FormulaUno. Il talento inespresso di Jan Magnussen

Rinascere da sé stessi: la storia sportiva di un genio poliedrico dei motori negli anni ‘90

Roskilde è una cittadina della Danimarca orientale, situata ad una trentina di chilometri ad ovest di Copenaghen, celebre per la sua università e per ospitare (dal 1971) uno dei principali festival della scena musicale rock.

Inoltre, in tale località era stato nel 1955 inaugurato il Roskilde Ring, primo tracciato permanente del paese, presto dismesso – secondo un epilogo molto “scandinavo” – per le lamentele dei residenti che abitavano le case via via costruite intorno alla pista, già di per sé situata molto vicino al centro cittadino.

Tuttavia, il Ring era stato comunque la sede dei due Gran Premi di Danimarca di Formula 1 (non validi per il Mondiale) del 1961 e 1962, vinti rispettivamente da Stirling Moss e da Jack Brabham, in entrambi i casi su Lotus-Climax.

Ebbene, l’ideale solco tracciato dai 1019 metri del percorso e dagli eventi in loco disputati, doveva collegarsi e trovare nuova linfa in uno dei tanti esempi di coppie padre-figlio “d’arte” che lo sport del motore ha conosciuto – dagli Ascari agli Hill passando per i Villeneuve e i Fittipaldi – trovando in questo caso sempre in Zelanda, che della Danimarca è l’isola maggiore, il proprio fulcro.

Gli esordi e i primi successi

Agli albori degli anni Novanta, si segnala infatti un giovane pilota danese classe 1973 (nato ovviamente a Roskilde) che dopo i primi timidi esordi con le moto fuoristrada, successivamente abbandonate all’età di undici anni, sta cercando di farsi strada con le quattro ruote, avendo ottenuto incetta di successi con i kart: il suo nome è Jan Magnussen.

Per Magnussen il momento di passaggio è rappresentato dal 1992, prima stagione in monoposto, nello specifico in Formula Ford, con la conquista del prestigioso Festival di Brands Hatch, nonostante una partenza dalle retrovie; inoltre, il 1992 è l’anno della nascita del primo figlio, Kevin (nativo anche lui di Roskilde), che dal papà saprà apprendere alcuni fondamentali d’esistenza – su tutti, la necessità di doversi mettere in discussione volta per volta – come pure compagno di vettura.

Sin dagli esordi in monoposto, il danese riesce contemporaneamente a costruirsi una sorta di personaggio: senza sponsor di peso, basso, biondo e con le guance rosee, dalla timida e traballante parlata monosillabica, Magnussen non sembrava certo impersonare gli stilemi del pilota “duro e puro”, lasciando in ogni caso che fosse la pista a parlare.

I risultati ottenuti con Ford sono il preludio ad un 1993 in Formula Vauxhall, ma soprattutto all’annata 1994 trascorsa a competere nella Formula 3 britannica, alla guida della Dallara F394 numero 2 motorizzata Mugen-Honda e portata in pista dalla scuderia di Paul Stewart (il figlio di Jackie), con compagno di squadra il coriaceo Dario Franchitti.

I numeri sono straordinari: 14 vittorie su 18 eventi con annesso miglioramento del record che Ayrton Senna aveva segnato nel 1983, 308 punti finali (contro i 183 del secondo, il belga Vincent Radermecker) e campionato dominato.

Un pilota insondabile

Messo in luce il talento cristallino, tuttavia, agli inizi della carriera faceva da contraltare un approccio decisamente anticonformista all’attività di pilota: Magnussen fumava, non celava la sua avversione per la palestra e prestava poca attenzione alle convenzioni commerciali e agli incontri con i media.

Caratteristiche, queste ultime, che collidevano con la rettitudine e l’impegno richiesti già in quel periodo ad un professionista di primo livello (gli anni Settanta, come gli Ottanta, erano ben più che terminati), a maggior ragione considerando l’ingaggio ottenuto per la stagione 1995, con l’opportunità di ricoprire il ruolo di tester alla McLaren Mercedes, la scuderia dell’allora inflessibile capo Ron Dennis (che di Magnussen poi dirà: “Era il pilota più disorganizzato che abbia mai conosciuto”).

Per il giovane pilota di Roskilde si prospettava inoltre la possibilità di competere nel DTM, il celebre campionato turismo tedesco che in quegli anni era spesso imperniato sulla rivalità tra Alfa Romeo e Mercedes, con le Opel a ricoprire il ruolo del terzo incomodo, spesso trionfatore: al volante di una Mercedes Classe C nel 1995 e 1996, tra DTM e ITCC (che del turismo tedesco era l’emanazione a livello mondiale), il danese ottiene due vittorie nella serie internazionale (gara 2 di Estoril nel 1995 e gara 2 di Hockenheim nel 1996), arrivando secondo nella generale del 1995.

