Viaggi & Patrie. Sessa: “Il viaggio è il simbolo della vita”

Escono i diari di viaggio "Azzurre lontananze- Tradizione on the road", trent'anni dall'Irlanda al Karakorum

Il viaggio? È simbolo della vita”: così Giovanni Sessa, scrittore e segretario della Fondazione Evola, già docente a contratto di Storia delle idee e già docente di filosofia e storia nei licei, sintetizza ciò che rappresenta per lui il mettersi in cammino. Lo fa al termine di un’ampia conversazione sul suo ultimo libro, “Azzurre lontananze – Tradizione on the road” (Iduna Edizioni), dove l’esplorazione assume i tratti della contestazione ferma e radicale nei confronti del sistema, sulla traiettoria di una ricerca intensa dell’origine, a piedi, in bicicletta, col bus o facendo l’autostop, tra ghiacciai, montagne che toccano il cielo, richiami letterari, culturali, e tanto altro ancora…


Professore, “Azzurre lontananze – Tradizione on the road” raccoglie i diari di viaggio scritti circa trent’anni fa in Irlanda, Nepal, Islanda, Pakistan e Mongolia. Perché e secondo quali prospettive ha deciso di riportarli in un libro?

“Innanzitutto, grazie a lei e a Barbadillo per l’intervista. Ho deciso di fare un libro dei miei diari di viaggio, innanzitutto per testimoniare l’esistenza di un gruppo consistente di ragazzi, appartenenti alla generazione che visse la propria giovinezza negli anni Settanta, che si formò su autori diversi da quelli suggeriti dall’ “intellettualmente corretto”. In particolare, la mia appartenenza, fin da allora, all’area non conformista, mi portò a essere lettore, forse troppo ingenuo (l’ingenuità è comunque indicativa di sincerità), ma sicuramente assiduo, dei pensatori di Tradizione: Evola, soprattutto, ma anche Guénon e Coomaraswamy. La pubblicazione dei miei diari vuol mostrare che tale cultura di riferimento permette di leggere il mondo, l’arte, i paesaggi che si incontrano viaggiando, con sguardo assolutamente diverso da quello indotto dal senso comune contemporaneo, centrato sugli pseudo valori dell’economicismo consumista. Il mondo e la natura divengono, nell’esegesi tradizionale, simboli rinvianti all’uno che, nella mia prospettiva, in essi solo vive”.

 

Dalle scogliere irlandesi alla steppa della Mongolia, passando per i ghiacciai dell’Islanda, o per i templi del Nepal e le montagne del Pakistan, tra tradizioni e specificità culturali, cosa ricorda con più intensità dei Paesi visitati?

“Le mete dei miei viaggi non sono mai state suggerite da scelte casuali. Ciò accade solo al turista, non al viaggiatore in senso proprio. Per il primo, una meta vale l’altra, egli è, come notò Roberto Calasso, la variabile moderna e post-moderna dell’antico cosmopolita. È prodotto antropologico delle società occidentali e opulente (almeno fino a qualche decennio fa, lo erano), non ha consapevolezza che il viaggio, oltre a essere uno spostamento di uomini nello spazio, implica anche uno spostamento temporale. Il viaggiare nel tempo è indotto dall’incontro con civiltà diverse dalla nostra che, in alcuni casi, consente di incontrare tradizioni e consuetudini espulse dalla modernità dalla scena storica europea, ma ancora presenti presso alcuni dei popoli che ho incontrato (Mongolia, Nepal, Pakistan) o che vivono residualmente presso alcune genti europee (Irlanda, Islanda). Ciò che ricordo con più intensità dei viaggi è la specificità, culturale e spirituale, dei paesi che ho visitato. La si evince, non solo dalle opere d’arte, monumenti e città: essa è presente nei modi di fare, di rapportarsi agli altri, da parte di queste popolazioni. È rilevabile perfino negli sguardi di questi uomini, in quanto gli occhi sono davvero lo specchio dell’anima”.

