Il racconto. L’Italia del 1945 come “Terraodio”

Gianni Marocco presenta una storia romanzata della guerra civile e dei veleni partigiani

Non è vero che tutto il mondo è paese. Almeno non sempre e non ovunque. L’Italia del 1945 era sicuramente la terra dell’odio, almeno a Nord di quella che fu, durante il conflitto, la Linea Gotica, il fronte tra la Wehrmacht in Feldgrau ed i variopinti Eserciti Alleati nell’inverno 1944-’45 e nella seguente primavera, sino a fine aprile. Combattimenti, morti e pidocchi. 

La guerra si sarebbe decisa in altri teatri, su diversi fronti. Ciò lo sapevano bene sia Alleati, sia germanici. Siccome le loro armi, il combustibile, per non parlare di aerei, artiglierie pesanti e contraeree, erano sempre più scarsi, l’obiettivo dei tedeschi era semplice e realistico. Ritardare per quanto possibile l’avanzata alleata verso il Brennero. Essi facevano poco conto sull’efficienza militare dell’Esercito della Repubblica Sociale, comandato dal Maresciallo Rodolfo Graziani, e sugli altri corpi “di fede fascista”. Il tradimento dell’ 8 Settembre non era stato digerito a Berlino, soprattutto dalle SS, ed un assai indebolito Duce non offriva garanzie di capo militare. Mai lo era stato. Lui si sarebbe solo dovuto occupare della lotta antipartigiana. Ció che il Duce faceva di malavoglia, circondato da fedeli talora fanatici, alla Pavolini o Preziosi, poco stimati. 

Mussolini tra popolo e debolezze

Mussolini si sentiva ancora, seppur residualmente, e non sempre, il Capo di tutta la Nazione, non di una fazione in lotta. Il repressore della resistenza badogliana e comunista, il difensore dell’ordine interno ad ogni costo, non erano ruoli a lui congeniali. Non era un capo crudele di torve lucubrazioni, inflessibile, ma un uomo del popolo con le sue collere, debolezze, solidarietà, perdoni. Spargere sangue italiano ripudiava alla sua vecchia anima di socialista romagnolo, alla scarsa simpatia nutrita verso un alleato spietato che manifestava diffidenza, sfiducia alla sua volontà, o presunzione, di guidare ancora da protagonista una transizione sia politica, sia verso più avanzati obiettivi istituzionali e sociali. Le famose “Uova di Drago” della velleitaria e tardiva socializzazione.

La liberazione dalla reclusione del Gran Sasso, il 12 settembre ’43, non aveva colmato il Duce di giubilo, tutt’altro. Lo si intuisce dalla sua faccia nel filmato di quell’episodio. Mussolini capiva che, a partire da quel momento, egli sarebbe diventato, al massimo, il Gauleiter dell’Italia settentrionale sotto il potere militare germanico, nulla di più. L’Operazione Quercia, Unternehmen Eiche, pianificata dalla Luftwaffe del generale Student, anche se poi il gigantesco Otto Skorzeny, promosso Sturmbannführer delle Waffen SS, si prese tutto il merito del brillante Blitz, gli aveva dimostrato che il suo futuro, purtroppo, non dipendeva dai suoi connazionali e fedeli, discioltisi come neve al sole dopo il Colpo di Stato monarchico del 25 luglio 1943. 

La sua richiesta ad Hitler di ritirarsi a vita privata alle Caminate, progetto accarezzato da tempo, trovò nell’alleato un netto rifiuto. Alla causa tedesca poteva, e fino ad un certo punto, servire un Duce ridimensionato, ma di nuovo in sella, non un pensionato. Cosí cominciò la risaputa storia dei seicento giorni della R.S.I. o Repubblica di Saló, con il suo tragico finale, quando i tedeschi pensarono a salvare le proprie cuoia di fronte all’avanzata alleata nella Pianura Padana, non a preoccuparsi dei collaborazionisti italiani, razza da loro disprezzata.

Giunse la liberazione o disfatta del 25 aprile e giorni seguenti, a seconda dei punti di vista, la gran mattanza dei fascisti, o presunti tali, da parte di partigiani, spesso dell’ultima ora, teppaglia anarcoide, senza scrupoli e poca disciplina di sorta. Qualcuni ha definito la Resistenza una somma di idealisti ed eroi (pochi), renitenti alla Leva, assassini o rubagalline… Parallelamente i comunisti si servivano della feccia e del terrore verso i vinti per legittimare le loro aspirazioni a governare l’Italia. Il terrorismo comunista durò fino al 1949, ben oltre il 18 aprile 1948. Fino a quando Scelba cacciò dalla Polizia i resti della canaglia partigiana. Gli intellettuali “azionisti” ed antifascisti in genere giustificavano le violenze. Così che un conflitto mondiale, iniziato per l’Italia in base alla “sindrome di Crimea” – quell’atteggiamento “volpino” che il vecchio Piemonte sabaudo aveva trasmesso alla nuova Italia, di partecipare sempre e comunque ad ogni conflitto, ad ogni operazione militare, non importa se le battaglie si vincessero o no, perché ciò contribuiva a confermare la percezione dell’Italia nel ruolo di Grande Potenza – terminava nel modo più rovinoso immaginabile. All’inizio del secolo, l’Italia era la “sesta ruota” di un carro trainato da cinque potenze, quelle dell’Intesa e quelle della Triplice Alleanza, più forti in termini militari ed economici. Ora non c’era più l’Austria-Ungheria, ma Giappone e Stati Uniti erano attori mondiali.

