Stefan Zweig, il destino infranto di un europeo

Lo scrittore conoscerà due guerre mondiali, la caduta di un Impero, la persecuzione dei suoi. Tanti cataclismi che lo porteranno al suicidio, lui ebreo di ascendenza, austriaco di nascita ed europeo di cuore. I suoi racconti, le sue memorie (Il mondo di ieri), le sue biografie, la sua corrispondenza ci ricordano che testimone amichevole sia stato

Stefan Zweig

Stefan Zweig avrà conosciuto due guerre mondiali, la caduta di un Impero, la persecuzione dei suoi. Tanti cataclismi che lo porteranno al suicidio, lui ebreo di ascendenza, austriaco di nascita ed europeo di cuore. I suoi racconti, le sue memorie (Il mondo di ieri), le sue biografie, la sua corrispondenza ci ricordano che testimone amichevole sia stato.

Non si sa mai, quando si parla di Vienna, se si deve cominciare con Il Bel Danubio blu, le poesie di Hugo von Hofmannsthal, il castello di Schönbrunn o la scuola freudiana. Vienna non è monolitica, anche solo per la sua fantasia architettonica, a metà strada tra Versailles e Ludovico II di Baviera, incorniciata da una pletora di artisti e pensatori, e su cui aleggia il fantasma di Sissi. Una delle grandi capitali europee della cultura, più di Berlino, quasi quanto Parigi. Se c’è un autore in tutta questa costellazione viennese che ne ricorda il glorioso passato e la caduta brutale, i contrasti e le armonie sofisticate, è proprio Stefan Zweig.

Nato nel 1881 in una famiglia di industriali e banchieri ebrei, nel cuore di un Impero che sembrava messo lì per sempre e in una città che brillava ancora di tutti i suoi fuochi, sfoggiando il fasto abbagliante della Doppia Monarchia, il destino di Stefan Zweig si confonde con quello di questa Mitteleuropa, scossa una prima volta nel 1914, prima di sprofondare definitivamente negli anni Trenta. Scrittore cosmopolita, europeo di convinzione, aristocratico nei modi, famoso in tutto il mondo, Zweig è proprio il viennese per eccellenza, l’ultimo figlio di una città prodiga di geni.

Vermeil e merveille di Vienna

Si potrebbe quasi dire parafrasando Talleyrand: chi non ha vissuto in questa Vienna prima del 1914 non ha sperimentato il piacere di vivere. La “Gemütlichkeit”, l’intimità rilassante, l’armonia in un mondo confortante. Ciò che Zweig chiama “l’età d’oro della sicurezza” e che ha fatto rivivere un’ultima volta nelle sue memorie, Il mondo di ieri, completate poco prima della sua morte volontaria, nel 1942, in un esercizio di risurrezione letteraria perfettamente padroneggiato, che intreccia nostalgia per questo mondo defunto e terrore davanti ai tempi presenti.

È quanto emerge anche dalla sua corrispondenza. A leggerla sembra di tornare al XVIII secolo, l’età d’oro dell’arte epistolare, quando un intero continente si scambiava idee sotto forma di lettere ed epistole. Zweig è del resto un uomo dei Lumi, ma immerso, per una sfortunata coincidenza di nascita, in una sorta di notte storica. Niente lo predisponeva, né la sua educazione, né il suo ambiente sociale, tanto meno la città che l’ha visto nascere, ad affrontare questo scatenamento della storia.

Questa Vienna inghiottita è stata sia un rifugio accogliente per gli ebrei, che ne hanno fatto il loro centro culturale, sia uno dei focolai dell’antisemitismo. Una città dove convivono Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, e Karl Lueger, che sperimentava alla testa della municipalità l’antisemitismo moderno. La capitale di un Impero non del tutto smembrato e una città noncurante e provinciale che ignorava il trambusto delle grandi metropoli europee. Un mondo di Ancien Régime dai rituali immutati, popolato da borghesi bonari dalle basette brizzolate, e una società effervescente che inventava il XX secolo, sotto l’impulso di Freud, Schönberg, Mahler, Wittgenstein, Robert Musil, Gustav Klimt, i grandi artigiani di questa “modernità viennese”.

Zweig è il testimone fondamentale di questi anni. I suoi successi, la sua curiosità, la sua generosità, il suo saperci fare hanno aperto tutte le porte per fare di lui il trait d’union ideale tra la Vienna degli Asburgo, modellata sulle abitudini dell’imperatore Francesco Giuseppe, il modello rassicurante di una civiltà espirante, e la generazione della “Jung Wien”, la Giovane Vienna artistica. Da solo, l’antico e il contemporaneo. Un classico per quanto riguarda la forma, ma un moderno per i suoi temi preferiti e il suo umore, alternando periodi di spensieratezza e fasi di depressione, prima di cadere in disgrazia.

