Giornale di Bordo. Ritorna l’inflazione: ripresa economica o grande reset?

Quello che conta però non è la dietrologia, ma l’economia. Costringerci nell’arco di pochi anni a sostituire un’automobile a benzina o diesel, che ormai grazie al progresso tecnologico può durare decenni senza grossi problemi di motore né di carrozzeria, costituisce un business di straordinarie dimensioni, ma al tempo stesso un fattore inflattivo rovinoso, tanto più che l’energia elettrica non è certo regalata

L’inflazione che riprende a salire

Nella mia ormai non brevissima vita, ho conosciuto di persona almeno due inflazioni: l’inflazione da choc petrolifero, che si protrasse dal 1973 ai primi anni Ottanta, e l’inflazione da euro, che fece seguito all’introduzione della moneta unica europea. Ora rischio di conoscerne una terza, figlia in parte del Covid, in parte delle politiche ambientaliste legate al cosiddetto climate change, in parte, negli Usa ma di riflesso anche in Europa, delle politiche socio assistenziali del nuovo presidente Biden. I miei genitori, nati negli anni Dieci del secolo scorso, ne avevano conosciuta da adulti un’altra ancora più grave: quella della guerra e del secondo dopoguerra, che consentì allo Stato di polverizzare il suo debito pubblico mandando in miseria chi aveva creduto nei destini dell’Italia investendo i suoi soldi nei vari prestiti patriottici. Ricordo ancora una mia zia paterna, ridotta a vivere in povertà, con la figlia costretta a sgolarsi in lezioni private, perché la sua dote, investita come voleva la legge in buoni del tesoro, era stata liquefatta dal caro vita. E non fu certo l’unica a fare le spese dell’introduzione delle Am-lire al seguito delle truppe Alleate, delle speculazioni da borsa nera, che ridussero alla miseria soprattutto il ceto medio impiegatizio, della scarsa fretta di Luigi Einaudi, “salvatore della lira” un po’ in ritardo, nell’arginare le spinte inflattive che consentivano allo Stato italiano di contrarre drasticamente i debiti senza nemmeno dover fare default. Le cose erano andate meno peggio nei territori amministrati dalla Rsi, che aveva conservato uno straccio di sovranità monetaria grazie alla tenacia del ministro Pellegrini Giampietro; ma dopo il 25 aprile piovve su tutti.

Nel dopoguerra l’inflazione degli anni Settanta fu la più nefasta, ma anche la più comprensibile. Tutto era cominciato con la guerra del Kippur e col ricatto petrolifero dei Paesi arabi alle nazioni occidentali che sostenevano Israele, prima fra tutte l’Olanda. L’embargo petrolifero ci mise in ginocchio e aprì in Italia la strada alle domeniche a piedi (vissute, per altro, in un primo tempo con uno spirito ludico analogo a quello che ha accompagnato il primo lockdown) e alla politica di austerity. Ma il danno fu di più lunga durata, perché i Paesi produttori di petrolio cominciarono a capire di detenere uno straordinario potere economico e, riducendo la produzione, beneficiarono di un rialzo delle quotazioni del greggio che pose in ginocchio le economie dell’Occidente. Soprattutto l’economia dell’Italia, che aveva conosciuto il suo miracolo economico in una fase di cambi stabili e di prezzi delle materie prime contenute e che – per la campagna scandalistico-giudiziaria montata contro Felice Ippolito, a beneficio della lobby del petrolio – dopo essere stata all’avanguardia nel nucleare civile si trovò indietro nell’utilizzazione a fini pacifici dell’energia atomica.