Di quel periodo, ovviamente, immancabili sono gli aneddoti.

Tra i tanti, quasi a voler rimarcare il carisma e il taglio dello spessore del personaggio, un episodio avvenuto in Repubblica Ceca durante la successiva esperienza in Formula 1: Magnussen si trova nel paese mitteleuropeo per provare e promuovere la Ford Ka, utilitaria che a partire dal 1996 la filiale europea della casa a stelle e strisce commercializzava.

Arrivato in conferenza stampa, alla prima e inevitabile domanda su quali fossero le sensazioni, la chiosa del danese fu: “È una delle peggiori auto che abbia mai guidato“, con evidente imbarazzo degli astanti.

Dagli anni in DTM le voci sul fatto che non fosse in forma e che non lavorasse abbastanza fuori dall’auto si rincorrevano senza sosta, arrivando a reificarsi in una sorta di patente d’ingresso con la quale il pilota danese si sarebbe dovuto confrontare a lungo; al 1996 appartengono anche alcune apparizioni nel campionato CART con la Penske PC-25 Mercedes (quattro gare, con miglior risultato un’ottava piazza a Laguna Seca).

La prima in Formula 1, il 1995 e il Giappone

Contestualmente alla complessità delle vicende personali, l’esperienza in McLaren – per quanto i chilometri percorsi non fossero stati molti o perlomeno non sufficientemente soppesati rispetto al livello di un esordiente – ha offerto a Magnussen l’opportunità di esordire in un Gran Premio, nella fattispecie quello del Pacifico 1995, organizzato ad Aida, sede delle uniche due edizioni del Gran Premio del Pacifico (1994 e per l’appunto 1995).

Situato nella cittadina di Mimasaka (di circa 30.000 abitanti), all’interno dell’omonimo distretto locato nella Prefettura di Okayama, nel Giappone Sudoccidentale e costruito in mezzo alle alture – con delle difficoltà indicibili dal punto di vista logistico e organizzativo nella realizzazione degli eventi – a partire da una collina spianata, al Circuito di Aida si associava la classica conformazione da alto carico aerodinamico, esigente in termini di trazione richiesta per affrontare l’uscita dalle curve: 3703 metri per tredici curve, inaugurato nel 1990, il toboga nipponico, piccolo, stretto, tortuoso era nel complesso una sintesi in diminutione dei tracciati di Monaco, Dallas e dell’Hungaroring.

Tuttavia, al netto degli assunti di carattere ingegneristico e architettonico, Aida 1995 ha rappresentato al meglio l’espressione “ciò che sarebbe stato se…”.

Nell’altra parte del box, sedeva Mark Blundell: il britannico, che in Formula 1 aveva esordito nel 1991 con la Brabham, fino a quel momento poteva vantare tre podi (i terzi posti in Sudafrica e Germania, nel 1993, sulla Ligier JS39 e un altro terzo gradino del podio l’anno successivo, a Barcellona, sulla Tyrrell 022), mentre da alfiere di Woking per il 1995 si era guadagnato dieci punti iridati in dodici Gran Premi (con migliore piazzamento stagionale a Monza, quarto); insomma, un compagno di squadra dal grande valore.

Nonostante i pochissimi chilometri messi in cascina, chiamato a sostituire l’indisponibile Mika Hakkinen sulla McLaren MP4/10B numero 8 motorizzata Mercedes, Magnussen in qualifica sigla il dodicesimo tempo cronometrato, con Blundell decimo, fermandosi a sette decimi dal compagno britannico (1’15”652 contro 1’16”339, entrambi ottenuti nella sessione del venerdì).

All’epoca le prove di qualifica si tenevano sulla base di due sessioni distinte (una al venerdì, l’altra al sabato), con la possibilità di migliorare i propri riferimenti del giorno prima e conquistare un piazzamento superiore; ebbene, nel sabato di Mimasaka è certo interessante rilevare come nessuna delle McLaren fosse riuscita a migliorare i tempi della prima sessione ma se da una parte Blundell non era andato oltre l’ 1’16”166, il giovane compagno danese aveva abbassato il proprio distacco di quasi mezzo secondo, arrivando sino a 1’16”368.

In gara, poi, il ritmo è notevole e a fronte dei sette ritiri, il risultato finale è un più che dignitoso decimo piazzamento, alle spalle di Blundell – e nella medesima tornata, entrambi a due giri dai primi – con il miglior giro veloce personale fissato in 1’18”631, a fronte dell’1’18”983 del più esperto riferimento diretto.

