Gli uomini dell’ultimo quarto di luna come “l’italiano” di Pérez-Reverte

Lo scrittore spagnolo tratteggia in tutte le sue opere ecletticamente il tema centrale della fatica dell’eroe, l’abnegazione, il coraggio, l’umiltà, la lealtà, l’amicizia, l’amore indeterminabile

L’italiano di Arturo Pérez-Revrte

I romanzi non banali non istruiscono, interrogano, quasi come certi dipinti che ci invitano dentro il quadro per partecipare al loro modo di essere. Il fertile scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, in tutte le sue opere – di cui forse la più nota è El Capitán Alatriste (data anche la fedele ed elegante rappresentazione cinematografica in uno struggente Siglo de Oro) – tratteggia ecletticamente il tema centrale della fatica dell’eroe, l’abnegazione, il coraggio, l’umiltà, la lealtà, l’amicizia, l’amore indeterminabile: un viaggio ramingo come conoscenza di sé, in cui la morte è l’ultimo e dirimente dei passaggi e attraversamenti. La cultura si fa cioè epica, memoria dell’atto irrevocabile, intesa come precondizione per comprendere la realtà, sopportare l’avversità, sapere chi siamo e capire cosa ci circonda. Il distacco da ogni retorica, idiosincrasie e revanscismi, dal moralismo come dall’elegia nostalgica, dalla distorsione di parte, ideologica o di fazione, propone gli eventi di ogni tempo storico nell’essenza sempiterna del comportamento umano di fronte al tragico, come l’enunciazione di un fatto, che magari diventa una dissezione di luce, ermeneutica, capace di squarciare il velo sull’Essere.

Nell’attuale compiaciuto ottundimento atlantico occidentale, questa sua ultima narrazione edita è una opportuna stonatura mediterranea e continentale, che attinge alla mitopoiesi meridiana e classica. Partendo da una foto appesa alla parete di una libreria di Venezia ci si ritrova al cospetto di Gibilterra, e ritornano a galla vicende realmente accadute – impeccabilmente descritte – quelle del gruppo Orsa Maggiore, cioè incursori subacquei italiani che, con una serie di missioni tra le più audaci della Seconda guerra mondiale, vengono restituite nel loro spirito netto in completa aderenza storica, quindi paradossalmente in una oggettività senza tempo. In tal senso, la scelta della copertina dell’editore italiano (Rizzoli), pur bella, ne è solo parte del significante, ancora immotivatamente vittima di un malcelato complesso storico e stereotipo antropologico, dilatato all’oggi dalla soffocante censura del politicamente corretto che si fa sempre più mera cancellazione culturale, e va quindi affiancata – almeno qui sopra, in effige – da quella dell’editore spagnolo (Aleaguara), che in comparazione è fedele e complementare.
Odisseo e Penelope sono volti complementari dell’eroismo. Elena Arbués, donna di cultura classica, ha una libreria che si chiama Circe; Teseo Lombardo, uomo in azione, istintivo e immediato, parla con i fatti. Ed è, infatti, proprio la protagonista femminile, col suo sguardo allenato all’epica in Omero, in Tucidide, in Senofonte, in Virgilio e Plutarco che pone le condizioni accoglienti dell’evocazione drammatica che si dipana tramite le loro esistenze, tanto che alla fine, sarà audace, eroica, irriverente all’arroganza dei vincitori e avventurosa quanto lui ad affrontare – come erano capaci solo i soldati e gli amanti – la fatalità dei giorni e il freddo delle notti. È una trama realistica che rompe il silenzio sul labile confine tra gioia e dolore, la scoperta del tradimento dell’esistenza e il riscatto della opportunità, è la responsabilità di prendere parte ad un destino ingovernabile ed impenetrabile, che insegna l’attaccamento alla vita con l’imponderabile del kairòs, quell’occasione propizia che va colta senza indugio, perché tanto irripetibile quanto irrevocabile. Al centro del romanzo – ma in generale dell’intera prosa contemporanea di Pérez-Reverte – vi è quindi carsica corrispondenza all’Iliade e all’Odissea quali testi fondatori dell’anima europea, perché Omero crede nell’unità dell’essere umano suggellata dai suoi atti, glorificata dal suo stile al netto di ogni utilitarismo. Gli esseri umani si definiscono secondo il bello e il brutto, il nobile e il vile: l’estetica non è percepibile senza il coraggio, la coerenza, la forma. Ciò che la ragione giudica impossibile è l’unica cosa in grado di appagare il nostro più profondo sentimento del vivere, l’amor fati, l’importanza del rigore morale verso sé stessi e gli altri; il valore sacro dei patti e dei rapporti di sentimento e amicizia; il coraggio di prendere la vita nelle proprie mani, ritenendo inaccettabile la prospettiva di un’esistenza funzionale, servile, storicamente determinata. Èros, in greco, significa chi affronta le difficoltà con coraggio e sacrificio di sé per un ideale o per prestare soccorso, in latino, morfologicamente, servare, custodire, salvare. Su questa base si è inequivocabilmente forti e nobili nell’agone. Gli individui, come le culture e le identità collettive, hanno plurimi difetti e universale identica virtù; soggiacere o meno alla viltà iscrive o meno al caso o a un destino, al relativo o all’eterno.
Unico obbligo è non guarire mai dalla propria ancestrale giovinezza.

Eduardo Zarelli

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