Giornale di Bordo. E’ morto Giulio Giustiniani. Ricordo di un vecchio compagno di scuola

Lo incontrai una decina di anni fa in occasione della presentazione del suo libro a sfondo autobiografico Il sangue è acqua, nella sede dell’Archivio di Stato di Firenze

Giulio Giustiniani

Nella classe quinta della scuola elementare Enriques-Capponi di Firenze, anno scolastico 1962-63, insegnante unico il maestro Cocchi, eravamo i migliori della classe. Ma, se io ero bravino, lui, Giulio Giustiniani, era bravo. E le cose non sono cambiate molto nella vita.

Non nutro molta nostalgia degli anni delle elementari, anche perché una forma tediosa di asma, venuta meno con la pubertà ma riaffacciatasi nei momenti critici della mia vita, mi costrinse a una frequenza spesso saltuaria. Ricordo senza rimpianto i banchi di legno col calamaio bianco collocato dentro, in cui un bidello col grembiule nero rabboccava periodicamente l’inchiostro, l’obbligo assurdo di scrivere col pennino, con relativo incubo delle macchie sul compito in bella (solo in quinta con le penne stilografiche, regalo obbligato della prima Comunione, arrivò la liberazione), il gelo dei corridoi in un vecchio stabile lungo i viali che si diceva fosse stato adibito a stalle granducali e che sarebbe stato ricostruito negli anni Settanta in uno stile modernista, con grandi vetrate, stile quartiere a luci rosse di Amsterdam, i problemi assurdi che risolvevo sempre a modo mio, arrivando al risultato giusto ma suscitando il piccato risentimento del maestro.

Già, il maestro Cocchi. Parlando con Giulio Giustiniani molti anni dopo, scoprii che lo considerava un grande educatore. Io lo consideravo un frustrato un po’ collerico (ma allora un po’ tutti i maestri maschi erano personaggi degni della penna di Mastronardi).  Col senno di poi però devo riconoscere che a volte le sue spiegazioni andavano oltre lo stretto dettato dei programmi. Per spiegarci per esempio come mai le lampadine avessero filamenti di tungsteno e non di carbone come una volta, ci disse che altrimenti non si sarebbero mai bruciate e i produttori “non potevano andare a romperle col martellino”. Un’altra volta, ci spiegò come facevano fallire le banche nel Far West: i nemici dei proprietari aprivano un conto e poi richiedevano i soldi tutti nello stesso giorno. Mi è capitato spesso di riconoscere la saggezza di quelle spiegazioni meditando sui guasti dell’obsolescenza programmata e le follie western del turbo capitalismo.

Ma il maestro Cocchi ebbe un giorno una bella pensata, destinata a segnare una vita: organizzò per noi una visita al quotidiano “La Nazione”, che aveva ancora sede in via Ricasoli ed era nel pieno della sua fortuna, sotto la direzione di quel galantuomo Enrico Mattei. Di quella mattinata memorabile io ricordo soltanto una battuta un po’ maligna che un correttore di bozze (altro frustato) ci fece, spiegandoci che il suo compito era di correggere gli errori d’ortografia dei tipografi, “e spesso anche dei giornalisti”. L’affermazione mi lasciò sgomento: avevo un concetto altissimo del giornale, e l’idea che chi aveva il privilegio di scriverci potesse commettere degli errori mi lasciava sgomento. Oltre tutto, come molti ragazzi della mia generazione, ero cresciuto con l’incubo degli “orrori” di ortografia, all’epoca severamente sanzionati, tanto che sino alla terza liceo sarei stato sempre l’ultimo a consegnare il tema in classe, per paura di qualche svista.

Per Giulio Giustiniani, invece, quella visita segnò una svolta. La sede della “Nazione” gli parve un luogo magico e appena poté cercò in tutti i modi di lavorarci. Credo che una mano decisiva gli sia stata data da Giorgio Batini, grande giornalista oggi dimenticato, che oltre a essere uno splendido inviato era un enciclopedico esperto di storia e tradizioni toscane. Batini lo assoldò come collaboratore di un inserto che stava curando e da quel ruolo un po’ ancillare Giustiniani spiccò il volo, prima alla “Nazione”, poi al “Carlino” e infine al “Corriere della Sera”, di cui divenne vicedirettore, per poi passare alla direzione del “Gazzettino” di Venezia e del telegiornale della “Sette”.

Dopo l’esame di quinta elementare persi i contatti con il vecchio compagno di classe, con cui per altro non avevo mai legato molto. Seguii da lontano la sua carriera giornalistica, leggendo talvolta i non numerosi articoli che pubblicava: da tempo, per altro, dopo il siluramento di Mattei e del suo successore Domenico Bartoli, avevo smesso di comprare “La Nazione” preferendole “Il Giornale”. Lo incontrai una decina di anni fa in occasione della presentazione del suo libro a sfondo autobiografico Il sangue è acqua, nella sede dell’Archivio di Stato di Firenze, assurdo edificio, realizzato negli anni Settanta in zona alluvionabile dopo la demolizione del palazzo della Gil, che comprendeva, oltre a diversi pregevoli affreschi , anche l’unica piscina coperta della città.

Da quel libro un po’ malinconico nonostante lo sforzo dell’autoironia appresi su quel vecchio compagno di scuola molto più di quanto avessi capito in un intero anno scolastico. Compresi che Giulio, discendente da un’antica famiglia dogale, aveva sofferto nella sua infanzia e forse anche nella sua adolescenza il peso di un passato troppo pesante, unito alle pressioni di un padre forse troppo invadente, che da un lato gl’insegnava a fare il baciamano alle signore, dall’altro pretendeva che imparasse a cucinare “perché un giorno non ci saranno più servitori”.

Com’è buona creanza in questi casi, comprai il libro e gli chiesi la dedica. Gli ricordai per l’occasione il maestro Cocchi, di cui mi diede il giudizio che condivido solo in parte. Poi ciascuno andò per la sua strada, nel suo caso Udine, dove si era costruito una splendida seconda vita, dopo un precoce pensionamento, sposando Elisabetta Nonino, discendente della celebre famiglia di distillatori e anche di mecenati dell’omonimo premio. Lui, infatti, uscito dal giornalismo presto, così come vi era entrato, per disgusto nei confronti del declino della professione, ma cforseanche per un fondo di pigrizia aristocratica, credo avesse trovato in Friuli, antico dominio dei dogi suoi antenati, la giusta dimensione. Scriveva libri, credo senza ambizioni economiche; l’ultimo, Il denaro è cipria, è uscito quasi postumo.

Confesso di avere provato in certi momenti, in cui ero costretto ad arrancare fra una collaborazione mal remunerata e una supplenza, una sottile invidia nei confronti di quel vecchio compagno di classe, che aveva bruciato tutte le tappe. La sua morte precoce e improvvisa mi induce a vergognarmi di quel così poco nobile (ri)sentimento. Al tavolo verde dell’esistenza, possiamo tutti giocare le nostre fiches, più o meno fortunate; ma prima o poi a vincere è sempre il banco, con lo zero.

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Enrico Nistri

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