Addirittura, la sua prestazione verrà descritta come “highly accomplished” da parte di Autocourse, prestigioso annuario motoristico che ne diede un connotato estremamente positivo.

Dopo quella gara comunque Magnussen non ha altre grandi opportunità, dividendosi nel 1996 tra le ruote coperte e gli Stati Uniti.

Capitolo “Stewart

La grande occasione, però, arriva l’anno venturo, quando Jackie e Paul Stewart lo scelgono per la loro scuderia, la “Stewart”, all’esordio assoluto nel 1997; l’altra tuta bianca, sponsorizzata HSBC, viene affidata a Rubens Barrichello, nel Circus dal 1993 (e fino al 1996 sempre con la Jordan, con la quale si era guadagnato due podi e la pole position del 1994 in Belgio), grande speranza dell’automobilismo verde e oro.

La Stewart Ford SF01, gommata Bridgestone (anch’essa esordiente nella Formula 1) e progettata da Alan Jenkins, Dave Amey e Eghbal Hamidy era chiaramente un prototipo tutto da sviluppare, che necessitava di un lungo lavoro sia in fabbrica che in pista.

Questo scenario era antitetico rispetto al modo con cui Magnussen aveva inteso le corse sin dagli esordi, ovvero sia un approccio prettamente istintivo, che lo aveva portato – con punte velocistiche da primato – ad adattarsi in maniera pressoché spontanea e naturale ai mezzi che gli erano stati dati, quasi a “sentire” le vetture che gli venivano affidate, per quanto nella maggior parte dei casi già competitive e di fascia primaria o per lo meno ampiamente svezzate.

La Stewart, all’opposto, era un progetto costruito da zero e dunque molto lontano dai limiti e in questa ottica richiedeva un lunghissimo lavorio di collaudo, sviluppo e messa a punto che mal si conciliava con l’attitudine del danese: tutto questo peserà tantissimo sulla sua carriera.

In effetti, in un’epoca in cui non esistevano grandi limitazioni alle prove in pista e i dati, oltreché dai computers, venivano raccolti dalle centinaia di chilometri che fisicamente i piloti erano chiamati a percorrere in sessioni di test interminabili, l’incapacità del danese di raffinarsi, l’assenza di una spirale portante di abnegazione, assumeranno un peso decisivo.

Nell’eterna dialettica tra l’uomo e la macchina, la mancanza di esperienza e l’incapacità di assumere dal principio un carico maggiore di lavoro, pervengono ad una sintesi insoddisfacente – almeno agli inizi dell’avventura Stewart – dal punto di vista della prestazione e dei susseguenti risultati.

La strada si fa da subito in salita e non soltanto nella misura in cui il grosso del lavoro venga affidato al brasiliano; a complicare maggiormente la situazione – in una delle rare giornate di prove disponibili – ecco un serio incidente occorsogli in febbraio sulla pista dell’Estoril, in Portogallo.

Uscito di pista alla curva 2 per un cedimento meccanico, nell’impatto contro le barriere un frammento della sospensione divelta, sfondato il telaio, taglia la tuta e ferisce la gamba del pilota, richiedendo il trasporto in ospedale e l’applicazione di sei punti di sutura.

La prima stagione della squadra britannica non è memorabile: su diciassette Gran Premi totali, Barrichello arriva alla bandiera a scacchi solamente due volte (pur dal punto di vista statistico tre i piazzamenti, in quanto ci sarebbe anche la quattordicesima piazza in Austria, dove il brasiliano, quinto in qualifica, viene classificato nonostante una uscita di pista mentre era in lotta per le posizioni antistanti la zona punti); per il danese i piazzamenti sono cinque – dei quali, tre entro le prime dieci posizioni – e per il resto sono ritiri.

Peccato che la differenza reale, a mo’ di spartiacque con quello che sarebbe potuto essere, si sia compiuta nel bagnatissimo Gran Premio di Monaco, con Magnussen sì settimo ma al cospetto di una strabiliante e salvifica seconda posizione di Barrichello: l’unico arrivo a punti dell’intera stagione.

Ad ogni modo, andando oltre il mero dato quantitativo e le classifiche, analizzare il 1997 in casa Magnussen/Stewart nella maniera più ampia ed approfondita possibile significa porre l’accento sul fatto che con il trascorrere dei mesi e con il macinare dei chilometri, le prestazioni del danese sembrassero trovare una maggiore quadratura: in particolare, si lasciavano segnalare la condotta tenuta in Belgio fino a quando la pista, una volta asciugatasi, non avrebbe ricacciato il ragazzo di Roskilde in un’anonima dodicesima piazza, oltreché il sesto miglior tempo nelle qualifiche dell’A1 Ring.

