L’Italia nella “generazione del ‘70”. La “generazione del ’70” in Italia/1

Il dialogo tra gli uomini di cultura (e non solo) portoghesi e italiani e l'influenza nelle arti e nelle lettere

L’uso del termine generazione con cui la critica letteraria, per necessità di sistematizzazione, di solito cataloga gruppi di uomini di cultura, presuppone la presenza di punti di riferimento comuni tra coloro che ne fanno parte. Tale presupposto vale anche per la cosiddetta generazione del ’70 portoghese, nonostante l’eterogeneità di pensiero e, in una certa misura, l’indipendenza di spirito con riferimento ai modelli culturali nazionali e stranieri che contraddistinguono i suoi membri.

Indubbiamente, alla luce del contesto culturale dell’Europa epocale, possiamo affermare che le scuole e gli autori utilizzati come termini fondamentali di confronto e guida da Antero de Quental, Eça de Queirós, Oliveira Martins, Teófilo Braga, Ramalho Ortigão, tra gli altri, sono stati principalmente francesi e tedeschi. Questo è occorso fin dagli «anni di Coimbra», ossia, a partire dalla fase embrionale del gruppo, come possiamo constatare in alcune affermazioni contenute nell’opuscolo Bom senso e bom gosto (1865) di Antero.

Sicché, accettando come premessa la dipendenza culturale degli uomini della generazione del ‘70 in relazione a Francia e Germania – una condizione abbastanza comune, in proporzione maggiore o minore, in tutti i Paesi europei nel corso della seconda metà dell’Ottocento – sarebbe errato, oltre che riduttivo, affermare che i loro interessi fossero circoscritti solo all’area d’influenza, letteraria e filosofica, francese e tedesca.

Per quanto riguarda l’Italia, di cui è stata preservata l’immagine tradizionale del Paese culla per eccellenza del Classicismo, del Rinascimento e delle Arti, non potevano mancare autori di riferimento quali gli intramontabili classici della letteratura: Dante, Petrarca, Ariosto, Michelangelo, Tasso e, tra i più prossimi, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci.

A questo aggiungasi il profondo interesse per l’attualità delle vicende storiche italiane, quali le lotte per l’indipendenza, le gesta di Garibaldi, la proclamazione del Regno d’Italia, l’entrata a Roma dei liberatori, con la conseguente sconfitta delle truppe pontificie e la fine del papato come potenza laica, la morte di Vittorio Emanuele II e quella degli altri artefici dell’unificazione, ai quali quasi tutti i membri del gruppo guardavano con estrema attenzione e apprensione.

In tal senso, come non ricordare l’articolo di Antero intitolato Questão Romana, dell’aprile 1862, in cui lo scrittore azzorriano trovò il modo di manifestare il profondo interesse per le sorti dell’Italia, auspicando il riconoscimento dell’unificazione da parte del pontefice? Un interesse che sarebbe stato da lui confermato anche in seguito. Tanto nell’ottobre dello stesso anno, in occasione del messaggio di benvenuto a Umberto di Savoia a nome degli studenti universitari di Coimbra [cfr. Saudação ao Príncipe Humberto no dia 22 de Outubro de 1862], quanto al momento della lettura nel Teatro Accademico della poesia À Itália e, successivamente, nel 1865, nell’opuscolo Defesa da carta encíclica, in cui, schierandosi apertamente a favore del Syllabus del 1864, glorificava l’intransigenza antiliberale e antiprogressista di Pio IX.  E ancora una sua lettera indirizzata ad Azevedo Castelo Branco, datata gennaio 1866 e scritta nel periodo del suo maggiore ardore rivoluzionario, in cui proponeva all’amico l’arruolamento nell’esercito di Garibaldi:

 

«Hai letto naturalmente i giornali. Sei a conoscenza di quel che sta accadendo in Italia, e degli arruolamenti dei volontari garibaldini. Anche se il Congresso che si prospetta decide tutto in buona o cattiva pace, quelle persone non muoiono di fame. Credo che questa sia per noi una buona opportunità per uscire dall’assurdo stare con le mani in mano della vita ordinaria. Vuoi venire? Un bel morir tutta la vita onora...».

 

Anche altri esponenti del gruppo hanno dedicato commenti e riflessioni agli eventi occorsi in Italia, come Eça de Queirós e Ramalho Ortigão.