 

Il Nepal, il Pakistan, la Mongolia. Quale curiosità l’ha condotta in queste atmosfere asiatiche? Con quali esiti?

“Verso questi paesi asiatici sono stato spinto da ciò che, in quanto europei, ci accomuna a loro: l’origine indoeuropea. Essa è rilevabile nell’architettura delle città tradizionali (in Pakistan Rawalpindi, in Nepal nelle tre capitali della valle di Katmandu, in Mongolia a Karakorum), nella struttura delle abitazioni orientate secondo criteri di geografia sacra attorno all’axis mundi, nell’arte e nella letteratura, nei templi e nei riti che vi si svolgono. A tali constatazioni positive, ha fatto seguito una certa delusione: i processi della globalizzazione stanno cambiando questi popoli. In una gher (tenda) di pastori nomadi, nella steppa mongola, dove sono stato accolto secondo le consuetudini tradizionali, si guardava la televisione: stavano trasmettendo una puntata dallo sceneggiato italiano “La Piovra”, sottotitolato in mongolo. È tutto dire! L’uniformazione delle culture al modello occidentale della “società di spettacolo”, sta avanzando con grande celerità. Il suo successo è devastante…”

 

E sull’Irlanda e l’Islanda? Quale la bussola che ha orientato i suoi passi durante i percorsi in questi territori?

“Anche i miei viaggi in Irlanda e Islanda sono stati motivati dalla ricerca dell’origine spirituale, mi sono posto sulle tracce della cultura celtica e norrena. Sulle strade delle due isole mi sono mosso prevalentemente a piedi o in bicicletta. In Irlanda ho scoperto, nel paesaggio delle Aran, la quint’essenza dell’Isola di Smeraldo, in cui l’azzurro del cielo si fonde, in un orizzonte sterminato, con il verde intenso dei prati. A Dublino ho seguito, accompagnato dal nipote di James Joyce, l’itinerario dell’Ulisse, scoprendo la bellezza, non facile e immediata, di questa città. In Islanda mi sono incamminato lungo i sentieri, tra ghiacciai e vulcani, immerso in una natura ancora incontaminata. Molti islandesi sono convinti, sulla scorta del mito norreno, dell’esistenza del “popolo invisibile” nelle lande più interne di questo paese, così come diversi irlandesi rendono omaggio nelle campagne ai “cerchi delle fate”. In questi due paesi palpita ancora la cultura originaria dell’Europa”.

 

Tra l’area himalayana del Langtang in Nepal, il Karakorum in Pakistan e i Monti Altaj della Mongolia, il suo libro custodisce una sensibilità profonda per le vette e la vita ad alta quota. Conoscere se stessi è più facile quando si va per le montagne?

“La parte più rilevante dei miei viaggi si è svolta in montagna. Ho viaggiato camminando. Evola ha fatto dell’alpinismo una Via realizzativa, in quanto la montagna è tradizionalmente simbolo assiale, axis mundi, indicante la possibilità di ascendere dalla condizione ctonia a quella uranica. È una via, quella alpinistica, in cui le difficoltà rappresentano per chi la pratichi, una vera “discesa agli inferi” cui fanno seguito conoscenze inusitate. Nei tre paesi da lei ricordati, ho spesso superato i 5000 metri, i momenti di difficoltà fisica e psicologica sono stati molteplici e intensi. Eppure, nel mio percorso formativo, sono risultati fondamentali. La pratica escursionistico-alpinistica è essenziale, nel mondo contemporaneo, non solo, come ha detto Messer, per “cercare gli inesistenti confini della nostra anima”, ma per comprendere l’unità che anima la vita”.

 

Qualche consiglio per chi si appresta a compiere un viaggio? Con che tipo di atteggiamento andrebbe affrontato?

“Il vero viaggio lo si compie, con Xavier de Maistre, “attorno alla propria camera”. Sono le idee, ciò che si è realmente nel profondo, a determinare la scelta della meta. Voglio dire che un viaggiatore deve avere nel proprio zaino i libri necessari atti a rendere autonome le proprie decisioni e che il “vero viaggio” è, in qualche modo, già compiuto prima della partenza.  Pertanto, un neofita dovrebbe evitare di essere attratto dalle facili mete, quelle “mordi e fuggi”, offerte dall’industria turistica”.

