Il racconto. Memorie dalla Valtellina, primavera 1945, negli ultimi giorni della Rsi

Gianni Marocco descrive le vicende di Gianfranco Dussi, comandante delle Brigare Nere fasciste alla fine della guerra civile

Uno dei luoghi del ridotto alpino repubblicano fascista in Valtellina

– Laudetur Jesus Christus.

– In saecula saeculorum.

– Che cosa desiderate, fratello? – una voce chiese dallo spioncino.

– Vorrei parlare con padre Mattia, mi conosce.

– Non siete armato?

– No.

– Entrate, fratello.

Gianfranco Dussi fu introdotto nel convento. Si sentiva sporco, in goffi abiti civili, la barba lunga: un fuggiasco affamato. La spessa porta di legno, cigolante, si rinchiuse dietro di lui.

– Di chi devo dire?

– Di quello delle tre dita. Il Padre Superiore comprenderà.

Padre Mattia, un uomo corpulento sulla cinquantina, dalla faccia gioviale, quasi calvo, si affacciò dopo pochi minuti alla stanzetta disadorna, parlatorio dove l’ospite era stato fatto entrare. Con sorpresa, forse relativa, ma calorosamente, salutò il nuovo arrivato:

– Comandante Dussi, siate il benvenuto!

– Grazie, padre, come vedete mi son ricordato del vostro invito: “Se avrete bisogno noi siamo lì, sempre la porta si apre”.

  Avete fatto bene. Non vi chiedo nulla. Questi sono giorni terribili.

– Già. Voi, uomo di Chiesa, comprenderete che non è solo la paura che mi ha indotto a bussare alla vostra porta…

– Certo che no, comandante. E non solo per le dita che avete lasciato in Russia, congelate. Per come quella volta siete andato a riprendere il mio confratello, padre Luigi, che era stato arrestato dalla “Muti”. Mi avevate detto: ve lo riporterò. Manteneste la promessa.

– Sì, per poco non ho dovuto scaricare il caricatore della mia Beretta in faccia a quell’imbecille milite, che si credeva più di un Comandante di Squadra delle “Brigate Nere”.

– Padre Luigi ve ne sarà sempre grato. Voi sapete che cosa succedeva nelle caserme della “Muti”… 

– Infangavano quel che ancora rimaneva del buon nome del fascismo.

– Mussolini è stato giustiziato. Pace all’anima sua. Lo ha detto poco fa la radio. Anche molti 

gerarchi, a Dongo. Credo che già eravate al corrente. 

– Ho udito grida in lontananza e raffiche di festeggiamento, credo. Non sapevo della sua morte, ma l’ho intuito, naturalmente. Il generale Onori a Ponte Valtellina ci disse del suo arresto a Dongo e che dovevamo consegnare le armi, arrenderci ai partigiani, tutta la colonna, come era stato concordato con i loro capi, alla presenza del vescovo di Sondrio.

– Avete fatto un’altra scelta.

– Gli dissi che della parola dei comunisti non mi fidavo e che preferivo morire da uomo libero, non da topo. Una cosa è morire combattendo, ben altra essere fucilato come un malfattore, Salutai brevemente i miei uomini, che perdonassero il loro comandante e si salvassero come potevano. Me ne andai, infischiandomene di “parole date” ed altre stupidaggini del momento. Noi che eravamo lì per scortare il Duce in Valtellina, sino alla fine…

– Come avete fatto ad arrivare fin qui? Non è vicinissimo.

– In un casolare ho comprato, per mille lire, questi abiti in borghese. Poi ho camminato per i campi. Ho dormito un po’ appoggiato ad un albero. Ho avuto fortuna. Nessuno mi ha fermato o chiesto i documenti che, comunque, avevo bruciato. Ma sarebbe servita a poco la precauzione.

– Avete fatto bene. Nessuno entrerà qui a farvi del male. Venite a prendere un po’ di latte, a mangiare una fetta di pane. Di questi tempi abbiamo poco, ma con un fratello si condivide tutto.

– Grazie, padre. Voi rappresentate l’unico raggio di sole dopo settimane di buio. Dio vi renderà merito anche di questo. 

– Non sto facendo nulla di particolare. Siete un fratello che ha bisogno di un tetto sicuro.