L’andirivieni nel passato

Zweig era un mago dalla forma corta. Apparteneva alla famiglia dei delicati, non dei penetranti, letterariamente parlando; non violando il suo lettore, ma avvolgendolo in velluto e seta. Nessuna violenza espressiva in lui. Procedeva con tocchi allusivi e suggestivi, abbandonando i grandi affreschi a favore di dettagli isolati presi in una sfocatura intenzionale. La foto tremante di una passione amorosa, di un fallimento, di un rimorso. Il suo racconto Il viaggio nel passato, dal titolo così caratteristico, condensa da solo l’arte romanzesca di Zweig. La brevità corrispondeva al clima psicologico che desiderava instaurare. Momenti rubati, anime che si abbracciano prima di separarsi, soste nella solitudine di esistenze martoriate. L’opera di Zweig è come una sorta di confessionale pubblico in cui sconosciuti confessano i loro segreti a lettori indiscreti attraverso monologhi ansimanti. Ma mai queste confessioni liberano le coscienze. La solitudine ha sempre l’ultima parola.

L’autore di Sovvertimento dei sensi ha capito molto presto questo mondo di commedia, di finzione, di illusioni. Tutto questo lo renderà un essere disilluso, piuttosto che ribelle. Provava una sorta di timidezza di fronte alla vita, soprattutto la vita profusa e confusa dei geni. Era disarmato davanti a loro, amandoli come solo i bambini sanno amare, credendo solo nella letteratura, nel suo potere e nei suoi sacerdoti, tanto che collezionerà, come un vero feticista, manoscritti originali e lettere autografe (fino alla scrivania di Beethoven). Confesserà ingenuamente a Schnitzler di sentirsi di fronte a lui sguarnito come un bambino, e, da buon allievo, sottoponeva tutti i suoi testi al severo giudizio di Freud. Romain Rolland, Rilke, Rodin, Joseph Roth, Freud, tutti maestri che venerava al pari degli dei. Le sue lettere sono intrise di affettuose formule di cortesia, di “caro maestro” riverente, che possono far fraintendere la qualità della sua amicizia e della sua ammirazione. L’una e l’altra sono tuttavia irreprensibili. Niente di meschino in lui, niente di piccolo, tutto è altero. Una lealtà a prova di bomba.

Al servizio dei geni

Il genio degli altri sarà il grande affare della sua vita, molto più delle donne, le sue prime lettrici. Ne ha perseguito il segreto nella sua corrispondenza e nelle sue innumerevoli biografie. Mentre nei suoi romanzi e nei suoi racconti raccoglieva le sue forze attorno ad alcuni personaggi e si concentrava su angoli oscuri dell’anima umana, qui afferra il mondo a piene mani. Un detenuto della scrittura, che aveva in mente una vasta serie di ritratti, I costruttori del mondo, su cui ha fatto progressi, lavorando tramite trittico. Prima i suoi Tre maestri (Balzac, Dickens, Dostoevskij). Poi La lotta col demone (Kleist, Hölderlin, Nietzsche). Seguito da Tre poeti della propria vita (Stendhal, Casanova, Tolstoj). Infine L’anima che guarisce (tra cui un ritratto del padre della psicoanalisi). Saranno poi monografie: Fouché, Maria Stuarda, Maria Antonietta, Magellano. Tutti questi libri riscuotono un enorme successo. Il pubblico ha vendicato il proprio autore con una certa indifferenza dei suoi coetanei, quando non era ostilità. Hermann Hesse, Thomas Mann, Rilke, Schnitzler, nonostante suoi amici, lo hanno regolarmente graffiato. Troppo facile, troppo accademico. Non importa, i lettori hanno continuato ad acclamarlo, rimanendo fino ad oggi uno degli scrittori più letti al mondo.

Il grande nemico di Zweig è stata infine la storia contemporanea. Ha rimandato il più possibile il suo confronto con essa, rifugiandosi nel passato, nei viaggi, nella finzione, nel superlavoro, nella depressione. Tutto tranne l’orrore dei tempi presenti, come se si rifiutasse di credere che potesse durare. Ma ecco, è continuamente sopraffatto dalla follia degli uomini, dalle loro guerre assurde, dal suo destino ebraico. Dovrà lasciare l’Austria nel 1934, fin dalle prime umiliazioni naziste, per stabilirsi in Inghilterra, prima dell’esilio definitivo nel 1941, a Petrópolis, in Brasile.

