Della Casa torna al Torino Film Festival: “Non sarà un evento di nicchia”

Il direttore della kermesse piemontese sul politicamente corretto: "Lo trovo di un'imbecillità unica. E' una sorta di degrado. che porterà a una reazione tremenda, in senso opposto"

Steve Della Casa

Stefano Della Casa è nato a Torino. E’ noto amichevolmente come Steve dall’epoca della militanza politica. Da allora inventa cineclub, è critico e storico del cinema, autore e conduttore di programmi radio, ispiratore di Film Commission, direttore di vari Festival, regista, talora anche attore: nei Demoni di Giuliano Montaldo è un ufficiale zarista. Tifoso del Torino, cultore del genere western, Della Casa è divertente sempre e serio se occorre.

Steve, vent’anni dopo lei torna a dirigere il Torino Film Festival. Prossima edizione: il 25 novembre. In questi mesi che scelte farà?

“Intanto vent’anni sono un’era geologica per tutti noi: i festival sono cambiati, è cambiato il cinema. Farò tesoro dell’esperienza passata, ma dovrò fare i conti con una realtà tutta nuova. In questo momento ho solo in mente una sorta di bussola: voglio un festival amichevole, inclusivo, che parli ai cinefili estremi ma anche al semplice spettatore. Come questo possa avvenire non lo so, ma ce la metterò tutta. Di certo non voglio un festival di nicchia, intellettuale, con la puzza sotto il naso”.

 

 

 

 

 

 

Il Torino Film Festival non è nato mondano. Ma i giornali si occupano più di mondanità che di critica cinematografica. Anche per questo il pubblico trascura i giornali. Da questa spirale si uscirà?

“Beh, se ne può uscire. L’importante è essere divertenti, il che non significa (solo) fare ridere. La gente esce di casa (o compra i giornali) se pensa di poter trovare qualcosa che, se no, si perde per sempre. Bisogna lavorare sull’unicità degli eventi, contraddicendo Walter Benjamin cento anni dopo”.

Come per l’aristocrazia e per le patate, per il cinema il meglio è sottoterra?

“Non necessariamente. Bisogna però che il sottoterra dia una sperimentazione che ambisca a salire sopra la terra. Bisogna sconfiggere la logica delle riserve indiane: quelle le costruivano i presidenti americani, ma per gli altri, mica ci andavano loro stessi. Ogni tanto ho l’impressione che i registi underground godano nel restare tali e di conseguenza facciano come le patate”.

Nati come riconoscimenti estetici, i premi dei festival non consacrano più un autore.  E’ l’Oscar che lo fa. Perché?

“Perchè sono diventati un circuito chiuso di addetti ai lavori, che non è in sintonia con il resto delle persone. Beninteso, non bisogna assecondare acriticamente la massa, bisogna fare proposte e i festival spesso non ci riescono più. L’Oscar non è un premio della critica, è un premio dell’industria. E Gli Stati Uniti hanno una posizione dominante nel mondo, quindi anche l’Oscar…”.

Ci sono registi già di successo confinati ai film on line. Almeno così lavorano ancora, mi dico. Ma lo trovo triste.

“Tristissimo. La differenza tra i Lumière e Edison è che i primi inventano il cinema come fenomeno collettivo, il secondo come fenomeno individuale. Vinsero i primi, ma oggi Edison sta avendo una rivincita postuma”.

Il sorpasso (col personaggio di Occhio Fino / Finocchio) e Frankenstein Jr. (col gobbo strabico) oggi sarebbero tagliati, non solo Via col vento, perché sudista…

“Lo trovo di un’imbecillità unica. E’ una sorta di degrado. che porterà a una reazione tremenda, in senso opposto”.

Lei ama il western. Un suo sottogenere, quello sudista, è finito con Cavalcare col diavolo, che solo Ang Lee, cinese, accettò di dirigere.

“Il western è l’avventura, qualsiasi scenario scelga. La storia però la scrivono i vincitori, quindi…”.

@barbadilloit

Nicola Caricola

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