Focus. La guerra Ucraina-Russia e la sconfitta delle diplomazie

Sono passati molti mesi dall’ultimo tavolo negoziale ufficiale tra Russa e Ucraina, in Bielorussia, per cercare una soluzione mediata alla guerra. Spiragli veri per nuove trattative -al di là di proposte sbandierate, propagandistiche e massimaliste, alquanto irrealistiche, da ambedue le parti - non sembrano purtroppo esistere

La distruzione dell’Impero romano di Thomas Cole, 1836. Dipinto allegorico ispirato al sacco di Roma del 455. New York, Historical Society

Sono passati molti mesi dall’ultimo tavolo negoziale ufficiale tra Russa e Ucraina, in Bielorussia, per cercare una soluzione diplomatica alla guerra. Spiragli veri per nuove trattative -al di là di proposte sbandierate, propagandistiche e massimaliste, alquanto irrealistiche, da ambedue le parti – non sembrano purtroppo esistere, al momento. Detto in modo brutale, il mondo assiste impotente, per ora, alla ‘sconfitta delle diplomazie’. Nessun diplomatico brilla: tutti tacciono o fanno gli incendiari. Con un unico protagonista, seppur non decisivo, con un vero retroterra da diplomatico: Serguéi Lavrov, dal 2004 Ministro degli Esteri della Federazione Russa. 

Ahi, quanto duole questo tasto a chi ha passato metà quasi della sua vita alla Farnesina o in servizio all’estero! Ma come negarlo o mitigarlo? Divaghiamo un po’, allora… 

La diplomazia è, ben oltre il conflitto in corso, in franca decadenza, in Italia e nel mondo, dalla metà del ‘900, almeno. Dal tramonto della famosa ‘bolgetta’ che a volte impiegava settimane per far arrivare istruzioni oltre Oceano. Perdita di peso accentuatasi con l’arrivo delle tecnologie digitali, con Internet, da oltre un quarto di secolo. Già il telegrafo, poi il telefono, il telex, il fax, l’uso corrente dell’aereo, l’intensificarsi della ‘mobilità’ dei politici, avevano amputato molte competenze vere, non di facciata, del diplomatico, sempre più ridotto – se non proprio al “di questi tempi un diplomatico non è più che un capo di camerieri al quale, ogni tanto, s’invita a sedersi”, secondo l’attore Peter Ustinov – essenzialmente a quello di un agente in loco per organizzare visite, ad alto o medio livello, alle seccature formali ancor richieste nelle relazioni internazionali, a volte per assumere rischi personali in aree di conflitti, non per redigere relazioni che quasi nessuno ormai legge. Anche perchè l’essere messi alla berlina, dopo lo scoppio del caso WikiLeaks – sito web fondato da Julian Assange nel 2006 – induce molti Capi Missione a fare un collage semi-anonimo di notizie-stampa (quelle stesse, però, che ogni funzionario ministeriale può ricavare da solo, da Roma o da altre capitali, dal suo PC), non più assumersi la responsabilità di rapporti veri, di valutazioni che potrebbero nuocergli, venendo spiattellate ai quattro venti, Urbi et orbi.

Meno che meno, oggi il diplomatico serve per tessere possibili alleanze o partecipare attivamente a grandi disegni geopolitici. Se prima un buon diplomatico, si diceva, doveva parlare poco ed ascoltare molto, ora neanche più quello. I Capi di Governo, i Ministri degli Esteri, i politici di alto profilo preferiscono prendere per buone, se non per oro colato, le notizie, non di rado scempiaggini, diffuse on line dalle agenzie di stampa, dai mass media, tanto perentorie quanto spesso superficiali, ingannevoli. Quindi, a volte, le loro arroganti segreterie, desiderose in primis del momentaneo compiacimento del capo, comunicano direttamente fra di loro. Seguono le pubbliche opinioni, il sentire della gente, a volte inventati o ingigantiti, spesso utilizzati cinicamente. Così è un parallelo profluvio di post pubblicati da autorevoli protagonisti o soggetti della politica internazionale su Twitter, Facebook ed altri social networks, poco meditati, ma veloci. ‘In fretta e male’ appare un’insegna dominante, partecipare al ‘chiacchiericcio’, più che proporre autorevolmente, sensatamente, apparire in TV (solo l’immagine conta) e talk show, abbondare in banalità reiterate che difficilmente possono essere smentite.