Tuttavia, quel finale in crescendo e quei piccoli mattoncini posti in vista del 1998, venivano totalmente mortificati dal modello successivo, la SF02, figlio dei nuovi regolamenti che per il penultimo campionato di Formula 1 del Ventesimo Secolo, avevano ristretto la carreggiata dei prototipi di venti centimetri e avevano introdotto le gomme scanalate (per ridurre l’impronta a terra e quindi le velocità).

I punti complessivamente raccolti dalla SF02 saranno addirittura uno in meno del 1997 (cinque contro sei), frutto dei due quinti posti di Barrichello in Spagna e in Canada, nonché dell’unico punto raccolto da Magnussen in Formula 1, sempre sul circuito dedicato a Gilles Villeneuve, al termine di un Gran Premio al cardiopalmo.

Eppure, nonostante il tanto sospirato primo punto, quello canadese resterà l’ultimo Gran Premio della carriera di Jan Magnussen, licenziato per far posto a Jos Verstappen.

L’unica stagione davvero buona per la Stewart sarà la 1999, l’ultima (quarta piazza tra i costruttori), contrassegnata da diversi arrivi a punti della SF03, in particolare dai tre terzi posti (più la pole position della Francia) di Barrichello ma specialmente dall’incredibile successo di Johnny Herbert ottenuto al Nurburgring, una delle gare più folli, emozionanti, discontinue che la Formula 1 contemporanea abbia mai conosciuto.

Sempre del 1999 è la cessione decisa da Stewart della “sua squadra” al motorista Ford, che dopo averla rinominata Jaguar competerà direttamente tra il 2000 e il 2004, con risultati ancora più deludenti del predecessore, prima che tutto il comparto venga acquistato dalla Red Bull.

L’avventura in Formula 1 di Magnussen si era invece arenata già nel 1998: lo stesso protagonista avrebbe molto tempo dopo ammesso – a posteriori – di non essere pronto mentalmente, arrivando a bollare come “un errore, l’aver accettato la Stewart” e che invece avrebbe dovuto continuare per una, se non due stagioni, con la McLaren in qualità di tester.

Sapersi reinventare in assenza di certezze

A ben guardare comunque, l’asperità attitudinale del pilota, incapace financo di costruire un più saldo rapporto con i tecnici è stata fortemente acuita dalla questione affidabilità succitata, un macro problema che ha fortemente inficiato l’apprendistato di un pilota che avrebbe necessitato di un clima e di un ambiente di lavoro  molto più sereno, proprio come ricordato da Andy Le Fleming, allora Ingegnere Capo (il responsabile della squadra degli ingegneri), nonché personale di Barricchello nel 1997, 1998 e di Herbert nel 1999.

A distanza di lustri dalle stagioni in Formula 1, del classe 1973 si è continuato lo stesso a parlare – rimanendo puntati unicamente su quei pochi Gran Premi e dunque compiendo un torto, indice di una certa limitatezza di giudizio – come di un esempio perfetto di talento rimasto inespresso a causa del troppo spesso mal celato disinteresse a lavorare su sé stesso; un aspetto, quest’ultimo, acuito e reso quasi comico da una proverbiale disorganizzazione, assolutamente inconsueta, come raccontato ancora a distanza di anni persino da Ron Dennis in persona.

Ritornando al 1998, l’angoscia, la paura e lo sconforto non potevano non essere le costanti di vita del danese, a fronte di una carriera che sembrava vicina a terminare a neanche venticinque anni d’età: ed è a questo punto che si apre invece una porticina.

David Sears, ex pilota di turismo e manager di Magnussen, riesce a procurare al suo assistito un test con Panoz negli Stati Uniti: Magnussen, però, in un primo momento è reticente, salvo poi decidersi, convinto anche dal clima di squadra ad assumersi la responsabilità di entrare a far parte di un programma ufficiale ambizioso e di alto livello.

Scomodare per il 1999 di Magnussen definizioni quali “redezione” o “rinascita” suonerebbe retorico, per cui alla fine forse è il concetto di “ripartenza” che meglio sintetizza questa nuova via; una via definibile come esempio cardine di una virtù concretizzatasi nella scelta di intraprendere un cammino verso mondi o realtà ignote, lontanissime o impossibili rispetto a quanto costruito fino ad un certo momento di vita o professionale (il 1998) che fosse.

