Buttafuoco a teatro è cosa che resta

Lo scrittore siciliano ha presentato al Teatro Garibaldi di Modica il nuovo romanzo “Sono cose che passano" (La Nave di Teseo) e ha regalato al pubblico lo spettacolo che potrebbe essere. Regia di Giuseppe Dipasquale e fotografie di Graziella Buscemi

Pietrangelo Buttafuoco e il nuovo romanzo "Sono cose che passano"

A Pietrangelo Buttafuoco bastano un leggio snello e un microfono, perfino bizzoso, per imbandire (attenti al verbo!) Dioniso. Che non è solo un ebbro divino falloforo, ma è l’istigatore del canto, dell’amore, della follia, della violenza. Dioniso chiede di morire vivendo. E se Dioniso chiede, Buttafuoco risponde.

 

Risponde con un’altra sua storia narrata e recitata, che stavolta, però, muove dalla memoria più intima, quella dell’infanzia come ha confessato ieri sera a Modica, mentre sullo sfondo del palcoscenico scorrevano le foto in bianco e nero dei meravigliosi anni Cinquanta a Leonforte, paesino arroccato tra gli Erei al centro della sua Sicilia.

Sono cose che passano” è un viaggio in una terra che c’è e che non c’è. Nell’avvertimento al lettore Buttafuoco la chiama astrazione, facendo incappare nella facile equazione Manzoni- misto di storia e invenzione. Invece, no: c’è che lo scrittore getta la penna oltre l’ostacolo del genere (esistono ancora i generi?), calandosi ancora di più nell’idea che ogni storia è finzione e ogni verità contiene la sua menzogna. Il teatro, che per Buttafuoco è pelle e sangue, viene restituito all’epistème del guardare.

Acquattato nell’angolo del palcoscenico, da demone buono della scrittura, Buttafuoco omaggia il teatro come luogo dell’abbraccio con i personaggi, come movente del suo guardare questi scampoli palpitanti di memoria. Seppure la realtà dovesse sottrarsi alla sua narrazione e farsi destino, il destino non fu (si dice nel romanzo) e sono cose che passano. Sono, pure, cose che restano.

Resta uno scrittore capace di far sgravare dalla parola l’ispirazione, proprio così, invertendo la freccia del viaggio letterario. Con la furbesca litote del “non ve lo posso raccontare”, Buttafuoco presentandosi come “il piazzista di se stesso” ha sciorinato aneddoti e pennellate di personaggi, ghermiti dal pubblico che, vivaddio, se non ne ha tratto una lezione di vita, di certo se li è portati a casa per imbandirli (attenti al verbo!) nella tavolata della vita. Perché se l’antefatto è un rapace scambio di sguardi all’aeroporto di Palermo tra la sontuosa Ottavia principessa di Bauci e il moscardino Rodolfo, in arte barone Polizzi, è a tavola che la storia ha inizio, quando il diavolo ci mette lo zampino sotto forma di teste di turco, un luculliano piatto di tritato di carne imbottito di uova sode e glassato nel fritto di cipolla, imbandite al povero Rodolfo, che di morire vivendo voleva ancora saperne qualcosa.

Io mi sono divertito a vedere l’animale di lui che guardava l’animale di lei” confessa Buttafuoco e intanto le fa gonfiare lui le lenzuola, ariose di passione e voglia, proiettate qui nella fantasia di chi lo ascolta, nel romanzo dal balcone di Rodolfo e Ottavia verso il campo di grano, tutta fecondità gioiosa, di Leonforte.  “E l’animale che mi porto dentro vuole te”, canta Battiato in sottofondo per cedere poi le lenzuola levitate e l’orecchio stupito fuori dal balcone all’adagio 23 di Mozart. “Il singulto che prende ognuno di noi” dice Buttafuoco mentre si appresta a raccontare gli altri due protagonisti del suo romanzo: la Morte e il Cavaliere. La Morte che commuove e si commuove è il tratto originale del romanzo. Il Cavaliere è Carlo Delcroix, cui Buttafuoco dedica un cameo tutto d’amore, per fare dell’eroe italiano un cieco Omero e un ostinato Destino, quando la storia si allontana dalla Sicilia. La Sicilia di “Sono cose che passano” è il teatro della nobiltà.

L’aristocrazia come segno di eleganza, garbo, educazione. L’aristocrazia, quella vera di Ottavia e Lucy e non quella di donna Tina e Rodolfo, risolve il vizio in gioia di vivere, il duello di lame in sensualità, il lusso in privilegio senza ostentazione, e soprattutto rimette al suo posto le gerarchie. E’ facile chiamarla reazione, più sottile il discorso è se lo si chiama gattopardismo etico. Viene da chiedersi cosa sarebbe accaduto se il Principe di Salina avesse ballato con Ottavia invece che con Angelica.  “Ho sfasciato due luoghi comuni -dice orgoglioso Buttafuoco- il pittoresco con cui è stata rappresentata la Sicilia e il racconto della donna, creatura totalmente potente”. Ottavia è una Clitemnestra disinvolta e tremendamente bella, annoiata e malinconica, crudele e rapace, dominatrice, che dà scacco matto alla rozza suocera e vorrebbe sedurre la signorina Lia. Se in questo resoconto è possibile deviare verso l’emozione personale, ho soddisfatto la curiosità di guardare la foto della signorina Lia: Lia e il suo “Non si deve permettere!” li ho inseguiti nelle pagine del romanzo, aspettati quando per un po’ sparivano.

Nella presentazione scenica- anticipazione di uno spettacolo che verrà?- Buttafuoco calca la mano sulla Sicilia e sul Destino fa spallucce: “Non fu destino” dice sorridendo. Ma chi scrive questo resoconto convoca Famelico, “lo spiritello solforoso” di questo fantasmagorico romanzo, per dire che oltre il leggio, il microfono, le fotografie, le note di Battiato e la Sicilia degli anni Cinquanta “Sono cose che passano” racconta una storia universale, perché scava nel senso dell’uomo alle prese con l’amore, il dolore, il male, il pentimento, il perdono, la giustizia, il Destino, la Morte, la vita. Vale a dire le cose che restano.

@barbadilloit

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

Exit mobile version