Senza parlare della diplomazia multilaterale, tanto proliferata negli ultimi decenni, pleonastica in varie entità e strutture, ossessiva nelle cadenze, quanto di norma retoricamente inconcludente, docilmente sottomessa alla volontà di pochi Grandi. 

Un tempo la Carrière era una casta, oggetto di motti e malignità, con i suoi rituali, dove si coniugavano (non sempre) aplomb e phisique du rôle, ora di fatto defunta, al punto che la stessa Francia, il 17 aprile 2022, ha decretato la soppressione dei due corpi che ancora la costituivano, quello dei Conseillers des Affaires Étrangères e quello dei Ministres Plénipotentiaires. Per riflesso di ‘dignità corporativa’ possiamo leggere, restando in Italia, perle di saggezza recitate da ‘vecchioni coronati’, che un giorno furono (o s’illusero d’essere) la crème degli ambasciatori:

“La diplomazia è un’arte o un mestiere antico, con le sue regole, le sue procedure, i suoi segreti, la sua storia. Nulla di tutto ciò si improvvisa ma si acquisisce, giorno dopo giorno, alla ‘bottega’ dura e affascinante della formazione, dell’osservazione, dell’apprendimento ‘sul campo’, dell’esempio e dell’insegnamento dei ‘maestri’, della passione e del lavoro costante, tenace, faticoso. È questa l’era in cui il sapere, i rapporti interpersonali, le attività umane, la dimensione spaziale e temporale della nostra vita quotidiana oltrepassano le frontiere nazionali costituendo il cosiddetto mondo globale in cui in tutti i campi si fa diplomazia. Acquistano perciò maggiore significato e rilevanza le peculiarità e specificità del diplomatico di carriera, che per natura e vocazione è un professionista delle relazioni internazionali, che continueranno a esistere e a dover essere gestite con cura e competenza, almeno finché il nostro pianeta non sarà divenuto una omogenea e indistinta distesa territoriale”.

(Storie di azioni diplomatiche.150 anni di diplomazia italiana nei Convegni dell’Assdiplar, Roma, Aracne, 2016). 

Tanto per non restare agli aforismi di Google sull’arte di trattare le relazioni tra Stato e Stato ed il metodo, sancito dagli usi, di condurre trattative internazionali, chi sentisse l’uzzolo di penetrare un po’ quel mondo cosmopolita e perduto (con talune scempiaggini e vacuità incluse) potrebbe, tanto per cominciare, consultare questi tre testi: 

Les Ambassades, Paris, Flammarion, 1951, del controverso Roger Peyrefitte (1907-2000), gran cacciatore d’efebi, semi autobiografico racconto di quando l’autore giunse, nel 1932, Attaché d’Ambassade, ad Atene; nel 1953 P. pubblicò, sempre con Flammarion, Fin des ambassades.

Mario Luciolli, Palazzo Chigi. Anni roventi. Ricordi di vita diplomatica italiana dal 1933 al 1948, Milano, Rusconi, 1976. Destinato a diventare uno dei più importanti ambasciatori dell’Italia contemporanea, Luciolli (1910-1988) fu giovane funzionario nel gabinetto di Galeazzo Ciano, che fu non solo il fucilato di Verona e, prima, il frequentatore (chiacchierone) del Circolo del Golf dell’ Acquasanta, del salotto della principessa Isabelle Colonna e di alcove di dame compiacenti, ma un degno Ministro degli Esteri, uno scrupoloso ‘culo di pietra’ a Palazzo Chigi, almeno sino a quando non sopravvalutò il proprio ruolo ed intelligenza; non percependo, se non a partire dal 1939,  le esagerate ambizioni del suocero e dell’Italia fascista, senza tuttavia trarne, fino al 1943, le conclusioni logiche, dure, eppur inevitabili. Luciolli fu, tra l’altro, Terzo Segretario a Berlino dal 7 ottobre 1940 al 14 marzo 1942.

