“Esterno notte”: perché la ricostruzione di Bellocchio sul caso Moro non convince

La fiction sembra confermare l’assunto in base al quale un cast d’eccezione non garantisce da solo la perfetta riuscita di un prodotto molto reclamizzato

Una immagine cult di “Esterno notte”

Trasmessa nei giorni scorsi dalla Rai, la fiction “Esterno notte” sembra confermare l’assunto in base al quale un cast d’eccezione non garantisce da solo la perfetta riuscita di un prodotto molto reclamizzato. Le buone interpretazioni degli attori restituiscono le molteplici sfaccettature della personalità di Moro, le trattative intavolate dal Vaticano ai fini della liberazione, il riserbo e i profondi sentimenti religiosi della famiglia, il travaglio umano (a lungo disconosciuto) di Cossiga, ma non nascondono varie lacune.

Il regista Marco Bellocchio rielabora il contesto in cui attecchirono la violenza e il fanatismo ideologico dei brigatisti (discutibilmente edulcorati nella parte finale), focalizzando la narrazione sull’analisi introspettiva dei principali protagonisti della vicenda e sulla continua sovrapposizione tra finzione e realtà. Se la legittima scelta di tale registro stilistico giustifica imprecisioni dettate da esigenze cinematografiche, è meno comprensibile che la ricostruzione storica di eventi centrali – come l’agguato di via Fani – coincida solo in parte con gli elementi emersi nelle varie Commissioni parlamentari d’inchiesta. 

L’articolata concezione del politico pugliese relativa alle modalità, ai contenuti e ai limiti (ancora oggi spesso sottovalutati) del coinvolgimento e della partecipazione esterna dei comunisti all’area di governo viene riprodotta in modo abbastanza fedele, ma allo stesso tempo si trascura che la sua parabola politica fosse ormai in fase calante, al punto da indurlo a meditare il ritiro; difficile da dimostrare è poi la certezza della sua elezione a Presidente della Repubblica.

Mancano riferimenti alle guerre sotterranee interne ai Servizi, “prolungamenti” di fatto della contrapposizione tra Moro e Andreotti e coinvolti da una profonda riorganizzazione che acuì un vuoto di potere grave per una Repubblica costantemente afflitta dalla “sovranità limitata”;  l’amministrazione statunitense ebbe così buon gioco ad affidare allo psichiatra Steve Pieczenik la missione di consulente del Ministro degli Interni. Pare, peraltro, eccessivo proprio l’accanimento riservato a Cossiga, pesantemente apostrofato dal Presidente democristiano nel corso di un incontro con Don Mennini – smentito alcuni anni fa dal prelato – nel covo dei terroristi. 

L’occasione mancata di avvicinarsi al genere del film d’inchiesta trova conferma nel fatto che le ricostruzioni dei protagonisti convergono in modo stucchevole nelle spasmodiche ricerche del cadavere al lago della Duchessa: indicativa di uno psicodramma collettivo, la spettacolare parata era basata sul falso comunicato delle Brigate Rosse; i cenni alla contemporanea scoperta del misterioso appartamento di via Gradoli destano un’attenzione minore, costituendo una cornice stridente al cospetto degli approfondimenti storiografici esistenti sull’argomento.  

Denota poco coraggio il silenzio sulle reali cause a sostegno della tesi dell’improvvisa pazzia dell’ostaggio, non collegata al fatto che egli cominciò a scrivere una quantità impressionante di lettere dai contenuti pericolosi, tra i quali l’invito esplicito a prendere contatti ai fini della liberazione con il colonnello Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut (elemento che avrebbe rischiato di far emergere il “lodo Moro”) e la denuncia di vari scandali, a partire da quello della Italcasse.

Si mantiene un basso profilo anche con riferimento alla fredda determinazione del Pci nel tener salda la linea della fermezza e per quanto concerne il comportamento dei terroristi. Se gli addestramenti di questi ultimi sulla spiaggia rimandano con ogni probabilità ad ipotesi investigative poi abbandonate (alcune perizie accertarono la presenza nelle suole delle scarpe e nel cappotto di Moro di sostanze vegetali, bitume e granelli di sabbia compatibili con quelli di una zona del litorale laziale), desta perplessità che nel comportamento dei carcerieri non vi sia traccia di accuse reciproche e testimonianze discordanti che ruotarono intorno alle modalità dell’omicidio, del trasporto e del ritrovamento del cadavere. 

L’impressione che il regista abbia privilegiato uno spartito assolutorio è avvalorata dal messaggio non tanto subliminale secondo il quale l’esecuzione avrebbe posto fine alle “inutili” sofferenze del prigioniero, ma anche dalla storia del pentimento di Valerio Morucci e Adriana Faranda. Presentata come pressoché istantanea al momento del rapimento, essa viene contraddetta alla fine quando lo spettatore apprende che i due avviarono un percorso dissociativo dalle Brigate Rosse in carcere, quindi dopo l’arresto del maggio 1979.   

Sporadici richiami a un probabile ruolo svolto da occulti “livelli superiori” non invertono la direzione di una narrazione sbilanciata verso il fattore del regolamento di conti interno alla Dc; l’esasperata contrapposizione manichea tra buoni e cattivi – Moro viene più volte raffigurato come un martire costretto a portare la croce, mentre ampio risalto viene riservato alle continue “processioni” di esponenti politici che visitarono i suoi familiari durante i giorni della prigionia – aderisce relativamente ad una vicenda estremamente complessa e dai tanti aspetti ancora oscuri.  

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Andrea Scarano

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