Ay Sudamerica! Il Brasile di Lula fra repressione e tentazioni di golpe

L'assalto al parlamento di Brasilia ha segnato un punto in favore del nuovo presidente, ma il Paese resta lacerato

L’assalto al parlamento di Brasilia nelle immagini BBC

Si dice che i numeri non mentano e quelli che ci parlano delle conseguenze dell’assalto di domenica 8 gennaio al Parlamento di Brasilia sono in effetti impressionanti. Secondo alcuni calcoli avrebbero partecipato alla “rivolta” circa 15 mila sostenitori di Bolsonaro, di cui 1.500 sono poi stati arrestati dalla polizia, con un bilancio di una cinquantina di feriti. Le denunce sono circa 30 mila, tra i quali figurano molti presunti fiancheggiatori e finanziatori dei rivoltosi, incluse importanti aziende dell’agroindustria, imprenditori, ex militari. Un episodio che a molti ha ricordato la presa di Capitol Hill da parte dei sostenitori trumpiani, due anni fa, per fortuna in questo caso con un epilogo meno cruento (là ci furono 5 morti, più 4 agenti che si suicidarono nei mesi successivi).

Il clima nel Paese

Ma in Brasile regna ancora un clima da stato di allarme: a Rio de Janeiro nei giorni successivi alla presa del Parlamento si sono riuniti i piazza oltre 10 mila oppositori del governo Lula; per oltre ventiquattr’ore, tra domenica e lunedì, le strade di alcuni Stati, in particolare il Mato Grosso, sono rimaste bloccate dalle proteste e l’Agenzia nazionale per l’energia elettrica ha denunciato almeno due gravi atti di sabotaggio agli impianti di trasmissione negli Stati di Paranà e Rondonia. Pian piano ora tutto sembra rientrare nella norma e tra le prime misure prese dalla magistratura e dal governo di Lula c’è stata la rimozione del governatore del Distretto Federale (area dalla quale dipende la capitale) Ibaneis Rocha e del suo segretario alla sicurezza Anderson Torres; inoltre per entrambi la Corte dei Conti ha chiesto il blocco dei beni, così come per l’ex presidente Jair Bolsonaro, che al momento si trova negli Usa.

L’arresto di Torres

Al suo rientro da un viaggio negli Usa, oggi, sabato 14, Anderson Torres è stato arrestato perché nella sua abitazione la polizia federale ha trovato un documento riservato con il quale l’ex segretario alla sicurezza chiedeva a Bolsonaro di indire lo stato d’emergenza, quindi di assumere poteri straordinari, per evitare di passare le consegne al neo-presidente Lula da Silva. Un atto che secondo la magistratura potrebbe configurare l’accusa di attentato contro la democrazia e quindi comportare gravissime condanne per l’entourage dell’ex presidente di destra.

Nell’opinione pubblica lettura dei fatti di Brasilia è di segno opposto. A sinistra, negli ambienti vicini a Lula, li si dipinge come un vero tentativo di colpo di Stato, progettato e finanziato dai supporter di Bolsonaro (soprattutto industriali) con la complicità dell’esercito, che tuttavia all’ultimo momento si è tirato indietro e non ha sostenuto i golpisti. Da destra, invece, l’assalto al Parlamento è descritto come una manifestazione popolare spontanea degenerata anche a causa di provocatori occulti, una specie di “false flag” che alla fine è servita per delegittimare Bolsonaro e rinforzare il governo di Lula. «Sembrava che le porte del Parlamento fossero state lasciate aperte», ha dichiarato uno dei manifestanti arrestati per l’occupazione di Brasilia. Da chi? Da poliziotti filo-golpisti, come sospettano a sinistra; o da agenti infiltrati filo-governativi che volevano fomentare incidenti, come pensano a destra? Quel che è certo è che gli episodi di Brasilia hanno agevolato la repressione giudiziaria del vasto movimento anti-Lula, che da un paio di mesi stava ribollendo in gran pare del Paese, con un notevole appoggio popolare.