Infine, Giuseppe Salvago Raggi, Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale, Firenze, Le Lettere, 2011. Il genovese marchese Salvago Raggi (1866-1946), entrato in Carriera nel 1889, ebbe molti rilevanti incarichi, tra i quali Addetto di Legazione a Madrid, a San Pietroburgo, a Berlino, a Costantinopoli, Segretario di Legazione (e, anni dopo, Console Generale) al Cairo, Ministro Residente a Pechino, Governatore dell’Eritrea, Ambasciatore a Parigi durante la Grande Guerra, Senatore del Regno. Non rende merito al coraggio ed all’abilità del nostro rappresentante il famoso 55 giorni a Pechino, un film storico del 1963, diretto da Nicholas Ray ed Andrew Marton, con Charlton Heston, Ava Gardner, David Niven. Il 21 giugno 1900 l’imperatrice vedova cinese Cixi dichiarò le ostilità alle Potenze straniere che spadroneggiavano nel Celeste Impero. Reparti dell’esercito regolare cinese ed i Boxer (un’associazione combattente ribelle, intrisa di nazionalismo xenofobo ed anticristiano) assediarono il quartiere delle legazioni per 55 giorni, dal giugno all’ agosto 1900; in esso trovarono precario rifugio 473 civili stranieri (149 donne e 79 bambini), 451 soldati di otto Paesi diversi e 2.800 cinesi convertiti al cristianesimo. Fino all’arrivo del Corpo di Spedizione di 20 mila uomini, giapponesi, nordamericani, tedeschi, italiani, francesi, russi, britannici, austriaci. Possiamo farci un’idea di come erano le ambasciate e legazioni, italiane e straniere, e di chi le guidava, che sempre parlava un ottimo francese. Di una forma mentis e modus operandi di un’élite, di sangue o di pecunia. Fino al 1926, per accedere al Pubblico Concorso per l’ingresso in Carriera, l’aspirante diplomatico italiano doveva dimostrare un’entrata di almeno 50 mila Lire annue, non poche. Perchè con il solo stipendio del Ministero certo egli non poteva assolvere, con il dovuto decoro, le funzioni connesse con la funzione di rappresentare il Regno d’Italia all’Estero. Mussolini abrogò la norma censitaria. Ciò detto, va riconosciuto altresì il valore della nostra diplomazia. Noi avevamo ereditato nel 1861 tante classi dirigenti, tante aristocrazie, tante élites. Non mancava al nuovo Regno, pur nato fortunosamente, un apparato di commis de l’État di buon livello. Ha scritto Francesco Perfetti in Feluche d’Italia. Diplomazia e identità nazionale, Firenze, Le Lettere, 2012:

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“La nascita del Regno d’Italia fu possibile anche per il sapiente operato di una classe diplomatica di stretta osservanza cavourriana. Da quel momento le ‘feluche’, dal nome del copricapo anticamente utilizzato dagli ambasciatori, hanno operato, nel corso delle varie fasi della storia nazionale, per tutelare gli interessi permanenti del paese. Un’élite che, anche nell’Italia contemporanea, svolge una funzione di estremo rilievo, che ha saputo ritagliarsi dei margini di autonomia che le hanno permesso, nei limiti delle sue facoltà, di contenere gli sbandamenti del Paese nell’arena internazionale”. 

La Francia della Terza Repubblica –  nata con la disfatta di Napoleone III nel 1870 e finita con la seconda guerra mondiale – più dell’Italia fu lo spazio ed il momento della grande diplomazia. Fu anche l’epoca di una caratteristica specie di gran commis reclutati tra le file dei letterati umanisti. Sotto la prospettiva della grande storia, è anche l’epoca della illusione della I Guerra Mondiale e poi della ginevrina Società delle Nazioni; il mondo al crepuscolo di un’aristocrazia del lignaggio o dello stile, di una diplomazia come arte. Stendhal, Chateaubriand, poi Claudel, Saint-John Perse, Giraudoux, Romain Gary, Jean-Christophe Rufin, Jacques Maritain, Paul Morand, Peyrefitte ed altri, grandi nomi della letteratura francese, sono stati parte della diplomazia della loro patria, in qualche modo eredi (o aspiranti tali) del genio di Talleyrand. Maurizio Serra, Ambasciatore d’Italia e primo italiano eletto all’Académie Française, il 9.1.2020, suona come l’epitome di un mondo, colto e raffinato, che la dilagante grosserie ormai emargina.