La resistenza antinazionale

La resistenza, seppur amplificata e magnificata ad ogni piè sospinto, non avrebbe fondato alcun sentimento nazionale e neppure i Governi a guida democristiana, quegli eredi del Non Expedit, contro i quali l’Italia massonica ed anticlericale aveva forgiato la propria Unità nazionale.

“Moriva la Patria” e quanto essa aveva rappresentato dal Risorgimento in poi. Tornavamo ad essere un Paese a sovranità limitata, un po’ come il Ducato di Modena e Reggio dopo la Restaurazione del 1815. Tutto ciò importava poco a quanti festeggiavano la prima estate di pace, nel ’45. Finito il coprifuoco, la paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti, degli attentati, delle rappresaglie, lo spettro del lavoro obbligatorio nel Reich, il tempo della quotidiana, reiterata   frequentazione della morte, vista in molte sue rappresentazioni, dai cadaveri imbiancati tirati fuori dalle macerie, ai fucilati alla schiena o impiccati per rappresaglia, lo scoppio della pace pareva infondere ai sopravvissuti un’euforia smodata di vivere, divertirsi, recuperare il tempo perduto. 

Per i giovani era una sbronza di libertà quell’estate, con notti di ballo senza fine, di ragazze che volentieri esibivano una carne generosa e desiderosa di farsi ammirare, mal ristretta nei vestitini di cotone cuciti in casa, troppo a lungo celata agli sguardi. I ragazzi erano magri, tirati a lucido nel fisico, magari in canotta, ma simpatici, divertenti, squattrinati, con un sacco di cose da raccontare, vere o inventate. Il conflitto, le lunghe ore nei rifugi antiaerei, le coabitazioni con i parenti, le promiscuità obbligate avevano anche determinato una mentalità in parte nuova, più aperta, costumi potenzialmente diversi, fatto cadere moralismi da sacrestia, mescolato gli odori corporali, fatto evaporare molti pudori antichi.

Ballo sulle macerie

Ci si muoveva nei tram sopravvissuti, su autocarri di fortuna od in bicicletta, si ballava un po’ ovunque, soprattutto a Milano e nelle città del Nord, al chiuso o all’aperto sul selciato, languidamente al suono di vecchie melodie o scatenandosi in ritmi sconosciuti, vitali, assaporando, dopo cinque interminabili anni, il profumo inebriante di una libertà nuova, di un’atmosfera che pareva far dimenticare le macerie, la fame che non era certo finita, i problemi che erano da risolvere. Una povertà che per essere da tanti condivisa e patita non cessava, purtroppo, di essere drammatica. 

Eppure si respirava un ottimismo contagioso, sullo sfondo di un mito “americano” tanto idealizzato quanto remoto, che si confondeva con la loro “propaganda di guerra”, illusoriamente prossimo, diffuso, generalizzato. La vitalità era però autentica, debordante, come una brezza inebriante che cresce giorno per giorno, fino a convertirsi in vento impetuoso, quasi incontenibile.

Era l’Italia che ancora si “arrangiava” per sopravvivere, delle tante piccole astuzie ed illegalità. Era, più grave, l’Italia che a guerra finita esibiva nelle periferie, ogni mattina, un panorama di morti ammazzati nella notte, esecuzioni sommarie senza neppure una parvenza di legalità, criminalità comune o vendette private ricoperte di ideologia, cadaveri sconosciuti nei fossi e sulle massicciate delle ferrovie. Anche un’estesa convinzione che si trattasse dell’eredità fisiologica, terminale della sanguinosa guerra civile, del lascito funesto di tutto l’odio che era stato sparso ed accumulato in quei seicento maledetti giorni di guerra, “fratello contro fratello”. 

Un qualcosa in naturale via d’estinzione, prima che le porte della vera pace si schiudessero, finalmente per tutti, per vite normali, gite al mare ed in montagna, scampagnate allegre, gli sfoghi logici dell’età giovane e spensierata. Per misurare quanto sarebbe, invece, stata lenta la risalita, basterebbe rivedere non solo le seriose e noiose pellicole del neorealismo ma, ad esempio, i film “Poveri ma belli” del 1957 o “I soliti ignoti” del 1958.   