 

In due delle sue quindici lettere scritte da Londra tra aprile 1877 e maggio 1878 per il giornale di Oporto «A Actualidade» [cfr. Crónicas de Londres, XI e XII] Eça commenta la morte di Vittorio Emanuele e quel che egli definisce gli «intrighi ecclesiastici» in Vaticano per l’elezione del successore di Pio IX.

 

«Mi giunge in questo momento – scrive il 10 gennaio 1878 nella prima delle due lettere – una triste notizia. Vittorio Emanuele è morto. Proprio ieri il suo ex ministro, vecchio amico e compagno d’armi, il cavalleresco generale La Marmora, veniva sepolto, e già oggi scompare lui, il re galantuomo, una delle personalità più interessanti della politica moderna. Viene meno così un grande patriota; perché la caratteristica principale del suo carattere è stata quella di amare la sua patria; non la sua piccola patria, la Savoia, ma la sua grande patria, l’Italia.  […] È singolare che Vittorio Emanuele, il quale aveva visto scorrere come un sogno tutta la vecchia Italia, tutto quel che gli si era opposto e che lo aveva combattuto – principi, despoti, granduchi, intrallazzatori, Borboni fanatici, il grande Mazzini, carbonari e cospiratori, camicie rosse e garibaldini –, solo non sia sopravvissuto al suo grande avversario: il Papa. Questi resta lì, come una personificazione della vecchia Italia sacerdotale e autoritaria.  […] Scompaiono così i grandi italiani dell’unificazione: Cavour, Rattazzi, Mazzini e Vittorio Emanuele. Garibaldi resta, ma talmente vecchio, che è più nella storia che nella vita. E il vecchio Papa, intrattabile, indomabile, continua a perturbare il mondo anche dal suo letto di morte, vedendo morire i suoi nemici a uno a uno, con la consolazione di vederne alcuni venire, prima della sua fine, a chiedergli umilmente la sua benedizione. Ecco perché i cattolici qui sono radiosi. Ma cosa importa? Gli uomini passano, sono la parte decorativa delle idee; e se è Vittorio Emanuele che muore e il Papa che sopravvive, è comunque l’ultramontanismo che spira e la democrazia che rimane».

 

Per quanto concerne Ramalho, ci sono riferimenti alle vicende storiche dell’Italia contemporanea in diverse pagine delle sue opere, soprattutto nelle Farpas, in cui il tema dell’unificazione politica e territoriale – con gli eroici protagonisti e le loro lotte, la tenacia e i sacrifici da parte di un intero popolo nella realizzazione di un ideale ambito da secoli – rappresenta per lo scrittore portuense un riferimento indispensabile nel cammino della Storia. È un importante esempio di difesa nazionale, di forte spirito patriottico, nonché di opposizione energica e concreta a tutto quel che costituisce la sintomatologia della tirannia e dell’oscurantismo. L’Italia, lascia intendere Ramalho – questo pedagogo e spietato censore –, dovrebbe essere presa come modello politico e morale da tutti quei Paesi che aspiravano a rigenerarsi. Tale esempio valeva anche per il Portogallo della sua epoca, carente a livello costituzionale, così come di quella condotta sociale virtuosa accompagnata da valori universali che fanno la gloria e la grandezza di una nazione. Ciò spiega i bei e toccanti ritratti che l’autore traccia di Vittorio Emanuele e Garibaldi.

 

«[Vittorio Emanuele] era l’uomo forte per eccellenza. Aveva il polso atletico di Goffredo di Buglione […]; comandò come lui una crociata – la crociata da Novara a Roma; come lui si recò nella terra promessa; è morto giovane, come lui, come tutti gli eroi che, avendo compiuto sulla terra una grande missione, si sentono all’improvviso invasi nell’anima dall’immensa tristezza degli appagati. Ha avuto la virtù sintomatica dei forti: la colossale bontà. Nessuno ha tirato fendenti più profondi contro le spade dei propri avversari; […] Nessuno si è arrampicato con polmoni più forti sulle alte vette degli Appennini e della libertà. Nessuno ha sorriso con più fascino e prestigio alla fatica, al pericolo, alle donne e alla morte» [As Farpas, III (17)].