Governi e diplomazie lavorano da sempre per assicurare al proprio Paese una ‘sopravvivenza’ nella vasca di squali che è il consesso internazionale. La storia e l’economia, lo sappiamo,  hanno conferito ad alcuni Stati una posizione privilegiata rispetto ad altri, per la forza  economica e militare, il cosiddetto ‘hard power’, che dà loro maggiore potere rispetto ad altri. Il secolare gioco della diplomazia e della politica, anche in Italia, ha prodotto i suoi effetti, con vocazione ad un interesse nazionale che donasse all’Italia un ruolo di potenza egemone, sempre bramato, raramente intravisto. Dal 1861 ai giorni nostri, l’altalena di governi e di alleanze internazionali hanno determinato un destino fatto di alti e bassi, ma che hanno spesso dato all’Italia una posizione in prima o seconda linea nei principali scenari della politica mondiale.

Francesco Manta ha scritto su Insideover de Il Giornale, l’11 aprile 2019, Diplomazia e soldati all’estero. La politica italiana nel mondo:

“Agli albori del XX secolo, l’Italia era definita la ‘sesta ruota’ di un carro trainato da 5 potenze, quelle dell’Intesa, e quelle della Triplice Alleanza, attori sicuramente più forti sul piano internazionale, in termini militari ed economici. Eppure l’Italia c’è sempre stata, nella mai soddisfatta ambizione di grande potenza, accontentandosi del rango di potenza media. Così è stato nel periodo fascista, nella Guerra fredda, con le mai esaudite mire neoatlantiste, scavalcata dalla Jugoslavia nella questione di Trieste, dalla Turchia per le armi atomiche, osteggiata dalle ‘Sette Sorelle’ nella corsa al petrolio di Mattei, con un rigurgito di sovranità nella famosa notte di Sigonella”.

Il peso politico dell’Italia, un Paese alle volte indocile per il grande establishment politico internazionale, è stato sempre ridotto da logiche troppo vaste per la nostra diplomazia: 

“Eppure, tanti ammirano la grande capacità italiana in tanti settori, anche della vita internazionale, che 

ci hanno visto modello da emulare. L’Italia è stata sempre protagonista, da quando è Stato unitario, in tutti i contesti internazionali che l’hanno vista coinvolta. L’Italia fa parte di tutti i trattati e delle organizzazioni internazionali di primo piano, dalle Nazioni Unite, alla Nato, al Consiglio d’Europa, all’Osce, per finire all’Unione europea. Progetto nel quale è stata sempre e comunque contrastata da un blocco continentale franco-tedesco che ha messo in secondo piano gli interessi italiani. D’altro canto la classe politica italiana a Bruxelles non è stata sempre in grado di promuovere il proprio interesse nazionale nel momento giusto, nel posto giusto. D’altronde, l’Italia è stata sempre un po’ una ‘Cenerentola d’Europa’ come la definì Antonio Varsori”. 

In un suo famoso saggio, La Cenerentola d’Europa. L’Italia e l’integrazione europea dal 1946 ad oggi, Rubbettino, 2009. 

La chévalière, con stemma di famiglia dell’Ambasciatore marchese Antonio Meli Lupi di Soragna, apposta sulla ceralacca di accettazione del Trattato di Parigi fra l’Italia e le Potenze alleate vincitrici, sottoscritto a Parigi il 10 febbraio 1947, allorché nessun politico del Governo De Gasperi, forse memore di quanto successo a Rathenau nel 1922, in Germania, volle assumersi l’impopolare onere, simboleggia un po’ lo ‘spirito di servizio’ della nostra diplomazia. Del resto, siamo realisti. Come sosteneva Federico il Grande: ‘La diplomazia senza armi è come la musica senza strumenti’. L’abilità dialettica e concettuale è una cosa, preziosa, a tratti miracolosa, ma forza e potere necessitano, piaccia o no, oggi come ai tempi di Cesare, dello strumento militare e

non necessariamente per usarlo. Diceva Boutros-Ghali, Segretario Generale delle Nazioni Unite: “Ci volle un po’ di tempo prima che arrivassi a realizzare completamente che gli Stati Uniti ritengono scarsamente necessaria la diplomazia. Il potere è abbastanza. Solo i deboli confidano nella diplomazia… L’Impero Romano non aveva bisogno della diplomazia. E nemmeno gli Stati Uniti”.