Il fuggiasco passò al refettorio e, come parlando tra sé e sé, più che al Padre Superiore:

 – Perché un combattente dell’ARMIR, uno che in Russia si è preso una medaglia, ci ha lasciato due dita, che ha sempre scelto la soluzione più scomoda, quella dell’onore, che ha vestito con orgoglio la camicia nera, quando tutto era perduto, quando si sapeva bene che si stava dalla parte di quelli che certamente sarebbero stati sconfitti, se qualcuno non ti sparava prima alle spalle, perché quell’uomo non si tira un colpo in bocca e la finisce lì, se non pensa d’arrendersi? 

La faccia tonda del frate da cordiale e bonaria divenne seria, tirata. 

– No, questo non lo dovete né pensare, né dire, comandante. L’uomo non dispone liberamente della sua vita. Essa appartiene a Dio.

– Avete ragione, padre, scusatemi.

– Perché vi siete ricordato di questo convento cappuccino? 

– Perché, perduta una buona ragione per morire, spero ora di rivedere i miei due bambini, Paolo e Chiara, e mia moglie, Carlina, che dovrebbero essere al sicuro. Ero disposto a morire, altrimenti non sarei entrato nelle “Brigate Nere”, nove mesi fa. Ma non pensavo di essere tradito proprio dal Duce. Che mentre noi sognavamo ancora con l’estrema difesa in Valtellina, le Termopili del Fascismo, al Ridotto Alpino voluto da Pavolini per l’ultima battaglia, e per quello ci eravamo raccolti in tanti per sacrificarci con lui e per lui, ebbene Benito Mussolini, che, nonostante i suoi errori, rappresentava un valido motivo per morire, ebbene lui se ne scappava disperato per cercare di salvarsi, chissà dove e come! Inutilmente, tra l’altro. Che delusione.

– Siete giovane, ancora. Oltre la famiglia ritroverete dei buoni motivi, forse migliori, per lavorare, appassionarvi, vivere. Passerà quest’ora buia. Dio non vi abbandonerà, siatene certo, non escludetelo dalla vostra esistenza. Riposate intanto, comandante.

– Non più, padre. Solo Gianfranco. Le vostre parole son balsamo. Non vorrei procurarvi problemi. Se mi dite di ripartire sono pronto, anche subito. 

– Rimanete. Qui abbiamo accolto anche dei partigiani. La storia non ha bisogno d’una vittima in più. Se avete peccati da raccontare, che vi pesano, o anche solo la tentazione di confessarvi, abbiamo degli eccellenti confessori. Buoni frati e sant’uomini, quasi sempre… 

– Ma se vengono i comunisti, i garibaldini, voi non dovete rischiare per proteggermi.

– Hanno l’ordine di rispettare chiese e monasteri. Pensano al dopo, a quando si voterà. Vi faremo, in ogni caso, indossare un saio, dei sandali, pure dei guanti. Fratel Faustino, un francescano in più, qui da cinque anni. La barba vi crescerà in fretta. Neanche a noi piacciono i comunisti – disse sorridendo il Superiore – avviseremo la vostra famiglia, con cautela.

Brigata Nera “Aldo Resega”

Così ebbe inizio il soggiorno nel convento dell’ex Comandante di Squadra della Brigata Nera “Aldo Resega”, Gianfranco Dussi, uno che aveva sparato ed ucciso in combattimento, mai torturato nessuno, mai comandato alcun plotone d’esecuzione, presso il Convento dei Frati Minori Cappuccini di ***. 

Con una celletta, un saio, facendo in sostanza la stessa vita dei frati, per libera scelta, per sondare il mistero di quella scelta di vita. Ed anche per retribuire, in un certo senso, la generosità di padre Mattia, che aveva pure il pregio di non citare né San Paolo, né Sant’Agostino… Altro che “Brigate Nere, avanguardie di morte, siam vessillo di lotte e di orror, siamo l’orgoglio trasformato in coorte, per difendere d’Italia l’onor”! Sveglia alle 6, preghiera mattutina, Santa Messa conventuale, letture, riposo, preghiera serale, la compieta dopo i vespri e prima del sonno, verso le 10. In fondo, la vecchia Regola, stabilita da San Francesco nel 1223. Ed il salmodiare lento, monotono, il Canto Gregoriano della domenica, con padre Alfredo, un gran solista. Tempo a josa per riflettere e pensare, rifugiandosi nella lentezza del vivere, medicina forse straordinaria, ma non a tempo breve… Per ritrovare la Fede non gli sembrava degno. Non si crede nel Dio di noi cattolici, dei nostri padri, per ringraziare o per chiedere una salvezza. Non si dovrebbe. Non è il voto di scambio dei ‘ludi cartacei’.