 

Quale itinerario di autori e letture indicherebbe per ristabilire un legame autentico con la dimensione del viaggio e col suo significato più vero? 

“Oltre ai pensatori di Tradizione già indicati, suggerirei di leggere Bruce Chatwin che ha colto pienamente il senso del nomadismo tradizionale e che, per questo, ha sempre viaggiato a piedi. In questo senso, suggestioni significative possono essere tratte anche da Thoreau e dal suo volume “Camminare”. In questo testo lo scrittore americano spiegò ai suoi contemporanei il valore metafisico, conoscitivo, dello spostarsi a piedi, ben noto in Europa nella tradizione dell’Esicasmo e della “preghiera del cuore”. Suggerei, inoltre, la lettura di Jack Kerouac, in particolare del suo “I vagabondi del Dharma”, a patto che alla dimensione puramente negativa di questo testo, alla sua critica della società capitalista, che fu propria del movimento degli Hippie, si faccia seguire l’adesione valoriale al mondo della Tradizione”.

 

Tra l’altro, il libro presenta come appendice la prima traduzione italiana di quattro capitoli di Voyage au Népal di Gustave Le Bon, pubblicato in prima edizione nel 1886 nel volume Le Tour du monde

“Sì ho tradotto questi quattro capitoli del libro di Le Bon, perché ritengo rappresentino un’ottima introduzione alla conoscenza della cultura del Nepal”.

 

Qual è il lascito delle esperienze contenute nel libro?

“Mi auguro che il libro stimoli altri a mettersi in viaggio e, soprattutto, a leggere o a confrontarsi con gli autori di cui parlo nelle sue pagine”.

 

Azzurre lontananze, Tradizione on the road

Quali altri luoghi e ambienti ha esplorato in seguito ai viaggi riportati nel libro? Ce ne sono alcuni in particolare che desidera visitare?

“Un viaggio importante che non compare nel libro, oltre a quelli compiuti in Europa, è sicuramente quello nel Ladakh. Il Ladakh è lo stato più settentrionale dell’India. Sono giunto nella sua capitale Leh, proveniente dal Kashmir, più precisamente da Srinagar, la Venezia d’Oriente, seguendo l’itinerario tracciato, nel suo viaggio, dal grande orientalista Giuseppe Tucci. A Leh, dopo l’occupazione cinese del Tibet, trovarono rifugio i monaci tibetani che riuscirono a fuggire dal dominio comunista. Tra le mete non ancora raggiunte, pur essendo stato in Grecia, vi è Creta. L’isola dette i natali, stando al mito, a Zeus e Dioniso: Creta è, quindi, “ombelico del mondo” della civiltà ellenica”.

 

In conclusione, quale accezione simbolica e spirituale assume per lei il “viaggio”?

“Il viaggio è simbolo della vita. Nasce, come sapevano i neoplatonici dalla tensione nostalgica che accompagna il nostro ex-sistere, il nostro “stare fuori” dall’origine, proprio come accadde a Ulisse che, dopo terribili peregrinazioni, tornò a Itaca. Vivere vuol dire viaggiare. Per questo è necessario farlo al meglio e non semplicemente, come rilevò, comunque con acume, Marguerite Yourcenar, perché la condizione degli uomini è simile a quella di condannati a morte indotti, da tale stato, a fare il giro del carcere in cui sono ospitati. No, il viaggio consente di provare meraviglia per la bellezza che si incontra in forza dell’animazione di tutto ciò che è”.

 

 

*“Azzurre lontananze – Tradizione on the road”, di Giovanni Sessa, Gustave Le Bon, Iduna Edizioni, pagg. 226, euro 20,00 (https://www.idunaeditrice.it/autore-nome-cognome/giovanni-sessa/)

 

 

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