Diario metafisico del filosofo Gabriel Marcel

L'opera, edita da Iduna, è introdotta da uno scritto di Armando Torno ed è curata da Ferdinando Tartaglia

Diario metafisico

Gabriel Marcel è uno dei grandi nomi della filosofia del Novecento. Come tutti i pensatori di rilievo, si sottrae alle facili classificazioni. La sua fu autentica filosofia, trascrizione dei dubbi, delle pressanti interrogazioni che animarono la sua intelligenza curiosa per l’intero arco dell’esistenza. Un tentativo di risposta, quello da lui messo in campo, nel quale la ragione è coniugata con la passione di vita. Lo si evince dalle pagine di, Diario metafisico, uscito in seconda edizione nel catalogo di Iduna, per la cura di Ferdinando Tartaglia e con  introduzione di Armando Torno (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 200, euro 20,00). Il testo, oltre al diario vero e proprio, raccoglie quattro saggi. La prima edizione vide la luce in Italia nel 1943, sempre per la cura di Tartaglia.

    Il curatore rileva, in un intenso e appassionato colloquio con Marcel, alcuni possibili limiti della filosofia di quest’ultimo, anche se, proprio nell’iter del francese, vedeva rispecchiasi il suo stesso percorso. Ma, come nota Torno: «in Francia […] Marcel aveva a sua disposizione orizzonti sterminati e una società sensibile, in Italia il sacerdote Tartaglia non riuscì nemmeno a dialogare con la Chiesa: si arrivò alla scomunica» (p. II). Entrambi erano sati testimoni delle tragedie prodotte dalle due Guerre mondiali e del trionfo della filosofia positivista, il cui ottimismo progressista non li aveva convinti. Marcel, che insegnò lungamente nei licei, fu giornalista, musicologo e critico teatrale, mosse i primi passi in filosofia spendendosi sulle opere degli idealisti tedeschi per giungere, infine, all’incontro con il realismo tomista. Colloquiò con l’esistenzialismo, con il quale condivideva di fatto il punto d’avvio del pensiero: l’analisi della condizione umana. Da tale situazione, Marcel che nel 1929 si era convertito dall’ebraismo al cattolicesimo, trasse la convinzione che: «senza l’aiuto di Dio le creature non riescono a fare che il male nel mondo» (p. I).

   Marcel si definì un “socratico cristiano”, ma tale definizione non è convincente. Pier Paolo Ottonello ritenne che egli fosse: «rappresentante di quel versante della filosofia esistenziale che confina con la philosophie de l’esprit» (p. II). In realtà, a modo di vedere di chi scrive, è il termine “socratico” attribuito a Marcel a non convincere. Il socratismo, infatti, implica che la filosofia sia inesausta interrogazione aporetica, un domandare inconcluso. Al contrario, l’opzione di fede presente in Marcel, di fatto annulla l’interrogazione “aperta”. Detto questo, il pensatore francese è latore di una filosofia centrata sulla ricerca dell’autenticità esistenziale. Non è casuale che Evola in, Cavalcare la tigre, nella sua radicale critica all’esistenzialismo, “salvi” solo la sua prospettiva speculativa. Questi era, infatti, sulle tracce, come si evince dallo scritto che chiude la silloge, Lineamenti di una filosofia concreta, di un pensiero persuaso, mai distinto dalla vita, dalla prassi vitale del singolo che se ne fa interprete.  Leggendo le sue opere e, in particolare, Diario metafisico, che ne registra il travaglio interiore a partire dal 10 novembre 1928, si ha immediata contezza di trovarsi di fronte a una chiara testimonianza di quella che Kierkegaard aveva definito “comunicazione d’esistenza”. 

   Una forma espressiva che rifugge da qualsivoglia retorica del consenso, che mira a “scuotere”, a  svegliare dalle false e facili certezze, il lettore medio. Marcel ha per sodali nomi di rilievo della filosofia dello spirito francese. Lo ricorda Tartaglia citando tra loro Lavelle, Le Senne, Wahl e, soprattutto, Secretan e Hamelin, apprezzati dallo stesso Evola nel momento in cui stava elaborando il proprio idealismo magico. Fin dalle prime pagine del Diario, il pensatore francese si confronta con il problema gnoseologico, prendendo atto che: «non si possono dissociare realmente: l’esistenza; la coscienza di sé come esistente; la coscienza di sé […] come incarnato» (p. 10) Per la qualcosa: «l’immagine dell’uomo cui giunse era quella di un essere incarnato e itinerante come un’anima immortale», rileva Torno (p II). Per tale posizione, qualora si voglia collocarlo nel panorama dell’esistenzialismo, va detto che egli fu l’anti-Sartre. Meglio, fu il testimone di maggior rilievo teoretico della filosofia dell’esistenza cristiana, prospettiva altra da quella, in senso stretto,   “esistenzialista”. Il 5 marzo 1929 scrisse: «Non dubito più. Gioia prodigiosa […] Ho fatto per la prima volta esperienza della grazia» (p. III).

    La scoperta della grazia lo rese edotto dell’inanità della ragione cartesiana: il valore del pensiero va colto nella sua capacità di astrarci dall’esistenza puramente cosale, animale, biologica. D’altro lato, Marcel coglie in, Rilievi sull’irreligione contemporanea, la problematicità della tecnica. Essa, a suo dire, rappresenta uno stimolo all’incredulità e induce il rifiuto aprioristico dell’uomo con il “Tu”, che, al contrario, l’amore e la carità ci fanno incontrare nel volto del  prossimo. Due sono gli snodi più rilevanti della filosofia di Marcel: la priorità della concreta esistenza nei confronti di qualsivoglia universale e il suo confluire nell’assolutizzazione dell’elemento religioso. La filosofia, nella sua prospettiva, non deve condurre a sciogliere l’enigma della vita, ma a far comprendere che essa è fondamentalmente “mistero”: «Un mistero è un problema che usurpa i propri dati, che li invade e perciò li supera come problema» (p. III).

   In ciò è da rilevarsi la prossimità nei confronti di un filosofo misconosciuto del nostro Novecento, Andrea Emo. Il mistero dell’origine, della nostra “presenza”, è testimoniato dalla musica: «Ho capito bruscamente che c’è un’universalità che non è d’ordine concettuale, ed in ciò è la chiave dell’idea musicale» (p. 106). Il suono originario, il mistero del suono. Come rilevato in Nota da Tartaglia, Marcel è: «come documento di un trapasso, come una delle rare voci di un’epoca […] ci sia lecito sperare che la sua ricerca trovi aperture più alte» (p. 198). Un augurio che condividiamo in toto.

Giovanni Sessa

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