 Gianfranco non usciva mai dal convento, faceva quattro passi ed inseguiva il sole nel chiostro, dove giungeva l’aria frizzante delle montagne. Poche parole scambiate con i frati, che non gli domandavan mai nulla. Il mondo di fuori, con la sua libertà, azione e trappole micidiali, pareva remoto. Le scarse notizie che giungevano e quelle che trasmetteva la radio – dall’unico grande apparecchio e solo per il notiziario della sera – non erano precisamente dense d’ottimismo per lui. Era giunta la pace, ma quale pace per gli sconfitti? Il “Vae victis!” di Brenno, il re gallo che a Roma getta la spada sui pesi della bilancia come contrappeso all’oro.

– Caro padre Mattia: “A noi la morte non ci fa paura: ci si fidanza e ci si fa l’amor, se poi ci avvince e ci porta al cimitero, s’accende un cero e non se ne parla più”. Così avevo cantato tante volte con i miei ragazzi, per esorcizzare proprio la paura della morte: poter urlare in faccia ai cacasotto borghesi ed ai gappisti la nostra decisione d’acciaio, per dare un senso a quelle nostre vite maledette di sacrificio, mentre attorno a noi cresceva, si dilatava un cerchio di diffidenza, repulsione, odio. La gente voleva la pace, noi eravamo la guerra che rabbiosamente continua.

– Tutti commettono errori – constatava il frate, con filosofica saggezza e compassione.

– La vita con i suoi imperativi etici, ideali, le sue illusioni… 

– Gli uomini si entusiasmano per sentirsi vivi. Troppo spesso dimenticano Dio. La Chiesa predica il Vangelo, ma è dei peccatori. Siamo, laici o consacrati, uomini deboli, fragili. Li riscatta la buona fede, la misericordia, la pietà, le rette intenzioni. Forse, avete indovinato a rifiutare personalmente i termini della resa. Ho saputo che non pochi sono stati poi detenuti e fucilati, a cominciare dal maggiore Vanna.

 – Mi spiace molto. Maledetti… parola di comunisti. Non sono mai stato un mistico, padre, neppure un cattolico devoto e praticante. Non lo era la mia famiglia. Ci si sposa in Chiesa, si fanno battezzare i bambini, poi la Prima Comunione, a messa a Pasqua e Natale, l’Olio Santo alla fine del viaggio, il Rosario e la benedizione al camposanto.

  Il cattolicesimo all’italiana…

Un triste Mussolini liberato al Gran Sasso il 12.9.1943 dai paracadutisti tedeschi durante l’Operazione Quercia

– Io sono cresciuto, come tutti i ragazzi della mia generazione, nel culto della Patria, del Duce, della Bandiera, dell’Impero. Una vita sognata, sin da avanguardista, di combattente per l’ideale, per i destini irrevocaboli della nuova Italia, il futuro dei figli del Duce, le adunate, le marce, i saluti e passi romani, l’orbace, i canti, i giuramenti, i gladi sguainati orgogliosi in faccia al mondo, il “Mare Nostrum” da riconquistare, gli eroi della Causa, la Vittoria immancabile…

– Tante cose, Gianfranco, lo so. Tante parole con le ali… e poi il dolore infinito. 

  Sì, cose che parevan belle, emotive. Molta retorica, chiaro, ma con significati alti, lirici.

– Parlate, figliolo, permettetemi di rivolgermi a voi così, dite tutto quello che forse non avete mai detto a nessuno. Vi farà bene. Voi non siete il gran colpevole, neppure il salvatore. Non caricatevi addosso tutti gli errori ed orrori del mondo. 