L’inflazione, brutta bestia

L’inflazione è una brutta bestia, che alimenta se stessa e colpisce soprattutto i redditi delle categorie più indifese, avvantaggiando invece i ceti speculatori. La prima crisi energetica coincise con i miei vent’anni ed esercitò un’influenza deleteria sulla mia vita, come ovviamente su quella di moltissimi miei coetanei. Il caro vita a due cifre erose le pensioni dei miei genitori  (la scala mobile era concepita per rivalutare soprattutto i redditi bassi), proprio mentre la demagogica politica del blocco dei fitti e poi dell’equo canone ridusse drasticamente i redditi di chi, com’era nelle consuetudini della borghesia di un tempo, aveva investito i risparmi “nel mattone”. In più l’inflazione si coniugò con la stagnazione economica, dando vita a quell’ircocervo cui gli economisti diedero il nome di stagflazione. Entrai così nel mondo del lavoro (o meglio, cercai d’entrarci) proprio nel periodo peggiore, in cui non si facevano concorsi e le migliori offerte d’impiego per laureati in lettere erano la vendita porta a porta di enciclopedie (bei tempi, quando ancora si facevano i soldi vendendo il sapere; ora ho visto persino le Treccani finire nei cassonetti, perché le case moderne non hanno spazio e “tanto si trova tutto su internet”). Fui indotto a rinunciare alla prospettiva aleatoria della carriera universitaria, a cercare l’utile immediato, per non gravare sul bilancio familiare, e mi sentii felice di ottenere alle soglie dei trent’anni un lavoro sicuro nella scuola, che però non era quello che desideravo. Non faccio la vittima: se avessi avuto maggior tenacia – e anche quelle doti di umiltà che ti fanno accettare di reggere la borsa a qualche cattedratico magari un po’ trombone – avrei potuto fare una carriera migliore. Ma questo non m’impedisce di ricordare gli anni Settanta con raccapriccio anche per un convulso aumento dei prezzi, accentuato in molti casi anche dall’avidità bottegaia, che si valeva di tutto, persino della carenza di spiccioli, per arrotondare i prezzi verso l’alto.

La seconda inflazione, quella da euro, è stata più subdola, e soprattutto immotivata. Nell’immaginario collettivo dei miei connazionali si insinuò la convinzione assurda che un euro equivalesse a mille lire, e ci fu chi ne approfittò vergognosamente. Contribuì a questo anche il fatto che noi italiani considerassimo ormai le monete metalliche meri spiccioli (le famose cinquecento lire d’argento erano state subito tesaurizzate dalle vecchie zie) e che l’Unione Europea avesse risposto picche alla proposta dell’allora ministro Tremonti di coniare banconote da un euro, equivalenti alle vecchie duemila lire. Il centrodestra, all’epoca al governo, ebbe le sue colpe: invece d’imporre per un periodo più lungo la doppia indicazione dei prezzi, in lire e in euro, lasciò la porta aperta alle peggiori speculazioni, col risultato che i prezzi aumentarono rapidamente, specialmente quelli dei servizi che non sono indispensabili alla vita, ma la rendono piacevole. Me ne accorsi quando vidi nei menù dei ristoranti dei bagni di Viareggio il prezzo degli spaghetti alla trabaccolara passare nell’arco di una stagione da dodicimila lire a dodici euro. L’Istat non registrò questi dati, perché il suo “paniere” comprendeva molti prodotti i cui importi per effetto della globalizzazione erano rimasti stabili, o addirittura, come nel campo della telefonia mobile, erano calati. Ma a che serve telefonare a buon mercato a una ragazza per invitarla a cena, se poi non hai i soldi per pagarle nemmeno una pizza e devi chiederle di fare alla romana?

L’inflazione che si prospetta oggi è però molto più pericolosa, perché rischia di colpire generi di prima necessità e in particolare di riversare sulle spalle dei contribuenti – magari in forme ipocrite, come la revisione degli estimi catastali – le conseguenze di spese clientelistiche legate alla gestione dei fondi europei, della nemesi della globalizzazione e dei costi della cosiddetta green economy.

