Il “Dante” gotico di Pupi Avati

La poesia del Sommo Poeta rimane sullo sfondo, spesso travolta da una fisicità inopportuna o persa in una frammentarietà biografica, che, inquadrando l'uomo, penalizza non poco l'artista

Dante di Pupi Avati

Convince ma non entusiasma il “Dante” di Avati perché, pur essendo filologicamente (quasi) corretto, non riesce a dare quel tocco di poesia, che pur dovrebbe avere un biopic dedicato al più grande Italiano di tutti i tempi. Gli è che il Poeta perde parte del suo fascino a tutto vantaggio di una ridefinizione della sua figura in bilico fra passione (erotica) e realismo (esasperato). Ne esce anche ridimensionato il Boccaccio, che, malaticcio e trasognato, nel film affronta un viaggio faticoso solo per consegnare un (doveroso) risarcimento alla figlia dell’esule, dimenticando la sua spasmodica ricerca di bibliofilo accanito. Certo, pregevoli la fotografia ed ancora più le tante scene tenebrose, che richiamano il film “Il nome della rosa” ed esprimono la cifra più vera della filmografia di Avati, quella gotica degli esordi; apprezzabili i camei di Mastelloni, Rigillo, Cavina, impareggiabili nelle loro caratterizzazioni; notevole la perfetta ricostruzione storica degli ambienti, forse un po’ troppo cupi ma realistici e vissuti. Tuttavia, la poesia di Dante rimane sullo sfondo, spesso travolta da una fisicità inopportuna o persa in una frammentarietà biografica, che, inquadrando l’uomo, penalizza non poco l’artista. Sarebbe stata opportuna una leggera accelerazione dei tempi narrativi per coinvolgere di più lo spettatore, che, comunque, esce dalla sala convinto di aver assistito all’omaggio deferente di un regista, sinceramente devoto e commosso davanti ad un gigante della letteratura mondiale. Che, forse, gli ha fatto “tremar le vene e i polsi” un po’ troppo nella sceneggiatura.

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Nicola Fiorino Tucci

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