L’esempio ellenico e classico nella battaglia contro il mondialismo

Il libro “L’identità come fondamento della città – riconciliare ethnos e polis” dello storico Henri Levavasseur unisce la consapevolezza dei valori comunitari alla riscoperta indispensabile di un’etica europea 

Quando il buio profondo cala e i retaggi primordiali di cui si sostanzia l’identità collettiva vengono inesorabilmente depredati, è d’obbligo rigettare il fatalismo imperante per provare ad erigere una controffensiva che riesca a ricucire le sacre tele di un’eredità condivisa. “L’identità come fondamento della città – riconciliare ethnos e polis” di Henri Levavasseur, storico e germanista, marcia proprio in questa salvifica direzione. Si tratta di un contributo culturale interessante, tempestivo, che la casa editrice Passaggio al Bosco di recente ha proposto al lettore italiano in collaborazione con l’Institut Iliade – avamposto valoriale germogliato in Francia nel solco dell’esempio di Dominique Venner. 

Il testo si configura come un prolifico manuale di resistenza al declino della civiltà europea allo scopo di offrire una bussola di ricerca utile ad orientarci nel labirinto della contemporaneità.

L’identità dà forma alla comunità: contro il paradigma liberale

Il nucleo intorno a cui si sedimenta la riflessione di Levavasseur riconosce la sua sorgente sapienziale nell’alba greca del pensiero. Ovvero nella fondamentale consonanza che intercorre tra polis ed ethnos, tra nazione civica e nazione etnica. Da un lato, l’ordine sociale inteso secondo un’accezione puramente geografica: lo spazio territoriale organizzato da chi vi risiede, una riunione di cittadini. Dall’altro, il gruppo umano che si definisce sulla scia di un’origine comune e che appartiene ad un medesimo destino. 

Nella realtà greca, “la polis non si oppone all’ethnos: essa rappresenta certo una forma di organizzazione particolare, circoscritta ad uno spazio limitato, ma non procede per questo ad una costruzione astratta, creata ex-nihilo al di fuori di ogni legame di appartenenza a un dato ethnos”.  

Il guaio della nostra epoca sta nell’aver accettato (supinamente) la definitiva rottura di questo legame ancestrale. Sposando senza remore i canoni del modello liberale, l’umanità ha aperto le porte ad una simile involuzione. I sintomi ci sono tutti. La negazione sprezzante della patria carnale trabocca ovunque, le antiche solidarietà organiche soccombono alla melassa del capitalismo apolide e sradicante. Estraneo a qualsiasi aspirazione superiore, privo di vincoli etnici, culturali, il soggetto postmoderno smarrisce la tensione verticale che regala un significato alla vita e che la innalza oltre le barriere riduzionistiche del presente. 

Essere avanguardia 

Dinanzi a tali sconquassi, qualcosa però sembra muoversi. Comincia ad essere avvertita, seppure incompiuta e talvolta infruttuosa, una più estesa repulsione verso i diktat nauseanti del mondialismo. Contro la violenza di certi meccanismi mortiferi, nella contezza di essere giunti ad un tornante decisivo, le ultime schiere poste a difesa della nostra civiltà vedono infatti nuove coscienze arruolarsi.

Sulla base di una solida visione del mondo, occorre allora “formare un’avanguardia, senza smettere di batterci nelle retrovie”, instaurando un’alleanza inedita tra le forze giovani delle nazioni europee con il fine di “preservare le identità dei nostri popoli nella piena consapevolezza di ciò che ci unisce mediante ciascuna di esse”.

Sulla via di un riscatto continentale

Raccogliere la sfida, rifiutare la narcotizzazione delle anime. È questa la strada che ci suggerisce Levavasseur. Nulla a che fare, insomma, con talune infatuazioni nostalgiche o con qualche inspiegabile tendenza ad alienarsi dal reale: “Non si tratta per noi di coltivare la nostalgia del passato o il ricordo di un’ipotetica età dell’oro, né di rifugiarci in una qualsiasi torre d’avorio; ma di strappare le menti dei nostri contemporanei dal loro torpore, di liberarli dalle menzogne che li paralizzano, di risvegliare le energie per proseguire il cammino in piena lucidità, evitando l’abisso”.

La sintesi (necessaria) tra senso della misura e desiderio di potenza

Ancora, nell’ottica di “evitare l’abisso” risulta condivisibile l’invito dello scrittore a ritrovare un’adeguata sintesi tra senso della misura e gusto della potenza, tra il rispetto degli equilibri e delle gerarchie naturali e quella volontà di conquista che storicamente innerva l’uomo europeo e che gli impone di esaltare la propria indole, di scoprire, di costruire, di affrontare e sovrastare le asperità. 

Levavasseur si tiene a debita distanza sia dagli eccessi delle odierne tecnocrazie, cui l’individuo reificato si è piegato e sottomesso, sia dall’oscurantismo sterile che rinuncia alla possibilità di dominare vantaggiosamente la tecnica e le leggi dell’economia. 

“La salvezza”, afferma, “non risiede né nella fuga in avanti praticata dal modello liberale, né in un ripiegamento verso una forma di idealismo ‘impolitico’. Non abbiamo altra scelta, per essere all’altezza delle sfide attuali, se non quella di ‘cavalcare la tigre’”. Per questo, prosegue, “è più che mai necessario ritrovare il gusto della potenza, perduto da coloro che Nietzsche, nel suo Zarathustra, chiama gli ‘ultimi uomini’, e i cui ideologi che governano oggi le nostre istituzioni europee sono i perfetti rappresentanti. Ma questo ritrovato desiderio per la potenza deve anche coniugarsi col rifiuto della dismisura – forma di follia che i Greci chiamavano hýbris (ὕβϱις), figlia della notte e degli inferi”.

Per un’etica europea

Le coordinate sono quelle giuste. Ma bisogna operare affinché non restino solo buoni propositi. L’agognata rivitalizzazione del Vecchio Continente parte in primo luogo dalla riscoperta personale ed intima di ciò che davvero siamo. L’autore ne è ben consapevole. E non si risparmia quindi dal rievocare l’urgenza inderogabile di riconnettersi ad un’etica prettamente europea, ad un portamento che sia aderente all’uso e alla consuetudine del nostro lignaggio. 

Del resto, “l’appartenenza ad una civiltà si manifesta proprio con un ethos particolare, con un certo modo di ‘tenersi’ di fronte al mondo, di cui non è vietato pensare che non sia esclusivamente il prodotto dell’educazione e della costrizione sociale, ma che risulti anche dalla trasmissione – e dalla lenta sedimentazione – di alcune attitudini ereditarie”. 

Recuperare la postura degli avi deve diventare atto diffuso, e consiste nella predisposizione dello spirito a radicare il suo divenire nell’orizzonte indicato dalla tradizione in una condotta rigorosa che la rinnovi senza deformarla. 

Perché “è conformandoci al nostro ethos, che potremo un giorno permettere al nostro ethnos di ricostituire una città (polis), cioè di dotarsi di una forma ‘politica’ consona al nostro genio”. 

*“L’identità come fondamento della città – riconciliare ethnos e polis” di HenriLevavasseur, Passaggio al Bosco, euro 10, acquistabile qui

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Domenico Pistilli

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