Comunque, così pensavano in molti, giovani e meno, in quella torrida estate del ’45. Il Paese era semidistrutto, le strade e le ferrovie spesso ancora interrotte, impraticabili, molte case bombardate, le convivenze comuni diffuse ovunque. Ma tutto sarebbe stato ricostruito, rimesso al suo posto, quel brutto sogno di cinque, lunghi anni spazzato via, sussurrava l’ottimismo della volontà e della speranza. 

La storia di Sebastiano Accardi

Anche Sebastiano Accardi, che la guerra l’aveva fatta soprattutto da imboscato, ma che aveva studiato una storiella da raccontare per non apparir male agli occhi dell’interlocutore. Una storia da renitente alla leva –  e fin qui era la verità, neppure originale – ma con un seguito fantasioso da combattente partigiano in montagna. In realtà egli era rimasto nascosto in casa degli zii, in campagna, in una località fuori mano, fino al 25 aprile. Poi aveva trovato il modo di farsi rilasciare un lasciapassare dal Cln che accreditava la sua condizione di partigiano combattente. Che mai aveva sparato un colpo, ad onor del vero… 

Sul suo prossimo futuro Sebastiano non aveva idee chiare. Avrebbe “tirato a campare” come tanti altri, come aveva appreso in quegli anni: 

– Solo gli eroi ed i fanatici ci lasciano la pelle – ripeteva con cinismo. Cosí aveva elaborato la sua mente in quelle settimane ed il panorama circostante sembrava dargli ragione. La pancia era stata bucata ad altri. I furbi erano sopravvissuti.

– Avevamo iniziato la guerra da quasi certi vincitori al fianco della Germania, l’avevamo persa e poi l’avevamo comunque vinta dalla parte degli Alleati! – commentava in casa. Non era quella una prova della nostra sapienza antica?

Non che Sebastiano pensasse a vivere d’espedienti, quello no, ma non aveva idea su come avrebbe sbarcato il lunario, una volta che fosse cessata la solidarietà familiare. Qualche cosa l’aveva pur pensata, ma confusamente, da attuare senza fretta: 

– Perché proccuparsi per il momento?  

Era ora di festeggiare, di recuperare il tempo perduto, di divertirsi. Poi si sarebbe visto. 

– Se sono sopravvissuto alla guerra, figuriamoci se non riuscirò a sopravvivere alla pace – diceva alla madre il giovane e trovava in quell’assioma facile e semplicistico, tutto da dimostrare e da attuare, motivi di spicciolo conforto. Le vere gratificazioni la vita gliele offriva con nomi e corpi di donne. Sebastiano era un bel ragazzo. Aveva fatto girare la testa ad Antonietta, Luisella, Franceschina, Lauretta…

Poi, una notte, ballando, conobbe Mara. E fu l’inizio di un’altra storia. Di passione vera, di un sentimento forte, di sesso soprattutto. Non che la ragazza avesse un carattere facile. Un’operaia di vent’anni freschi, freschi, capelli ed occhi scuri, busto prosperoso, vita sottile, una bella bocca di denti sani, come piaceva agli uomini, gelosa, di lingua svelta e pungente, facile ad adombrarsi, inquieta, talora imprevedibile.

L’universo di Mara 

Mara pareva riassumere l’universo femminile con le sue dolcezze, contraddizioni, slanci, generosità, bizze. Già orfana di madre, aveva perso il padre sotto un bombardamento e viveva con una vecchia zia, ed altri parenti, alla Bicocca. Un vetusto edificio di ringhiera, con ben poche comodità ed intimità, un appartamento sovraffollato. Ma una libertà ampia per orari e presenze in casa. Faceva la sua vita, insomma. Quando non lavorava, era di turno, nessuno le chiedeva conto di nulla. Mara conquistò Sebastiano e viceversa, rapidamente. Andavano a ballare, camminavano, conversavano. Sognavano un futuro diverso, di soddisfazioni, cibi buoni, cose belle da comperare, viaggiare, un lavoro diverso per lei o non dover lavorare più, quando Sebastiano avesse trovato un impiego decente.