Oltre ad un nuovo e parziale impegno nella CART (sette gare da alfiere della Patrick Racing con telai Swift o Reynard; miglior risultato il settimo posto di Vancouver), il 1999 di Jan Magnussen lo vede prendere parte all’American Le Mans Series come pure alla prima Le Mans della sua vita (la prima partecipazione di ventitré consecutive, tra il ’99 e il 2021) – conclusa con l’undicesima piazza assoluta – alla guida della Panoz LMP-1 Roadster-S numero 11 a motore Ford, insieme a Johnny O’Connell e Max Angelelli.

Da quel momento, saputosi reinventare, la poliedricità del danese si metterà in mostra in tutto il suo splendore: endurance, Gran Turismo, prototipi, Nascar Sprint Cup (una unica apparizione, targata 2010, nella Toyota/Save Mart 350 sull’Infineon Raceway di Sonoma con la Toyota; trentaduesimo in qualifica e dodicesimo all’arrivo), Grand AM, fino alle apparizioni del 2020 e 2021 nel TCR danese, nella prima annata con al Volkswagen Golf GTI (due successi) e poi con la Cupra Leon (otto vittorie).

Le soddisfazioni non erano tardate ad arrivare, soprattutto negli U.S.A. dell’ALMS (campionato tenutosi tra il 1999 e il 2013, poi confluito nella Grand AM e organizzato in collaborazione e secondo le regole e le specifiche dell’Automobile Club de l’Ouest, ossia della “maratona della Sarthe” che dal medesimo ente è patrocinata): già alla terza gara, in coppia con O’Connell, la Panoz LMP-1 Roadster-S numero 2 trionfa, facendo doppietta davanti a quella di David Brabham ed Erik Bernard; il contributo del danese sarà gigantesco, arrivando per la scuderia americana il titolo costruttori alla fine dell’anno, davanti alla BMW.

Divenuto alfiere ufficiale della General Motors nel 2004 (sino al 2019), la carriera del pilota danese continuava inesorabilmente a dipingersi momenti di assoluto valore: dopo il quarto posto assoluto a Le Mans nel 2003 (con l’Audi R8 del Japan Team Goh in trio con Seiji Ara e Marco Werner), a bordo della GT, fiore all’occhiello del marchio Chevrolet, arrivano in Francia quattro vittorie di classe (2004, 2005, 2006, 2009; nel 2006, per l’equipaggio formato insieme a Oliver Gavin e Olivier Beretta era arrivato un altro quarto posto assoluto, dopo il sesto assoluto di due anni prima), accompagnate dalle tre in GT1 nella 12 Ore di Sebring (2006, 2008, 2009) e da quella (classe GTLM; quarto assoluto) alla 24 Ore di Daytona nel 2015.

Nel palmares vanno poi aggiunti i due campionati conquistati sempre con la Corvette, ovvero sia il titolo piloti ALMS del 2008, nella classe GT1 e quello del 2013, nella classe GT.

Con lo scoccare del nuovo millennio, quello che da più parti era stato elevato a grande prospetto, a futuro della “velocità e dei Gran Premi”, si è trasformato in uno straordinario interprete delle gare di durata: costanza, lavoro di gruppo, capacità di leggere le situazioni, avere pazienza e pensare in prospettiva, tutte qualità – sviluppate nel tempo – delle quali il Magnussen “pilota delle formule”, insomma quello prima versione, aveva difettato, rischiando di compromettere seriamente la propria carriera.

Una carriera che invece è proseguita e che continua mirabilmente, caratterizzandosi per una longevità non comune.

Al momento, l’ultima partecipazione ad una 24 Ore di Le Mans (che nel frattempo, per la prima volta dalla soppressione del World Sportscar Championship al termine del 1992, era tornata nel 2011 a far parte di un campionato, nella fattispecie l’Intercontinental Le Mans Cup, divenuto dal 2012 World Endurance Championship) è quella del 2021: ventinovesimo assoluto e diciassettesimo nella classe LMP2 con la Oreca 07 a motore Gibson GK 428 (un V8 da 4.2 Litri) numero 49, schierata dalla High Class Racing e pilotata anche da Anders Fjordbach e da Kevin Magnussen.

Un connubio, quello tra i Magnussen che ha allineato due carriere per certi versi molto simili, spesso sul filo del rasoio e valorizzate da quella capacità di reinventarsi, assumendosi i rischi di una caduta senza necessariamente poter disporre di una ulteriore opportunità per riemergere.

Ed è forse questo l’insegnamento o ancor di più l’esempio fondamentale.

 

 

 

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

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