 

«[Garibaldi] rimarrà nella Storia come il più brillante esempio di forza e coraggio messi disinteressatamente al servizio di tutte le cause generose. Non ha mai avuto la capacità di governare gli altri o di governare se stesso. […] Aveva, tuttavia, uno di quei cuori magnanimi in cui solo vibrano le alte passioni eroiche. Prima di se stesso amava la famiglia; prima della sua famiglia, la sua patria; prima della sua patria, la grande umanità. […] Non ha mai elaborato un libro, né un trattato, né una poesia, né una religione, né una filosofia. […] L’unica cosa che metteva sempre, assolutamente e incondizionatamente, a disposizione dei suoi simili, era la sua stessa vita. Tutte le volte che la libertà umana ha avuto bisogno di un uomo che per essa rischiasse la pelle, è stato inviato un messaggio a Garibaldi, e Garibaldi non ha rinunciato mai ad apparire nel momento opportuno, con il campanellino allacciato sulla camiciola rossa e la spada in mano. […] Da lì discende la gratitudine che tutti i popoli amanti della libertà e che lottano contro la tirannia devono a Giuseppe Garibaldi, poiché rischiare la pelle, gettandosi a fronte alta contro le baionette armate a protezione dei dispotismi costituiti è precisamente quel che riformatori, politici, tribuni, filosofi e poeti più tentennano a fare allorquando giunge il momento decisivo di mettere in atto un’idea» [Idem, V (18)].                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

 

In passato, qualcuno ha menzionato tra le righe di un suo scritto un presunto disinteresse per la cultura italiana esistente in Portogallo nel corso del XIX secolo e della prima metà del XX secolo. Tuttavia, era questo un giudizio basato, probabilmente, su dati parziali, in merito ai quali oggi, alla luce delle ultime ricerche e di studi critici più approfonditi, occorre muovere alcune riserve.

Per quanto riguarda la generazione del ‘70 è vero che la maggior parte del gruppo aveva solo un’idea generale della cultura e della letteratura italiana. Ma ciò non impedisce che nel caso di alcuni dei suoi massimi esponenti – i già citati Eça, Ramalho e Antero – si debba parlare di un interesse genuino e profondo, dettato dalla loro formazione essenzialmente classica, dalla venerazione per Dante e Petrarca, dalla seduzione su di loro esercitata dal Rinascimento, dall’amore per l’Arte, il teatro e la musica del Paese che ha visto nascere Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Leonardo, Cellini, Tasso, Ariosto, Macchiavelli, Manzoni, Paganini, Verdi – solo per menzionare alcuni nomi degli artisti più citati nelle loro pagine.

 

In alcuni articoli delle Prosas bárbaras Eça ha modo di esporre delle brevi riflessioni personali a proposito della cultura italiana. Sulla letteratura le sue meditazioni si estendono dalle riflessioni sul Dante «soprannaturale» e delle «visioni divoratrici dell’infinito», al Petrarca dei Sonetti, poeta dell’amore per Laura che, «come la Vergine mistica, assoggettava alle umiliazioni religiose tutti i cavalieri del Sud», fino all’«avventuriero, il gioviale e miscredente cavaliere e canzonatore» di nome Ariosto. Quello della musica è stato un altro aspetto nel contesto della cultura italiana preso da lui in considerazione, in particolare per quanto riguarda la musica sinfonica e l’opera. Quanto all’arte pittorica e scultorea italiana Eça ne esalta le componenti «fisiche» e «formali» tipiche dei Paesi meridionali, contrapponendovi la natura artistica del Nord Europa, dove, secondo lui, predomina una componente «spirituale».

Difatti, nell’articolo Da pintura em Portugal, ricorrendo a un intelligente gioco di contrapposizioni in cui riserva al Portogallo un ruolo marginale – la cui arte passata e presente è da lui ritenuta, rispettivamente, «sterile» e «grottesca» – lo scrittore immagina l’Europa come

 

