“A distanza di una carezza”: Letizia Battaglia tra Ezra Pound e PPP

Il 13 aprile scorso si è spenta la fotografa palermitana che raccontò la violenza e la purezza della sua città

A ceneri disperse si scrive di chi non si disperde. Letizia Battaglia non si disperde perché, anche se volesse dissolversi nel mare, dove ha scelto, o nel cielo, dove comunque ha diritto di stare (fosse quel cielo ancora l’Olimpo), degli artisti resta qui l’impronta.

L’impronta di Letizia Battaglia, caschetto colorato e macchina fotografica e sigaretta, sono le immagini. Una, la più famosa, sovrastava la sua bara nella camera ardente: la ragazza col pallone alla Cala di Palermo. Più iconografica della foto del cadavere di Piersanti Mattarella tirato fuori dall’auto sulla quale la mafia aveva scaricato una gragnuola di colpi. Più iconografica della foto a Bernardo Provenzano fatta dal basso, perché il boss le aveva dato un calcio e l’aveva fatta cadere. Più iconografica della foto di Giulio Andreotti con i fratelli Salvo, gli esattori della mafia. Più iconografica della foto mai scattata ai cadaveri di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perché ci sono sentimenti, dolori e rabbie che non riescono a stare fuori di noi. Così spiega Letizia Battaglia in “Shooting the mafia”, il poetico docufilm  di Kim Longinotto che racconta la sua di iconografia, del suo ribellarsi alla sciocca etichetta di fotografa della mafia. Come se Letizia Battaglia fosse una travet della fotografia.

 

Lei che invece della fotografia era poeta. Letizia Battaglia fotografava “a distanza di un cazzotto, o di una carezza” che è come fare manrovescio del verso.

A proposito dei poeti. Una foto in bianco e nero: lui è anziano e ha la barba, ma non si vede perché la foto è di spalle, lei lo tiene per il braccio – non si sa, forse sì- e imboccano una calle di Venezia con le ciabatte di pezza ai piedi. Un occhio spia questa coppia di vecchi, lui stanco e stufo del mondo, lei forse con l’eco del suo Vivaldi nella testa (piace pensare che fosse Olga e non Dorothy). E’ l’occhio di una giovane Letizia Battaglia non ancora avvezzo a scindere l’emozione dal mestiere (ma l’ha mai fatto?) quello che non scatta la foto. Accompagnata da Emilio Isgrò, il maestro delle cancellature d’arte, Letizia Battaglia incontra Ezra Pound, il vecchio di spalle. Per cancellazione, della voce e dell’obiettivo. La fotografa racconta che davanti al poeta tacque e pianse, mentre il mascara le colava sulle guance (anche questa sarebbe una foto in bianco e nero). Poi Letizia corre in libreria, compra i Canti Pisani e fa del Canto 81 il manifesto della sua arte e della sua vita “avere fatto in luogo di non avere fatto/ questa non è vanità”. C’è anche il bianco e nero nei versi esclamativi e imperiosi “Strappala la vanità”: sono i colori della pica “rigonfia in uno spasimo di sole”.

Letizia Battaglia, però, si immaginò formica “nel suo mondo di draghi” e così riempì Palermo di fotografie, cantò la sua amata odiata città con la forza dell’impegno e dell’indignazione, alla ricerca di quella bellezza che Pound sperava s’insinuasse nella gabbia pisana in cui era stato rinchiuso. Del poeta americano, prigioniero ancora dell’ottuso sovrapporre idee e canto, si avverte nelle foto di Letizia Battaglia l’eco di un’adesione al reale come scarto possibile verso la bellezza. Anche quando la realtà è fatta di sangue, pistole, droga, fame, degrado, sopruso e miseria; anche se è cocciutamente rievocata nei volti e nelle pose aristocratiche della Palermo ricca. Resta, dello strappo della vanità, quel vedere nella violenza mafiosa lo stesso ricatto che Pound vide nell’usura, lo stesso stupro che il denaro compie sul corpo della civiltà. Una civiltà non da rimpiangere ma da rifare. Una Palermo da rifondare. Senza indulgere nella nostalgia arcaizzante e morbosa di Pier Paolo Pasolini, per esempio.

