Memoria. Enrico Mattei partigiano bianco distante dall’Anpi

Il fondatore dell'Agip si impegnò per lenire le ferite della guerra civile in un'ottica di pacificazione

Enrico Mattei

La vittoria di Giorgia Meloni e la sua “ascesa” al soglio di Palazzo Chigi ha prepotentemente risvegliato le sirene dell’antifascismo militante. Non è bastato che il Presidente del Consiglio abbia condannato tutte le dittature, compresa quella fascista, che abbia dichiarato di non aver mai nutrito “simpatie” per il fascismo. Forse si pretende che Giorgia Meloni ammetta per forza di cose di essere stata “fascista”, che mostri contrizione e pentimento e chieda perdono per questa specie di “peccato originale” che contaminerebbe la sua militanza politica.

Persino il dibattito storiografico e la “storicizzazione” del movimento e del regime fondati da Benito Mussolini, invece di prendere spunto dalla ricorrenza del centenario della Marcia su Roma e svilupparsi lungo coordinate di maggiore approfondimento e un’ottica più obiettiva, ha registrato ciclopici passi all’indietro rispetto all’epoca dei De Felice, dei Denis Mack Smith, dei Nicola Tranfaglia, dei James Mc Gregor, degli Enzo Collotti, dei Rosario Romeo e degli Ernest Nolte, tutti, questi, sia pur di orientamento e di estrazione culturale diverse e talvolta contrapposta, storici accreditati e di riconosciuto valore e spessore scientifico.

Il dibattito storiografico si è invece appiattito sulle rimasticazioni ideologiche e prevenute di opinionisti e scrittori più o meno alla moda i quali, per ragioni di cassetta, non hanno esitato a “piegare” l’accertamento e la verifica dei fatti storici che connotarono quel periodo della storia italiana ad una sorta di gigantesca “fake news” che ben si inserisce nella “nouvelle vague” della cancellazione della memoria, altrimenti definita “cancel culture”.

Per cercare di rimettere le cose a posto, forse, sarà cosa utile rinvangare la narrazione che della resistenza e di certo antifascismo fece un personaggio insospettabile di simpatie per il Duce ed il suo movimento: quell’Enrico Mattei che fu capo partigiano e che il 29 aprile del 1945 sfilò per le vie di Milano alla testa del trionfante corteo partigiano accanto a Luigi Longo, a Raffaele Cadorna, Mario Argenton, Giovan Battista Stucchi e Ferruccio Parri. Tra l’altro proprio quest’anno, ed un giorno prima del centenario della Marcia su Roma, ricorre il sessantennale della sua tragica e ancora inspiegata morte.

Mattei, da capo dell’Agip prima e dell’Eni poi, ogni 25 aprile usava visitare le città più coinvolte nella guerra civile tra partigiani e Repubblica sociale e tenervi un discorso. Da questi discorsi emerge una sua teoria generale della Resistenza vista come guerra di liberazione nazionale dall’invasore tedesco e come la Quinta Guerra d’indipendenza. Su questa visione molto influì la sua formazione risorgimentale e patriottica (era figlio del Brigadiere dei Carabinieri che catturò il brigante Musolino).

Egli intuì e avversò fortemente il tentativo da parte comunista di usare la resistenza in maniera strumentale e funzionale al loro disegno di conquista del potere e di instaurazione di un nuovo regime socialcomunista. Proprio per questo provocò una scissione all’interno dell’Associazione nazionale Partigiani d’Italia (Anpi) costituendo la Federazione Italiana dei Volontari per la libertà (FIVL), cioè l’associazione che riuniva tutti i partigiani cattolici e d’ispirazione liberal-monarchica, i cosiddetti “partigiani bianchi”. Nel discorso di Roma del 1952 al congresso dei partigiani cattolici egli affermò: «Il tentativo dell’Anpi fallì grazie alla decisione e all’onestà dei partigiani democratici italiani e forse ancora oggi non tutti si sono resi conto dell’importanza del gesto coraggioso con cui si veniva alla scissione dell’associazione ed alla costituzione della Federazione Italiana Volontari della Libertà. Quel giorno si pose una legittima ipoteca sulla storia d’Italia nella quale altrimenti si sarebbe arrivati a scrivere che la Resistenza era merito, patrimonio e diritto di un solo partito. I partigiani democratici sentirono quel giorno il dovere di difendere il loro patrimonio ideale ed insieme la realtà storica, e di dividere per sempre quelli che avevano combattuto per l’affermazione di un partito che non riconosce la patria.»