«un grande corpo simbolico in cui ogni patria è una forte qualità fisica o un’ambizione intelligente dell’anima. […] L’Italia, che è la percezione dei sensi, la forma, produce la magnifica pittura materialista, che per cinquecento anni si è ispirata alla bellezza del corpo […]. Ora, se la letteratura e la musica studiano l’anima, la pittura e la scultura studiano il corpo. Non il corpo com’è nella vita moderna, smagrito dalla stanchezza, […] con i muscoli ammolliti dalla vita cerebrale, con la pelle flaccida, nonché deformato dai vestiti, ma il corpo diritto, ritmico, puro, armonioso e sano, perfetto in tutta la purezza della forma. Cosicché, quel che è da ammirare nella pittura, quel che è ideale non sono le figure dell’arte bizantina, scarne, irte e monotone; […] non sono le forme sproporzionate con cui Albrecht Dürer veste le anime che drammatizzano la sua creazione; non sono gli atteggiamenti dolorosi, le bruttezze volgari, la grossezza bestiale dei muscoli nei pittori del primo Rinascimento; quel che è da ammirare è la pittura perfetta di Tiziano e dei veneziani, in cui la forma ha la bellezza ideale e serena degli antichi dei marmorei, ma animata da una voluttà delicata, un’energia intelligente e una fisionomia strutturale altamente aristocratica e cristiana! Quel che è da ammirare, soprattutto, è il tipo di forma ideale della scuola fiorentina che possedeva i tre massimi esponenti dell’arte: Leonardo da Vinci, che ha dato al corpo un’intelligenza delicata, Michelangelo, che gli ha dato una sublimità violenta, e Raffaello, che gli ha dato una dolcezza infinita, qualunque cosa che ricordi la serena immortalità del Paradiso pagano, quella soavità luminosa, quell’equilibrio perfetto di tutti i risvolti dell’anima che più tardi Mozart avrebbe trasferito nella musica e Goethe nella poesia. In tale pittura l’espressione morale non ha ascendente. C’è, come nell’arte greca, l’equilibrio perfetto e ritmico tra anima e forma».

 

Tutto questo – come l’Eça rinascimentale ancora sottolinea in modo malinconico – sarebbe mancato soprattutto ai pittori francesi della prima metà del XIX secolo, Delaroche, Ary Scheffer, Ingres, la cui pittura è «drammatica», una «pittura dell’anima», poiché i dipinti sono

 

«epopee, satire, idilli o drammi. […] Era il tempo in cui il tipo dominante nell’arte, e nella poesia soprattutto, era l’uomo delle passioni spiritualistiche, nostalgico, nervoso, ricolmo di lirismo […]. S’immagini perciò quanto si era lontani dal centro luminoso dell’arte italiana, dal sentimento della vita fisica, dalla contemplazione armoniosa della bellezza corporale, attiva, viva e sana! Questo spiritualismo non ha ancora cessato di essere l’ispirazione morbosa e intima dell’arte moderna».

 

Tale contrasto che Eça istituisce tra l’arte del Nord, più spirituale, e l’arte del Sud, più formale, o tra l’arte gotica e moderna in contrapposizione all’arte rinascimentale viene, pur se in modo mitigato, anche associato all’ambito musicale nel confronto tra musica tedesca e italiana. Quest’ultima

 

«ha tutto quel che è palpabile, luminoso, ondeggiante, come seta invisibile […] La musica italiana scaturisce profondamente dalla Natura, come quella tedesca scaturisce profondamente dall’anima; del resto l’anima, la Natura sono due modi d’essere di Dio. […] Eppure la Germania e l’Italia possiedono lo stesso delicato sentimento del massimo genere, che simboleggiava nella vita i tempi moderni. È per suo tramite che s’innalzano al Nord e al Sud le voci che lo rivelano nell’amore, nella gelosia, nella severità e nella malinconia. In tutta l’opera musicale, sempre quella figura si erge, tragica e irregolare. È questo stesso sentimento che determina gelosia in “Otello”; disperazione in “Fidelio”; che desidera essere libero in “Guglielmo Tell”; che medita al chiaro di luna in “Freischütz”; sono i suoi ricordi che cantano nella “Lucia”, nella “Traviata”, nella “Sonnambula”; è esso che fantastica con l’Oriente in “Semiramide”; che delira in “Roberto il diavolo”; che sogna avventure nell'”Hernani” e che soffre d’amore e delle avventure dell’amore nel “Don Giovanni” del divino Mozart. Così queste scuole un tempo tra di esse ostili vanno fondendosi: la Germania dà il suo Illuminismo e l’Italia la sua passione. Sicché l’Arte è la prima a unire le patrie per il tramite della riconciliazione delle anime» [Sinfonia de abertura].