In un libro del 2017, Diplomazia multilaterale e interesse nazionale. Dal Congresso di Vienna (1815) all’Atto Finale di Helsinki (1975) e oltre. La tradizione diplomatica italiana (Rubbettino), Rossella Pace afferma che nel II dopoguerra:

“la tradizione diplomatica italiana ha rappresentato un fattore essenziale per assicurare la continuità della tutela degli interessi nazionali, sempre seguendo i tre fondamentali assi della nostra politica estera: europeismo, atlantismo e multilateralismo”.

Beh, forse dal Trattato di Parigi in poi, nell’Italia ‘a sovranità limitata’, non certo dal 1815.

Non dimentichiamo neppure che l’Italia potè entrare alle Nazioni Unite solo nel 1955 e nella NATO per urgenti necessità strategiche statunitensi. L’Atlantismo è un aspetto dell’Italia d’oggi, informal colony degli USA, altrimenti esso mai ha costituito un asse fontamentale della nostra politica estera. Anzi, mai ha interessato l’Italia parte del Concerto delle grandi Potenze, dove, bene o male, c’è stata dal 1861 al 1943. L’europeismo? Quello velleitario mazziniano e successori ideali o quello realistico di Metternich, non a caso tanto apprezzato da Kissinger? L’unico ‘europeismo’ allora possibile, quello legittimista, di equilibrî sapienti, di saldo retroterra di storia e di tradizione, ipotesi di civile convivenza di un continente complesso, non ancora dominato da Washington. Poi, dal 1957, con i Trattati di Roma, è in parte un’altra storia, quella attuale, tribolata, controversa, lo sappiamo tutti. Multilateralismo? Il ‘luogo ideale’ per ‘occupare una sedia’ e dove reggere la coda ai più forti, cercando di non uscirne con le ossa rotte. Tutto il resto paiono concetti, per l’Italia, non solo contingenti, ma storicamente opinabili, se alla storia – quella vera ed a tratti dolorosa, con i suoi esiti ed errori, non delle vulgate mainstream – vogliamo agganciarci. In realtà, mi pare che l’Italia soffra su piano internazionale di una ‘sindrome di esclusione’, dal 1945 o forse sin dal 1861. L’ambasciatore Pietro Quaroni, un autorevole diplomatico del Dopoguerra, usava parlare della nostra “politica del sedere”, guidata dall’obiettivo di essere ammessi ad un tavolo prestigioso, prima ancora di avere qualcosa da dire o da dare, cioè l’illusione di aver recuperato, in qualche modo, la sovranità che la sconfitta nella WWII ci aveva tolto, riducendoci a protettorato. L’Ambasciatore Maurizio Melani ha dato alle stampe Lezioni di governance politica 

ed economica internazionale (Roma, Eurilink, 2015), riassumendo con efficacia:

 “Nuovi equilibri si stanno affermando nel mondo in tutti i campi. Accanto all’uscita dalla povertà, dall’isolamento e dall’ignoranza di miliardi di esseri umani in concomitanza alla globalizzazione e ai nuovi mezzi di informazione e comunicazione, si accentuano disuguaglianze, si alterano gli assetti ambientali del pianeta, si perpetuano ingiustizie e violazioni dei diritti umani, si alimentano instabilità, violenze e movimenti di intere popolazioni. Situazioni conflittuali di carattere etnico, sociale, culturale e religioso, oltre che le vendette della storia, parzialmente congelate durante la precaria stabilità della guerra fredda, riemergono con prepotenza e premono per revisioni di assetti territoriali, istituzionali e relazionali, che sembravano definitivi, creando anche nuovi spazi per ideologie totalizzanti e disumane. Esse si intrecciano con le nuove rivalità ai livelli regionale e globale con nuovi rapporti di potere, con le esigenze di risorse energetiche, idriche, minerarie e agricole di cui un mondo in crescita ha sempre più bisogno. La modernità sembra in rotta dappertutto, neanche rimpianta. Vi sono gli squilibri stimolati da un sistema finanziario dilatatosi in modo ipertrofico con logiche estranee ai bisogni dell’economia reale” 

Tutto ciò, otto anni dopo permane vero e condivisibile; uno scenario, mi pare, aggravato dalla pandemia 

Covid e, naturalmente, dal conflitto russo-ucraino, che, per intanto, ha drammaticamente ridimensionato l’Europa Occidentale, da sempre scarsa di materie prime ed alimentari, di fonti energetiche. Laddove la ‘Transizione ecologica’ è solo una impossibile formula acchiappa-citrulli del Pensiero Unico e di sinistre stolte.

