Perché non esiste “Il capo perfetto” al cinema e nella vita

L'originale proposta di riflessione sul mondo del lavoro del regista Fernando León de Aranoa, nel film con Javier Bardèm

Bardem ne “Il capo perfetto”

Non è facile spiegare questo film, e la ragione è il grimaldello e substrato fondamentale del film stesso: l’impossibilità di cogliere l’equazione zero, il fulcro di un individuo perché ogni volta che vi si avvicina qualcuno, o qualcosa, il suo equilibrio chimico, la sua ponderatio cambia e si appronta a formare una nuova equazione. 

Dunque, in primis, non lasciatevi ingannare da una copertina del film frivola e banale, come quella che troviamo nei cinema italiani: evidentemente il capo del marketing non aveva un capo perfetto. 

Si entra in sala credendo di vedere una commedia divertente, e si comprende in fretta che è una pellicola di quelle che si collocano nell’alveo del grande cinema spagnolo.

Ma cercheremo di spiegare l’equazione difficile di questo film, considerando, come direbbe Marco Aurelio, ogni elemento nella sua singolarità. Il Capo Perfetto affronta in primis, a livello narrativo, il tema del lavoro, delle lotte contro i licenziamenti, delle ingiustizie e delle gerarchie feudali che si trovano in alcuni ambienti di lavoro. 

E’ sulla natura dell’uomo e la sua costrizione ad una dimensione gerarchica che il film poi si sviluppa, componendo una melodia arguta sulle note delle profonde conseguenze che l’emotional labour può avere sull’essere umano: burn-out emozionale, fusione della sfera della libertà personale e quella lavorativa, licenziamento come sofferenza ma anche ritrovata dimensione della contingenza, della libertà del tempo.

Il capo perfetto della fabbrica di bilance Blanco, si prende cura di te in quanto suo dipendente, suo sottoposto, ma non quando ti butta per strada, solo finché sei un minuscolo ago del suo bilancio, infinitesimale pedina dello scacchiere, dove lui gioca come antagonista del caso e dell’umano libero arbitrio.

La straordinarietà di questo film non è però nel raccontare la lotta, il dolore e l’ingiustizia, non siamo nella fabbrica padana di La classe operaia va in paradiso, né nella Londra polverosa di Riff Raff di Ken Loach. La tela narrativa si sviluppa seguendo l’abilità del Capo di penetrare la sfera privata deI suoi dipendenti, usando il pretesto di portare aiuto come cavallo di Troia. 

A livello filmico, non ha importanza lo scopo primario del capo, di tenere alta la produttività della fabbrica, ma di come lo stesso riesca a bilanciare a suo favore l’equazione caotica della vita e della fabbrica a suo favore. 

Un’abilità di scrittura, di regia, e di recitazione che trasforma all’improvviso quella che sembrava una drammatica commedia in un thriller avvincente, dove il capo gioca a scacchi con le strane equazioni che decidono le coincidenze della vita, e della morte. L’Immagine finale è un urlo interiore, che ci lascia in equilibrio sull’orlo di un burrone, e lascia aperta la trama, decidendo di non chiudere la narrativa.

 A primo impatto può deludere, il non voler trovare una risoluzione, ma l’indeterminatezza è anche la nebulosa alla base di questo film. Forse a livello narrativo si sarebbe potuto introdurre una forza più incisiva che fosse antitetica a quella del Capo, che in un qualche modo finisse per metterlo con le spalle al muro. Ma questo non è il campo da tennis di Match Point, dove la palla determina la fortuna dell’uomo; nel film di Aranoa, è Eisenberg la stella polare e tutto si condensa nell’immagine di quel trapano in silenzio, vicino le tempie del Capo. 

La posizione e la velocità di una particella non possono essere misurate simultaneamente con precisione arbitraria.

Ma passato uno, due giorni, la scena finale resta nella mente, e il pensiero si diverte, ammirato, nel pensare alle possibili, indeterminate, evoluzioni della scena.

*Il capo perfetto, 2022, di Fernando León de Aranoa, con Javier Bardèm, Almudena Amor, Luis Tosar, Celso Bugallo

Dario Fuoco

Dario Fuoco su Barbadillo.it

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