enfatica ossessione contemporanea per la tutela da rischi, veicolata da sempre più stringenti parametri e conseguenti agghiaccianti terminologie – monitoraggio, mappatura, filiera, tracciabilità – pur trascurando bellamente qualsivoglia manutenzione tangibile di strade ponti argini e sorvolando distrattamente su fonti inquinanti, si sente investita di una missione epocale: appaltare, altresì detto efficientare (altro obbrobrio lessicale, stavolta autarchico). Chiudere stazioni ferroviarie, uffici postali, presìdi sanitari e scolastici, centri sociali accorpando servizi – pure le parrocchie, assoggettate a burocratici criteri distrettuali – nei comuni più grandi può paradossalmente generare la medesima forma di bellezza che toccò in sorte alle case cantoniere, più in generale a tutte quelle strutture deprivate di una specifica funzione, abbandonate arrugginite fatiscenti costruzioni divorate da edere rampicanti, muschi e licheni.

Nella decadenza architettonica, nel rudere inselvatichito si conserva forse l’ultimo refolo poetico del mondo moderno: ciò che Moloch ha trascurato, dimenticato, generosamente lasciato alla lenta digestione della natura, all’incuria implacabile dell’amazzonia padana. All’oblio esente da riqualificazione, alla ruralità immeritevole di un bando regionale nazionale europeo mondiale.

Non imbruttisce ciò che passa inosservato. Invecchia meglio una cascina orgogliosamente diroccata tra i suoi campi dell’innovativa tensostruttura polivalente nel frattempo crollata, a suo tempo inaugurata dalle autorità, con tanto di banda e fascia tricolore. Trapassano con maggiore dignità pietre e legni di parabole satellitari e condizionatori in lamiera. D’altronde nemmeno la morte si salva dalla bruttezza, si badi al rimpicciolimento seriale dei loculi nelle nuove propaggini cimiteriali, cos’altro se non la perpetuazione dell’esistenza nella villetta a schiera? Una volta addirittura capitò di leggere di un sindaco che si vantava, ovviamente con apparato fotografico via social, di aver “messo in sicurezza” i vialetti del cimitero, ci s’immagina luogo ghiaioso assai periglioso per le meste processioni, e scappò da ridere a tutti: almeno lì tra le lapidi e i lumini si potrà avere un po’ di pace, la bellezza della trascuratezza? Bastano i fiori, purché non siano finti.  

 

Donato Novellini

Donato Novellini su Barbadillo.it

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