Stavolta le foto ci sono. Trentadue immagini in bianco e nero del poeta friulano, con le mani magre, la faccia scavata e lo sguardo contrito di chi deve difendersi. Trentadue scatti riposti in un cassetto e dimenticati raccontano l’incontro tra Pasolini e Letizia Battaglia. Pasolini è il suo primo soggetto: non si parlano, nemmeno loro,  perché Letizia Battaglia lo fotografa mentre il regista incontra il pubblico, dopo la proiezione di “I Racconti di Canterbury”. Letizia Battaglia ricorda di aver fotografato Pasolini con un’incoscienza “tecnica” che, però, le consentì di trarre la verità dal personaggio. O di strapparne la vanità.

Pasolini e il suo disperato e raziocinante narcisismo spariscono nell’essenzialità di quelle foto. Le scattò al Circolo Turati di Milano. Era il dicembre del 1972 e Pound era morto un po’ più di un mese prima. Letizia lo aveva visto nello stesso anno. Sembra di inoltrarsi dentro un bosco narrativo: tre testimoni del Novecento, tre intellettuali scomodi e scandalosi, tre ribelli. Nel 1967 Pasolini aveva intervistato Pound: l’epica di Pound e la prosa di Pasolini si incrociano nei versi che Pasolini recita al poeta da “Un patto”, riconciliano il padre con il fanciullo cresciuto. E’ sul fanciullo, sull’infanzia, sul degrado delle città che si incrociano invece le strade di Letizia Battaglia e PPP.

Dietro gli innumerevoli sguardi bambini fissati da Letizia Battaglia c’è la volontà, diremmo l’impegno, di denunciare lo stupro alla purezza, alla possibilità del riscatto. Delle bambine Letizia Battaglia ha colto il broncio e il sorriso, i capelli tirati e le pupille come punti di domanda, la sensualità innocente e la dolcezza in pericolo. Poi ci sono i bambini col passamontagna e la pistola, con la sigaretta in bocca che si preparano a diventare boss. C’è un bambino riverso a terra ammazzato in un lago di sangue e ce n’è uno seduto su una poltrona in mezzo alla strada che sembra voler dominare quello sporco mondo. “Mi piace immortalare le bambine in quell’età che si affaccia all’adolescenza, con i loro corpi magri, i capelli lisci che scendono sul viso, le occhiaie nere. Quell’età in cui i sogni sono in bilico, possono infrangersi da un momento all’altro sulla realtà”. I quartieri di Palermo che la mafia ha trasformato in teatri di guerra, le vie piene di odori di cibo e di sangue, la sporcizia e il degrado: lì è facile perdere l’innocenza e l’onestà, la gioia e il sorriso. La speranza. E’ per la speranza che Letizia Battaglia ritrae e cerca i bambini. Le bambine nelle quali si ritrova quando, la prima volta, vide il sesso sporco; i bambini cui i genitori regalano le armi. Le periferie di Letizia e di Pier Paolo puzzano allo stesso modo, ma i ragazzi non puzzano allo stesso modo. Letizia Battaglia sottrae i suoi ragazzi a quella vita a cui PPP li condannava, pur nella dissimulazione estetica o politica o edipica. Il riscatto delle foto e la carnalità ossessiva delle parole. La compassione e il peccato. Stupore non desiderio.  Nessuna indulgenza nemmeno per se stessa, ma solo il rigore di un impegno che coincide con la propria vita di donna e di cittadina, prima che di fotografa.

Letizia Battaglia scattò a Mosca una foto simile a quella di Palermo: la bambina russa ha un cerchio e una corda per saltare ma lo sguardo senza sfida. La potenza degli sguardi è la cifra dell’arte di Letizia Battaglia. Ha fatto scuola. Quattro anni dopo la bambina con il pallone, nel 1984, Steve McCurry, in un’altra foto icona, immortalava lo sguardo di una ragazza afghana. Nello sguardo verde e magnifico della piccola profuga afghana e in quello nero, impettito e un po’ annoiato della piccola palermitana tutta la diffidenza di vite ancora da scrivere. Le vite fotografate da Letizia Battaglia più che ancora incompiute appaiono già strappate. Come le vite dei poeti cui non parlò.

@barbadilloit

@sessadany

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

Exit mobile version