Giornale di Bordo. Renato Brunetta se n’è ghiuto e soli non ci ha lasciato

Le invettive contro il tradimento dei tre esponenti politici forzisti andati con Calenda mi lasciano piuttosto freddo, perché, se il traditore ha le sue colpe, anche il tradito ha le sue

Renato Brunetta alla firma per l’accettazione del ministero nel governo Draghi

Ho seguito con molta perplessità le polemiche che hanno accompagnato l’uscita da Forza Italia dei ministri Brunetta, Gelmini e Carfagna e il loro ingresso nella formazione politica capitanata da Carlo Calenda. Le invettive contro il tradimento dei tre esponenti politici mi lasciano piuttosto freddo, perché, se il traditore ha le sue colpe, anche il tradito ha le sue: prima fra tutte quella di non aver saputo scegliere collaboratori o partner affidabili. E a sbagliare nella scelta dei collaboratori Berlusconi, che come manager e in seguito come presidente di club e uomo politico aveva commesso pochi errori, cominciò proprio nel 2008: l’anno che parve consacrare il suo trionfo, vedendolo dopo le elezioni anticipate alla testa di una larga maggioranza e alla guida di un partito che aveva fagocitato quanto rimaneva di un’Alleanza Nazionale disastrata dal correntismo e da alcune improvvide esternazioni di Fini.

L’errore più grave Berlusconi lo commise nominando ai vertici del Popolo della Libertà Denis Verdini. Non solo perché in seguito lo avrebbe malamente abbandonato, ma perché nominare un laico dichiarato alla testa del partito proprio mentre, col pontificato di papa Ratzinger, la Chiesa era vicinissima al centrodestra, fu un errore marchiano. L’ascesa di Verdini andò di pari passo con la progressiva emarginazione di Marcello Pera, figura di indubbio spessore culturale, e soprattutto con la nomina nel nuovo governo delle tre persone che nelle ultime settimane gli hanno voltato le spalle. 

Il movimento di Berlusconi, la cui forza era stata dapprima l’utilizzazione di alcuni qualificati quadri Fininvest, poi la capacità di cooptare esponenti dei partiti della prima repubblica (persino un ex dirigente “migliorista” del Msi come Domenico Mennitti), alti ufficiali, intellettuali di spicco, da Colletti a Melograni allo stesso Pera, cominciò ad assistere allo scadimento della sua classe dirigente proprio mentre la volontà degli elettori gli aveva consegnato una larga maggioranza. Quel ceto medio colto e benpensante che aveva assicurato larghi consensi a Forza Italia cominciò a sentirsi a disagio: disagio aggravato, è onesto aggiungere, dalle divagazioni erotiche del Presidente e soprattutto dalla presenza ingombrante e inquietante della Pascale.

Sorvolo su Mara Carfagna, il cui arrivo al dicastero fu accompagnato da dicerie sollevate proprio da parlamentari di Forza Italia della vecchia guardia, insofferenti di un sistema di reclutamento dei vertici quanto meno irrituale. Ha ammesso di dovere tutto a Berlusconi, ma, si sa, la riconoscenza è la virtù di chi deve chiedere ancora qualcosa. 

Diverso il caso della Gelmini, cui venne affidato uno dei ministeri più prestigiosi e delicati, come la Pubblica Istruzione. Non aveva competenze specifiche, ma non le aveva, quando entrò in Viale Trastevere, nemmeno la Moratti, che però, donna di ben altra levatura, aveva avuto il buon senso di accettare anzi sollecitare consigli da persone qualificate, come l’allora responsabile scuola di An Giuseppe Valditara. La sua riforma dell’istruzione fu dettata in prevalenza da preoccupazioni contabili, e in questo può essere in parte giustificata. Ma l’ulteriore colpo inflitto agli istituti professionali, sempre meno professionalizzanti, e la “delatinizzazione” del liceo scientifico non hanno recato certo benefici al nostro sistema educativo. Né seppe circondarsi di persone qualificate, come l’infelice gaffe del comunicato stampa sul tunnel scavato fra Ginevra e il Gran Sasso rivelò alla pubblica opinione. Anche la circolare con cui prevedeva la non promozione per gli alunni che avessero totalizzato più del 25 per cento di assenze non contribuì alla serietà della scuola, anche perché i collegi dei docenti previdero generose deroghe per gli studenti stranieri, che magari trascorrevano metà dell’anno nei paesi d’origine, mentre alcuni alunni italiani persero l’anno per le conseguenze di una malattia non prontamente certificata.

Il caso più serio è stato però quello di Brunetta, il professore universitario nominato ministro per la pubblica amministrazione. Invece di fare quello che avrebbe dovuto fare per prima cosa una volta entrato nel dicastero – reintegrare i dirigenti nominati dal precedente governo Berlusconi, che Prodi aveva epurato prima della fine del mandato con una norma dichiarata incostituzionale – intraprese una feroce campagna contro i dipendenti pubblici, trattati senza sfumature come “fannulloni” (un epiteto che avrebbe dovuto rivolgere anche contro di sé, visto che un docente universitario è un pubblico dipendente). Le sue esternazioni parlarono alla pancia di quelle categorie di lavoratori autonomi che avrebbero comunque votato il centrodestra, ma umiliarono e demotivarono quei pubblici dipendenti che si riconoscevano nelle posizioni del popolo delle libertà, offesi proprio da chi avevano col loro voto contribuito a mandare al governo, e messi alla gogna dai colleghi. Che un tale comportamento non comportasse un beneficio elettorale fu dimostrato dalla clamorosa “trombatura” di Brunetta nella corsa a sindaco nella “sua” Venezia: se avesse totalizzato i voti di lista riportati dal centrodestra, sarebbe divenuto senza difficoltà primo cittadino, ma l’impopolarità delle sue esternazioni giocò un brutto scherzo al suo ego smisurato.

In una recente trasmissione televisiva, Brunetta ha manifestato tutta la sua sofferenza per essere stato preso in giro, con la citazione invero poco felice di una canzone di De André, per la sua statura non eccelsa. E la stessa sinistra che ha ironizzato a lungo sulle scarpe col tacco del “nano” Berlusconi ha solidarizzato prontamente con lui, contro gli “odiatori”. Ma quella che Brunetta scatenò contro i pubblici dipendenti, imponendo loro persino fasce di reperibilità più ampie, se in malattia, rispetto ai privati, non era anche quella una campagna di odio, che non fruttò certo consensi alla destra?

Ora il trio Carfagna, Gelmini, Brunetta “se n’è ghiuto”, ma per fortuna soli non ci ha lasciato. Più che portare via voti al centrodestra, credo che recheranno problemi a Calenda, costretto a sacrificare seggi (forse) sicuri nel “listino” per premiare la loro defezione. Nessuno di loro – a parte forse la Carfagna – ha avuto dagli dei il dono della simpatia e tutto lascia presumere che il loro contributo al futuro di Azione sarà fecondo quasi come le nozze tra Francesca Pascale e Paola Turci. 

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Enrico Nistri

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