Si leggono, talvolta, discettazioni sul ‘ruolo manageriale’ del nuovo diplomatico, ovvero come poter sperare di sopravvivere, nonostante tutto. Un’illusione retorica? Una camaleontica reinterpretazione dell’uomo bon à tout faire, come designavano i diplomatici quelli (molti, senza frontiere) che non li hanno mai amati? Una nuova professionalità? Il senso residuale di casta si è perso, con il male ed il bene che significava. La meritocrazia al MAE latita, per giunta. Sul piano personale, neppure trovi più una moglie (o un marito, se sei donna, ed è ancora più arduo) che si senta realizzata preparando colazioni e cocktails, guidando ed istruendo la servitù, dove ancora essa sussiste, curando amorevolmente residenze del patrimonio demaniale. Invece di realizzarsi in una professione per la quale ha studiato o lavorato. Non parliamo dei figli, sballottati tra scuole e lingue diverse. A volte pieni d’insicurezze e traumi, non avendo mai trovato un ubi consistam, radici solide alle quali afferrarsi. Forse anche per questo non scarseggiano gli appartenenti alla galassia LGBTQ+…

Oggi fare all’estero, ad esempio, il supporto attivo di penetrazione di imprese ed imprenditori italiani, o accompagnarli in grandi licitazioni, sul serio, non per semplice ‘dovere d’ufficio’, con notevole impegno, sacrificio, alacrità, senza misurare orari e fatiche, ‘ungere le ruote’ quando indispensabile ecc., significherebbe, necessariamente, non siamo ipocriti, poter alfine godere di qualche gratificazione, non esclusivamente morale. Con i relativi reati (e cause penali) di peculato, abuso d’ufficio, corruzione, riciclaggio denaro, omessa denuncia entrate ai fini fiscali ecc. dietro l’angolo, sempre pronti ad inghiottirti e distruggerti. Ed allora? Facciamo gli ‘impiegati pubblici’, con un po’ di zelo esibito, tanto per lo sperato avanzamento… Quando non sei all’estero trascorrendo giornate di troppe ore al Ministero a Roma,  con la colazione alla egualitaria mensa/self-service o al Circolo sul Tevere, per qualcuno (sempre meno) addirittura all’ esclusivo Circolo della Caccia a Palazzo Borghese, ed il prosaico ritorno pomeridiano in una Farnesina pressochè priva di ‘Qualifiche Funzionali’ – nei tempi precedenti la rivoluzione digitale assai necessarie in segreterie ed archivi, oggi sostituite dal ‘diplomatico informatizzato tuttofare’ – ma ahimè assenti, sempre, per lo strapotere sindacale che dall’inizio degli anni ’70 ha sovvertito gerarchie e funzionalità spicciola, a dispetto di pompose, talora altisonanti qualifiche in ‘sinistrese’, attribuite nel tempo ad impiegati amministrativi più o meno bravi. 

La diplomazia, quella vera, frutto di anni di applicato, solerte lavoro, con molti pregi ed alcuni difetti, sta tramontando inesorabilmente, in Italia ed altrove: anzi, è già stata sconfitta, è finita. Non proprio come il crollo dell’Impero Romano o la decadenza della Chiesa Cattolica, ma, insomma, un ordine consolidato, antico (il diplomatico e la meretrice non han forse dato vita a celebrate attività fin dalla notte dei tempi?), in fondo a tutti utile, alternativa all’homo homini lupus, si è perso, senza che ne sia sorto un altro. Come la famiglia tradizionale. Una nuova forma istituzionalizzata che la sostituisca non è, infatti, ancora stata avvistata.

@barbadilloit

Gianni Marocco

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