L’unico partito che adotterà davanti a questa “guerra civile europea” (1914-1945), per parlare come lo storico Ernst Nolte, che riempirà quasi la seconda metà della sua vita, sarà quello del pacifismo e della necessaria unificazione dell’Europa. Romain Rolland lo chiamerà d’altronde il “grande Europeo”. Non era un intellettuale nel senso che diamo a questa parola. Non voleva impegnarsi, ma disimpegnarsi dagli impegni e dai vassallaggi. Ciò che protestava in lui non era né l’ebreo, né l’austriaco, ma l’uomo. “Quanto sarebbe comodo essere sionista o bolscevico o qualsiasi altro tipo di uomo determinato piuttosto che essere legno galleggiante nelle onde impetuose”.

Il suo compagno Erasmo

Troppo arruolato al servizio di una causa, temeva di ritrovarsi sullo stesso piano dei nazisti, di essere a sua volta un piccolo soldato irregimentato, schierato dietro quella che chiamava la “Camera corporativa della scrittura”. Si rifiuterà, con grande sgomento dei suoi amici, che gli rimprovereranno di aver eretto la neutralità a massima di vita. Che era a dir poco ingiusto, lui che è stato continuamente sollecitato dagli uni e dagli altri. Era giusto che scrivesse a uno dei suoi cari nel 1939: “Certo, il fatto che così tante persone si rivolgano a me giustifica globalmente la mia esistenza e il modo in cui l’ho condotta fin qui”.

In fondo, due personaggi convivono in questo Giano lacerato. L’umanista, che contrapponeva al Moloch nazista i diritti della coscienza individuale, e l’uomo privato, totalmente disperato. Il primo restava diplomatico, cortese, conciliante, vietandosi ogni polemica nella speranza ingenua di proteggere gli ebrei ancora “ostaggi” del Reich. Questo è il suo grande errore. Il suo silenzio sorprende tanto più che la sua corrispondenza ci mostra un uomo a cui la tragedia della storia contemporanea non sembrava più essere, come in Macbeth, che un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furia, e che non significa nulla.

È attraverso il suo Erasmo (1934) che risponderà ai suoi detrattori. Erasmo “voleva essere homo pro se, uomo per se stesso, quali che fossero le conseguenze”. Così di Zweig. Lui, che non avrà detto nulla di più su di lui di quello che ha scritto in Il mondo di ieri (come memorialista molto più che come autobiografo), ha detto del suo Erasmo che era la sua autobiografia nascosta. Ha anche pensato di chiamarlo “Ritratto di un vinto”. Ritratto, autoritratto, è un tutt’uno. Si mostrerà recidivo nel 1937 con Una coscienza contro la forza, che esuma la figura dimenticata di Castellio, umanista francese che ha assistito al rogo di Michele Serveto nella Ginevra inquisitoriale di Calvino. Scriverà ugualmente su Montaigne. Con la rassegnazione di un martire, ma senza speranza di salvezza. “Dove regna la forza, non c’è nessun ricorso per i vinti”.

Suicidio dell’Europa, suicidio di un europeo

Niente, se non l’esilio, la fuga e la morte. Il “buddismo” di Zweig, come ha rilevato un giorno Romain Rolland, rimproverandolo. Secondo la sua prima moglie, Friderike, Zweig entrò in depressione molto presto, già nel 1914, con l’entrata in guerra della Francia, poi dell’Italia. Le sue due patrie d’adozione, che ironicamente si rivoltavano contro la sua terra materna. Ha curato a lungo la sua nevrastenia con l’iperattività, il successo ha provveduto al resto. Ma un tale successo, sorprendente e duraturo, finirà per paralizzarlo, a tal punto che un giorno prenderà in considerazione di scrivere sotto pseudonimo, sognando l’altrove e l’anonimato, in una miscela di insubordinazione e di diserzione. Si separò dalla sua prima moglie e sposò la sua segretaria, Charlotte Altmann, 27 anni più giovane di lui. Quindi fuggire, come Lord Jim, il personaggio di Conrad, di porto in porto, non tanto a causa di un diffuso senso di colpa quanto di una gloria ingombrante, che riteneva immeritata, e del cataclisma storico, davanti al quale si sentiva impotente. Viaggiare lo calmerà, almeno per un po’. Berlino, Parigi, Londra, Spagna, Algeria, Italia, New York, Brasile. Dirà allora che la sua lettura preferita è costituita dagli indicatori ferroviari. Presto dei transatlantici. È così che, strada facendo, o andando alla deriva, brucerà una ad una le sue navi, si abbandonerà all’onda, affonderà infine, lasciandoci come addio una lettera sobria e straziante, datata 22 febbraio 1942, prima di suicidarsi con la sua seconda moglie: “Saluto tutti i miei amici! Possano ancora vedere l’aurora dopo la lunga notte! Io che sono troppo impaziente, me ne vado prima di loro”. (traduzione di Domenico Pistilli)

Da: https://www.revue-elements.com/stefan-zweig-le-destin-brise-dun-europeen/

François Bousquet

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