– Grazie. I miei sogni son finiti in cenere, padre Mattia. La perdita dell’Impero, poi il voltafaccia del Re e dei gerarchi il 25 luglio, la resa umiliante dell’8 settembre, l’Italia invasa dalla feccia di eserciti stranieri, le bombe sulle città indifese, le nostre donne violentate. Noi a sporcarci le mani nel trojajo, perdonatemi, d’una guerra civile ed i puri Alleati con il loro “Arsenale della Democrazia” a portare la morte anonima a innocenti, a centinaia di migliaia, sull’Italia, sulla Germania, sul Giappone. E da ultimo il tradimento di Mussolini, che ci convoca per l’ultima battaglia ed invece… cerca di squagliarsela e abbandona tutti, mal travestito da soldato tedesco!

  La propaganda, l’ipocrisia, anche le umane debolezze…

– Per la verità, padre, il mito del Duce si era appannato, sgonfiato e pure da tempo. Gli italiani non sono stupidi. Eccessivi, sentimentali, pronti a credere, fiduciosi, melodrammatici forse, imbecilli e ciechi no. Ma voi li conoscete di sicuro meglio di me.

– Se solo Mussolini avesse dato retta a Sua Santità invece di gettare l’Italia nel conflitto. Poi, si sa, chi vince ha tutte le ragioni dalla sua parte.

– Sì, padre Mattia, soprattutto col senno del poi. L’Era Fascista, il Littorio, la Civiltà Latina immortale, DUX, i motti e le parole d’ordine, il “Credere, Obbedire, Combattere” ecc.; orpelli illusori, spazzati via nel ’43. Pochi li rimpiangevano realmente. L’Italia era stata sconfitta, non solo il regime o la dittatura, lo sapevamo tutti, proprio tutti.

  Ma voi volevate ricominciare, Gianfranco… fratel Faustino…

– Sì, aspiravamo a ricominciare, padre, una volta che la pace fosse tornata, da uomini veri di una Patria vera, mai defunta, che merita rispetto perché in tanti sarebbero morti per riconquistare l’onore smarrito. Perché l’Italia, non il fascismo, vivesse, comunque e soprattutto. 

– Lodevole motivazione, forse ignorando il sentire dell’italiano che per secoli non l’ha avuta.

– È probabile, padre. Aspirazioni disinteressate, dettate solo dalla fede che non può rinunciare a credere. Adesso anche quelle spazzate via, brutalmente, ed immagino per sempre.

– Non angustiatevi, fratel Faustino. Se avete delle colpe credo che già l’espiazione sia iniziata. Dio è misericordioso, non siate ansioso, non sentitevi solo. Una redenzione la troverete. 

Fratel Faustino era chiuso in quel convento, senza poter uscire, per chissà quanto tempo. Clausura rigorosa. Non poteva certo chiedere a padre Mattia dei documenti falsi. Paolo, Chiara, Carlina. Che ne era di loro? Quando li avrebbe rivisti? Si sentiva oppresso da oscuri sensi di colpa, che quelle mura del convento, pur protettive, acutizzavano. Perché lui si era salvato, scappando da solo, mentre altri sicuramente morivano? che cosa lo aspettava? quando? la salvezza era reale o solo un’illusione, un rinvio? giudicato per quali delitti? per la fedeltà alla Patria, per una uniforme? Sì, ma di quelli che han perso e che in molti conoscono… Si tormentava, nelle lunghe notti dormendo poco, non riuscendo a trovare risposte, tanto meno assoluzioni o consolazioni. 

Solamente sapeva che, quella maledetta fine di aprile, se ne erano andati via quasi tutti, abbandonato la Repubblica pur rimanendoci: quelli, pochi, che cercavano “la bella morte” e quelli, i più, che tentavano di salvare, più prosaicamente, le cuoia, la famiglia, un po’ di beni e fuggivano alla cieca, come mucche impazzite. Poi migliaia di italiani, per lo più senza colpe, vennero uccisi a sangue freddo, macellati come tali o con sbrigative parodie di processi, detenuti in buchi orrendi, seviziati o fuggitivi, se fortunati; e pure gli immancabili traditori dell’ultima ora. O magari nascosti in un convento, il rovescio d’una orgogliosa scelta da eroi…

Tutti perduti, morti e vivi, senza ali per tentare di volare o il diritto a permanere nella memoria collettiva condivisa; affogati non in un gran mare azzurro, ma in una pozzanghera torbida, limacciosa – il lascito della tragedia – intuita come probabilmente duratura o chissà irreversibile.        

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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