Sebastiano non lavorava e non aveva neppur fretta d’imprigionarsi per tutto il giorno. Gli piaceva stare all’aria libera, bighellonare senza una meta precisa, sedersi dove poteva (le panchine dei parchi erano tutte inutilizzate, essendo state portate via le traversine verniciate di legno, a scopo riscaldamento domestico), bere un bicchiere di vino ogni tanto in qualche osteria, almanaccare progetti. Andava a prendere Mara all’uscita del turno in fabbrica e poi l’accompagnava a casa, fermandosi ogni tanto… come erano saporite le sue labbra…

La morte del padre

Un giorno, però, Sebastiano fu bruscamente obbligato al risveglio. Il corpo di suo padre venne trovato, una mattina, sulla massicciata della linea ferroviaria per Rho. Presentava tre fori di pallottola. Quindi, era stato ucciso e poi il cadavere gettato dal ponte sulla massicciata sottostante. Era un impiegato civile della Prefettura. Dopo il 25 aprile era stato fermato dai partigiani, ma poi rilasciato tre giorni dopo. Sebastiano non sapeva ora spiegarsi il perché della morte del padre. La sua vita improvvisamente cambiò.

Anche se Mara gli fu assai vicina e faceva di tutto per risollevarne il morale, Sebastiano cadde in un pozzo profondo di depressione. Che senso aveva che suo padre fosse stato assassinato vari mesi dopo la fine della guerra, senza colpe, senza ragioni apparenti?  Da chi, poi?

Fabrizio non sentì pace. Si rimise dalla prostrazione acuta, cominciò ad investigare per proprio conto, giacché la Polizia si rifugiava dietro frasi di comodo. Del resto molti partigiani erano stati arruolati nella Polizia. A lui importava poco degli altri morti ammazzati. Forse  che suo padre apparteneva ad una categoria a rischio? Era stato coinvolto in qualche deportazione?

Alla ricerca degli assassini

Come trasformato, Fabrizio si tramutò dal bighellone svogliato, un ragazzo che quasi non vuol crescere, in un figlio determinato a scoprire e vendicare, se possibile, la morte del padre. Parlò con i colleghi d’ufficio del padre, con quelli che qualcosa dovevano aver pur visto, anche se erano reticenti. La paura dominava sovrana in quel momento, in tutta la città. Piazzale Loreto non era stato dimenticato. I corpi di Mussolini, di Claretta, dei gerarchi fatti segno del pubblico ludibrio, la ‘macelleria messicana’, un infame, incivile vilipendio, erano negli occhi di tutti. 

La Volante Rossa

E la “Volante Rossa” – fondata da Giulio Piaggio, comandante partigiano della 118ma Brigata Garibaldi, con Paolo Finardi e Natale Burato condannato all’ergastolo nel 1951, fatti fuggire in Cecoslovacchia e poi graziati da Saragat e Pertini Presidenti – funzionava a pieno regime a Milano, nell’impunità, per imporre il comunismo con le armi e gli omicidi. Un’ottantina di militanti. E gli immancabili fiancheggiatori. Sarà la culla delle BR, assieme a brandelli dei GAP.

Solo ora Fabrizio lo percepiva. Fino a quel momento, come tanti, aveva cercato di rimuovere le cose sgradevoli. Adesso giunse a minacciare dei vicini di casa che negavano tutto. Mara si diede da fare e, attraverso il sindacato, qualcosa le fu detto. Un giorno qualcuno infilò sotto l’uscio del suo appartamento una busta anonima, con un nome: M***. Era uno dei sottocapi comunisti di Milano, responsabile di aver assassinato molti fascisti. Perché proprio ora aveva deciso di eliminare suo padre e non nei giorni immediatamente seguenti il 26 aprile? Mistero.

Sempre attraverso Mara, Fabrizio trovò un altro partigiano, Aldo, diventato nemico personale di M***, a causa, pare, di oggetti preziosi trafugati dalla casa di una delle vittime, poi non suddivisi. Superata l’iniziale diffidenza, dopo averne parlato un po’, questi disse al giovane:  

– M*** è una brutta bestia. Tu mi dici che avrebbe ucciso tuo padre senza un preciso movente politico. È possibile. Ultimamente è diventato un ladro ed un estorsore, per quanto ne so. Una vergogna per il partito che un giorno la risolverà. Se sei deciso a farlo fuori ti posso dare una mano. Ma poi fallo da solo, non parlarne con nessuno e non farti prendere, perché allora negheró tutto ed aiuterò, anzi, ad eliminarti. Sei d’accordo, ragazzo? Mi hai capito bene?

– Accetto, Aldo. Ho compreso e non sbaglierò.

La fine del partigiano

Fu così che un mattino il corpo di M***, partigiano abbastanza famoso e decorato, venne rinvenuto cadavere sulla massicciata della ferrovia, buttato giù dallo stesso ponte del padre di Fabrizio. La Polizia lo interrogò. Mara gli fornì un alibi convincente. Il caso fu archiviato, come tanti altri in quel periodo. Nessuno pianse la sua morte. Quella era ancora la terra dell’odio. Tale sarebbe rimasta, ben oltre la calda estate del ’45, l’autunno e l’inverno che seguirono.

@barbadilloit

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