 

Nell’articolo Macbeth, in cui il testo originale di Shakespeare è preso solo come pretesto, Eça commenta la trasposizione musicale fatta da Verdi, non risparmiando al celebre compositore italiano alcune benevoli critiche:

 

«Verdi, l’amato musicista dei Messicani, degli Americani, dei Russi e di noi altri Portoghesi, è di certo l’unico compositore italiano veramente serio che è rimasto dopo lo sventurato Donizetti; Rossini ha abbandonato l’arte. Verdi ha un talento vigoroso, davvero appassionato, ma gli manca il fuoco santo, l’esaltazione ideale, Dio, quel soffio di cui parla la Bibbia. La sua musica è profondamente materialistica: è una melopea energica e stridula: […] sa emozionare sensibilità materiali, ma non riesce a strappare l’anima dal suo vestito carnale e a portarla, nuda e posseduta dall’infinito, attraverso le regioni delle sorprese radiose. Tutto l’entusiasmo che Verdi ha generato in Italia proviene dal momento grave in cui si è rivelato. A quel tempo l’Italia viveva con agitazione il poema convulso della sua ricostituzione […]. In quel momento Verdi ha attraversato l’Italia con un canto poderoso, in cui le prime liberazioni battevano le ali. Quella musica appassionata, ardente e infuocata irrobustiva gli snervamenti interiori e corazzava le energie: e l’Italia seguiva con idolatria il poeta, che le immetteva nell’anima, con l’amore delle epopee, l’amore delle libertà».

 

(continua)

 

Bibliografia consultata

 

Opere:

  1. a) QUEIRÓS, Eça de: Cartas de Inglaterra e Crónicas de Londres. Edição «Livros do Brasil», Lisboa s.d.; Prosas barbaras, Edição «Livros do Brasil», Lisboa s.d.
  2. b) ORTIGÃO, Ramalho de: As Farpas. Livraria Clássica Editora, Lisboa s.d.: voll. II, III e V; Figuras e questões literárias. Livraria Clássica Editora, Lisboa 1945: vol. I; Pela terra alheia. Livraria Clássica Editora, Lisboa 1949: vol. II.
  3. c) QUENTAL, Antero de: Beatrice Imprensa da Universidade, Coimbra 1863; Cartas I. [1852] – 1881 [e] Cartas II. 1881 – 1891. Organização, introdução e notas de Ana Maria Almeida Martins. Universidade dos Açores/Editorial Comunicação, Lisboa 1989; Odes modernas. Livraria Internacional/Eugénio Chardron, Porto/Braga 1875, 2a ed.; Os sonetos completos. Por J. P. Oliveira Martins. Livraria Portuense, Porto 1890, 2ª ed.; Primaveras românticas – Versos dos vinte anos (1861-1864). Imprensa Portuguesa Editora, Porto 1872; Prosas, 3 voll. Imprensa da Universidade/Edição e propriedade de Couto Martins, Coimbra/Lisboa 1923, 1926, 1931; Raios de extinta luz. Por Teófilo Braga. M. Gomes, Lisboa 1892; Sonetos – Editor Sténio. Imprensa Literária, Coimbra 1861; Sonetti completi. [A cura di] Tommaso Cannizzaro e Giuseppe Zuppone Strani. Tipi dell’Editore, Messina 1898; Sonetti. Introduzione, traduzione e note di Brunello De Cusatis. Novecento, Palermo 1991.

 

Bibliografia critica:

– BRITO, A. Ferreira de, Os lusófilos europeus e Antero de Quental. In «Congresso Anteriano Internacional [14-18 Outubro 1991] – Actas». Universidade dos Açores, Ponta Delgada 1993, pp. 97-106.

– CARREIRO, José Bruno, Antero de Quental, Subsídios para a sua biografia. Instituto Cultural de Ponta Delgada/Livraria Editora Pax, Braga 1981, 2a ed.: vol. II;

– DE CUSATIS, Brunello, L’Italia in Antero. Antero in Italia. «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. 3. Studi Linguistici», Perugia, vol. XXIX, nuova serie XV, 1991-1992, pp. 63-73;

– MIRANDA, José da Costa, Itália nas páginas de Ramalho Ortigão. Breves apontamentos. «Annali dell’Istituto Universitario Orientale – Sezione Romanza», Napoli, XXII, 1, gennaio 1985, pp. 89-97;

– ROSSI, Giuseppe Carlo, Eça de Queirós e a Itália. In Eça de Queirós no centenário do seu nascimento. Edições S.N.I., Lisboa 1950, pp. 67-82.

 

[Questo articolo – qui rivisto e suddiviso in due parti – è stato per la prima volta pubblicato in portoghese nella rivista cartacea «Nova Águia – Revista de Cultura para o Século XXI» (Sintra – Portogallo), N. 20 – 2° Semestre 2017, pp. 210-217.

Tutte le traduzioni dei testi dal portoghese sono a mia cura].

Brunello Natale De Cusatis

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