Rivendicò il ruolo “moderatore” e “calmieratore” che tale componente del movimento resistenziale ricoprì per temperare lo spirito di vendetta e di rivalsa di numerose formazioni socialcomuniste al fine di evitare lo spargimento di altro sangue fraterno e preparare un legittimo ed auspicato processo di pacificazione nazionale. Al congresso della Democrazia Cristiana del 24 aprile 1946 ebbe ad affermare: «Ogni nostra formazione fu un miracolo di equilibrio e di moderazione, pur nella arroventata atmosfera del combattimento, pure a contatto con quell’acre propaganda di odio e di crudeltà con cui il governo repubblicano tentava di avvelenare gli spiriti della gioventù italiana. Questi nostri partigiani che, grazie alle loro convinzioni religiose ed alla mitezza dei loro costumi, stabilirono dovunque furono presenti un ordine civilmente cristiano, ci dicono con il muto ma eloquente linguaggio delle loro gesta che non bisogna disperare, che sono ancora per noi disponibili nel fondo della nostra natura e della stirpe italica inesauribili valori divini ed umani affidandoci ai quali ogni rinascita sarà possibile.»

Nell’aprile del 1945 la brigata cattolica delle “Fiamme Verdi” ebbe sul Mortirolo uno scontro cruento e violentissimo contro la Legione delle “Camice Nere” ed alcune truppe della Wermacht. Tale scontro fu decisivo per evitare che tedeschi e formazioni fasciste raggiungessero con rapidità la ridotta della Valtellina. Questi combattimenti furono così cruenti che ad essi si deve la denominazione del Mortirolo come “montagna che non dorme”. Al riguardo uno dei pochi e rari storici del ruolo dei “partigiani bianchi” nella Resistenza, Andrea Rossi così si esprimeva per descrivere lo stato di prostrazione morale che ne seguì sia tra i vinti che tra i vincitori: « c’è una lapide commemorativa che rammenta quegli eventi sanguinosi rinunciando alle espressioni tonitruanti che si leggono in molti altri luoghi di memoria resistenziale; erano frasi che Enrico Mattei condivideva, avendo evitato lui stesso per primo di alimentare una mitologia della Resistenza spesso inutile e posticcia; l’iscrizione su una lapide di granito semplicemente recita “raccolti nell’antico tempio, pregano con il nemico fratello caduto la pace degli uomini nella luce di Cristo”».

Mattei arrivò ad attaccare i comunisti, assai precocemente rispetto a ciò che venne fuori negli anni Novanta e con Giampaolo Pansa, sull’episodio di Porzus e sulla giustificazione e difesa dei partigiani “rossi” che, complici delle formazioni comuniste del Maresciallo Tito, avevano sterminato la brigata partigiana “bianca “Osoppo”. Il 25 aprile del 1952, su “Il Popolo” egli scrisse: «Con sommo sdegno abbiamo letto nei giorni scorsi il telegramma di solidarietà e di plauso inviato dal capo del Partito comunista ai condannati per l’eccidio di Porzus, ritenuti di aver ucciso il capitano “Bolla”, dopo avergli strappato gli occhi, e trucidati i suoi partigiani.[…] La solidarietà dei comunisti interni verso i condannati diventa ancor più turpe e beffarda per l’eco ad essa fatta da una protesta ufficiale jugoslava contro la sentenza di Lucca, nella quale vengono esaltati gli assassini ed oltraggiati i partigiani nel nome rispettato del loro antico comandante generale».

Ecco Mattei fu anche molto attento a non alimentare una retorica ed esagerata mitografia della Resistenza non perdendo mai di vista il fatto che, senza l’aiuto e il sostegno degli Alleati e degli Americani, difficilmente essa avrebbe potuto prevalere sulle armate tedesche e i combattenti della Rsi.

Su questi fatti e su certo uso strumentale ed ideologico dell’antifascismo e della resistenza non è mai stata effettuata un’«operazione-verità». Oltre queste intuizioni di Mattei, che fu testimone diretto di ciò che accadde all’epoca, ma non storico di professione, ci fu il tentativo di Renzo De Felice negli anni Settanta ma nulla più. Del resto la stessa storiografia della Resistenza dedica poche e inadeguate pagine al ruolo delle formazioni “bianche” ed anticomuniste nel movimento resistenziale. Scrive sempre Andrea Rossi: «appare invece non facilmente spiegabile come i ricercatori (anche quelli di ispirazione cattolica) abbiano dedicato ai partigiani bianchi una produzione scientifica di gran lunga inferiore, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto alle componenti comuniste e azioniste del movimento di Liberazione».

È giunta l’ora forse di non subire questo “esame del sangue antifascista” cui la sinistra vuol porre la destra ogni volta che si avvicina al governo della Nazione. È giunto il momento sul piano della ricerca storica e della diffusione dei suoi esiti di fare questa grande “operazione verità” per dimostrare che ci furono partigiani e partigiani, resistenza e resistenza e che se ne è sempre cercato di conservare un’artefatta memoria unitaria per farne un uso strumentale e funzionale al disegno egemonico della sinistra e ad ogni chiusura a destra del quadrante politico-istituzionale italiano.

@barbadilloit

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