Si dice che l’economia italiana sia in crescita, e se ne attribuisce il merito al governo Draghi. Mi fa naturalmente piacere, ma non serve essere un bocconiano per capire che immettere somme ingenti sotto forma di sussidi o finanziamenti favorisce la ripresa. I problemi sono due: i soldi  vanno a chi ne ha effettivamente bisogno e le opere e i servizi pubblici finanziati sono veramente utili? Piuttosto che sovvenzionare nuovi stadi (o peggio, la ristrutturazione con relativo deturpamento di quelli esistenti), non sarebbe utile investire in impianti sportivi per i giovani? Piuttosto che finanziare massicciamente la digitalizzazione della pubblica amministrazione, rendendo ancora più problematica la comunicazione con gli uffici per i non nativi digitali, non sarebbe più opportuno investire nella Sanità, assumendo e formando medici e infermieri (per questi ultimi si potrebbero ripristinare i vecchi corsi triennali dopo il secondo anno di una scuola media superiore, che funzionavano benissimo)? Oltre che distribuire soldi a pioggia con i vari ecobonus, non sarebbe il caso di controllare la congruità dei prezzi praticati, visto che spesso gli impresari hanno quasi raddoppiato il costo dei materiali? E anche ai ristoratori che hanno invaso le strade con i tavolini concessi gratuitamente, non sarebbe il caso di chiedere moderazione nei prezzi? Il fenomeno non è solo italiano, anzi parte dagli Stati Uniti di Biden; ma questo non è certo un motivo di consolazione.

La nemesi della globalizzazione

La questione della nemesi della globalizzazione è forse la più inquietante. Priva di autosufficienza energetica, per la rinuncia al nucleare, l’Italia, come anche il resto dell’Europa, ha visto aumentare rapidamente la bolletta del gas, su cui aveva negli anni Ottanta puntato anche in chiave ecologistica (qualcuno forse ricorderà il martellante slogan “il metano ti dà una mano”). La ripresa economica mondiale ha aumentato la richiesta di combustibili, favorendo spinte speculative, e l’ostracismo alla Russia di Putin, che offriva contratti a lungo termine a  prezzi bloccati, non ci ha certo giovato. Paradossalmente il ricorso alle fonti alternative potrebbe avvantaggiare, nel lungo periodo, una nazione priva di giacimenti di idrocarburi; ma il nucleare è ostracizzato, le centrali idroelettriche sono un tabù da cinquattotto anni, dopo il disastro del Vajont, e pensare di alimentare le acciaierie con i mulini a vento – che oltre tutto deturpano il panorama, una delle nostre principali risorse – fa sorridere come pensare di poter curare il cancro con l’aspirina. In un altro ambito l’Italia e tutto l’Occidente scontano l’errore di avere delocalizzato prevalentemente in Asia produzioni strategiche per la loro economia, come i microprocessori, indispensabili non solo per la produzione di computer, ma anche di automobili e persino di elettrodomestici. È fatale che in un quadro di crescita improvvisa della domanda per effetto della ripresa dell’economia mondiale Cina popolare, Taiwan, Corea del Sud preferiscano soddisfare prioritariamente le esigenze del mercato interno, e comunque alzino i prezzi. È la logica perversa del dumping, per cui una nazione prima induce una nazione rivale a rinunciare a certe produzioni offrendo prodotti a prezzi stracciati, poi, dopo avere distrutto l’industria locale, comincia a dettare le sue condizioni di mercato. E soprattutto la Cina ha praticato a lungo il dumping sociale e anche ecologico, offrendo prodotti concorrenziali grazie al ricorso a bassi salari (e in certi casi  a una manodopera servile di prigionieri politici) e all’inosservanza delle precauzioni ambientali. Il libero mercato ha i suoi vantaggi, ma il rischio di una sua nemesi è sempre incombente, specie quando si aprono le frontiere ai prodotti di nazioni che non rispettano i diritti umani e le protezioni sindacali.