La fine del bolsonarismo

Così come Capitol Hill ha segnato il declino del trumpismo negli Usa, gli incidenti di Brasilia sembrano scrivere la parola “fine” all’esperienza del bolsonarismo in Brasile. Il composito populismo di destra segna il passo e pare incapace di accettare la sconfitta elettorale per trasformarsi in una solida opposizione. Però la crisi di due grandi democrazie presidenziali come Stati Uniti e Brasile segnala anche un grave problema di credibilità della democrazia stessa, a maggior ragione se il Paese è spaccato in due posizioni radicali, apparentemente inconciliabili, e quando le elezioni si decidono al fotofinish, con un margine davvero risicato di voti. Ricordiamo che lo scorso ottobre Lula ha vinto con il 50,9% delle preferenze, contro il 49,1% di Bolsonaro, uno scarto minimo che, così come negli Usa due anni prima, ha alimentato accuse di brogli elettorali, veicolate e gonfiate dai social.

Il nodo per i vincitori delle presidenziali in Usa e Brasile

Insomma, se Trump e Bolsonaro sono incapaci di perdere, Biden e Lula dimostrano di non saper vincere, cioè di non essere in grado di ricucire i lembi di un tessuto sociale strappato da una campagna elettorale frontale e permanente. Non a caso uno dei primi atti del Congresso brasiliano è stata l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza pandemia da parte di Bolsonaro, ravvisando persino il reato di “crimini contro l’umanità” a causa dei 600 mila morti di Covid. Una chiara dichiarazione di guerra alla metà del Paese che si è schierata con l’ex presidente. I disordini di Brasilia senza dubbio hanno rinforzato Lula, ma per lui la strada è in salita, soprattutto se il movimento filo-Bolsonaro non si sfalderà: a febbraio si insedierà il nuovo Parlamento nel quale gli anti-Lula hanno circa due terzi dei seggi.

Sudamerica in fiamme?

In ogni caso, questi ultimi mesi hanno sancito un preoccupante ritorno dell’ingovernabilità in mezzo Sudamerica: oltre al caso brasiliano ricordiamo i disordini in Perù e Bolivia e i gravi problemi istituzionali in Argentina. Prima di Natale a Lima il presidente Castillo è stato destituito e fatto arrestare dal Parlamento per aver tentato un auto colpo di Stato, che gli avrebbe consegnato poteri straordinari. Ma ora, a distanza di un mese, ma il caos non accenna a placarsi e la situazione sta sfuggendo di mano al governo: la nuova presidentessa Dina Boluarte ha usato il pugno di ferro per reprimere i sostenitori di Castillo e finora ci sono già stati 46 morti, soprattutto nelle zone rurali del Paese, bacino elettorale del presidente deposto.

In Bolivia invece prosegue il braccio di ferro tra lo Stato centrale e la provincia di Santa Cruz, il cui governatore di destra Camacho è finito in carcere con l’accusa di terrorismo per aver sostenuto, nel 2019, la cacciata di Evo Morales. Il quadro politico è incandescente e Santa Cruz, oltre a chiedere la liberazione del proprio leader, vorrebbe riproporre un referendum per separarsi dalla Bolivia: già nel 2008 in una consultazione popolare l’82% degli elettori della provincia si dichiarò favorevole all’indipendenza amministrativa dalla capitale e fu proprio il presidente Morales a dichiarare incostituzionale la consultazione e a bloccare il tentativo secessionista.

Infine c’è la crisi argentina, dove la recente condanna per corruzione della vice presidente Cristina Fernandez Kirchner ha provocato un profondo attrito istituzionale fra politica e magistratura e rinfocolato le polemiche sul cosiddetto “Lawfare”, cioè l’uso sistematico della giustizia per attaccare e screditare gli avversari politici.

All’interno di questo quadro destabilizzato, in ognuno dei Paesi citati resta fondamentale il ruolo delle forze armate, che per ora sono rimaste nelle caserme agli ordini dei governi legittimi. Durerà? Oppure si riaffacceranno le tentazioni di un “governo forte” come negli anni Settanta?

@barbadilloit

Giorgio Ballario

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