Se alcuni fattori inflattivi, come la crescita vertiginosa del costo dei noli marittimi o dei microprocessori,  potrebbero  risultare congiunturali, quelli legati alla transizione alle fonti energetiche alternative rischiano di rivelarsi strutturali, a meno di un’inversione di rotta dei Paesi occidentali, altamente improbabile, visto il terrorismo psicologico e il ricatto morale in atto a proposito del cambiamento climatico. Chi, come me, si è appassionato in gioventù alla Nouvelle Histoire, attenta anche ai fattori climatici, sa che la storia mondiale ha conosciuto, dalla caduta dell’Impero Romano agli albori della rivoluzione industriale, i riflessi di cambiamenti delle temperature legati non certo all’emissione di Co2, ma a fattori legati alla diversa attività del sole. In passato era soprattutto l’abbassamento della temperatura media a provocare sconvolgimenti economici e politici, innescando un circolo vizioso fra carestie ed epidemie, come nel Trecento e nel Seicento, o esasperando crisi politiche latenti, come avvenne allo scoppio della Rivoluzione Francese, quando il popolino di Parigi faceva la fame ed era anche per questo facilmente influenzabile da sobillatori con la pancia piena che avevano il loro quartier generale al Palais Royal. Non c’è dubbio che l’aumento della produzione industriale abbia contribuito all’aumento delle temperature medie, con i problemi che questo comporta, ma la sua effettiva incidenza è tutta da dimostrare. Uno studioso serio come Franco Prodi ha criticato gli allarmismi dell’Onu, non sempre disinteressati, in materia di climate change. E un grande fisico come Antonino Zichichi ha affermato che il riscaldamento globale dipende dal “motore meteorologico dominato dalla potenza del sole” e che le attività umane incidano solo per il 5 per cento sui cambiamenti climatici. Si può discutere sulle percentuali, e anche sull’intera tesi: la scienza non è una realtà dogmatica e si basa sul confronto su diverse ipotesi di lavoro. Ma oggi l’Occidente si sta giocando il futuro sulla base di una mera ipotesi di lavoro imposta dogmaticamente, invece di cercare di cogliere anche gli aspetti positivi del fenomeno: se certe parti del continente si desertificheranno, altre, finora non coltivabili per le basse temperature, potranno divenire fertili e contribuire con le loro colture a lenire il problema della fame nel mondo. Il profetismo laico di una Greta Thunberg, le cui parole hanno più risalto del parere di autentici scienziati, rischia di mettere in ginocchio la nostra economia, favorendo il sorpasso di nazioni come la Cina Popolare e l’India, che se ne fregano altamente del climate change e producono in centrali a carbone i pannelli solari con cui c’illudiamo di risolvere i nostri problemi ambientali.

Certo, il problema dell’inquinamento nelle città è tutt’altro che trascurabile, e il legame fra degrado ambientale e malattie cardiorespiratorie è stato ampiamente dimostrato. Parola di una persona che ha sempre preferito la bicicletta e i mezzi pubblici all’automobile e il treno e i traghetti all’aereo, anche a costo di spendere molto di più. Ma di qui a pretendere di farci cambiare auto nell’arco di pochi anni, fare salire vertiginosamente i costi delle bollette energetiche, dismettere le nostre industrie, la distanza è enorme, specie se si continua a demonizzare il nucleare.

Certo, c’è chi sostiene che dietro il “negazionismo” (termine molto caro alla sinistra, in tutti i campi) sui cambiamenti energetici si nascondano gli interessi delle multinazionali del petrolio; e potrebbe anche darsi. Ma niente osta al ragionamento inverso: anche la lobby del green ha tutto da guadagnare sugli allarmismi.

Quello che conta però non è la dietrologia, ma l’economia. Costringerci nell’arco di pochi anni a sostituire un’automobile a benzina o diesel, che ormai grazie al progresso tecnologico può durare decenni senza grossi problemi di motore né di carrozzeria, costituisce un business di straordinarie dimensioni, ma al tempo stesso un fattore inflattivo rovinoso, tanto più che l’energia elettrica non è certo regalata. Sarà per molte famiglie una spinta a indebitarsi e per molte imprese un costo aggiuntivo che, come sempre succede, si scaricherà sui prezzi, così come vi si sta scaricando la demonizzazione della plastica. Ma forse è proprio questa la speranza di quanti con la pretesa di governare il cambiamento climatico in realtà tentano di governare i destini mondiali. L’inflazione da che mondo è mondo è la forma più efficace di grande reset, che permette, come nell’Italia del ‘45, di azzerare il debito degli Stati senza nemmeno ricorrere alla bancarotta. Solo che allora avevamo perso una guerra, e male. Oggi si ha spesso l’impressione che tutto l’Occidente stia  facendo la guerra a se stesso, col risultato di perdersi.

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Enrico Nistri

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