Segnalibro. Quando Kundera accusò il Patto di Yalta e il partito comunista cecoslovacco

Adelphi pubblica un volume con due testi dello scrittore: il discorso contro la censura e uno scritto del 1983 sull'Europa

Un occidente prigioniero di Milan Kundera per Adelphi

Nel 1956 il direttore dell’agenzia di stampa ungherese inviò un telex alle agenzie di tutto il mondo, poco prima che la redazione fosse squassata dall’artiglieria sovietica che apriva la strada di Budapest alle truppe che invadevano l’Ungheria. Il direttore informava di quello che stava accadendo e terminava scrivendo: “Moriremo per l’Ungheria e l’Europa”. Che significava questa frase in tempi di guerra fredda e divisione dell’Europa in Nato e Patto di Varsavia? Il direttore intendeva sottolineare che attraverso l’Ungheria l’Urss attaccava l’Europa e perché la nazione rimanesse europea gli ungheresi erano disposti a morire.

Il significato di questa espressione dipende dal fatto che i popoli dell’Europa centrale, cechi, slovacchi, polacchi, ungheresi, per ragioni geopolitiche hanno faticato molto più di altri popoli a definire una propria identità nazionale. Culturalmente si sono sempre sentiti europei, ma erano confinanti con una grande potenza slava, la Russia, che hanno sempre considerata diversa da sé. Nel 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, sono stati consegnati all’Unione sovietica. Europei inglobati in un blocco differente. Situazione ancora non chiarita definitivamente nonostante la fine del comunismo e dell’Urss.

Adelphi ha pubblicato un libro, Un Occidente prigioniero, di Milan Kundera, che fa il punto sulla cultura europea di queste nazioni e sui compiti dell’Occidente (“La letteratura e i popoli europei” e “Un Occidente prigioniero”). Per lo scrittore ceco le nazioni del centro Europa erano “una piccola Europa ultraeuropea” per secoli schiacciate dagli Imperi centrali da una parte (Impero asburgico e Impero austroungarico) e dall’altra dal mondo zarista prima, sovietico poi. Kundera ricorda una frase pronunciata dal poeta Karel Havlicek: “ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo” (pag. 56). Ma questi popoli definiti sbrigativamente appartenenti a “Stati satelliti” dell’Urss, seppero esprimere una cultura e un mondo, quello mitteleuropeo, davvero inedito e molto ricco. Un compendio del sapere europeo davvero unico, un’Europa in scala, più piccola e molto originale basata sul massimo delle differenze nel più piccolo spazio possibile, di fronte alla Russia (poi Urss) basata invece “sul minimo della diversità nel maggior spazio possibile”. Questo crogiolo di lingue e culture che usava l’alfabeto latino, si sentiva lontano, molto lontano dal mondo russo e – a maggior ragione – da quello sovietico. Kundera tiene un discorso, in apertura del IV congresso dell’Unione degli scrittori in Cecoslovacchia, nel 1967, nel quale sottolinea con coraggio, che “la sopravvivenza di un popolo – il riferimento è alla nazione ceca ma in genere a tutti i piccoli popoli – dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei vandali, gli ideologi del regime”. La rottura fra il sistema comunista e gli scrittori, fu consumata. E la Primavera di Praga dimostrò come la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema, accelerò il disfacimento della struttura politico-totalitaria del comunismo in Ungheria.

Nel libro, oltre al discorso di Kundera, è riportato un saggio, scritto nel 1983, nel quale l’intellettuale ceco affronta la percezione che l’Europa ha delle proprie nazioni. Un modo per ridefinire la “mappa mentale” degli europei accusando l’Occidente di non aver fatto nulla mentre scompariva lentamente un lembo importante dell’Europa: Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, inghiottite nel Patto di Varsavia. L’implicito attacco è alla Gran Bretagna e agli Usa che nel Patto di Yalta stabilirono che quelle nazioni dovevano finire nelle mani dell’Unione sovietica. Non solo: Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria sono state le nazioni che, dal 1956 al 1970, hanno dato vita a rivolte e contestazioni contro il blocco sovietico e contro il comunismo. Una “visione centroeuropea del mondo”, quella di Kundera, che sottolinea l’estraneità di quelle culture e quei popoli al mondo comunista e le conseguenti rivendicazioni.

Un testo molto attuale, che dice molto anche dello svolgersi della storia e di come le identità dei popoli siano pesantemente condizionate dalla geopolitica.

Un Occidente prigioniero,di Milan Kundera, Adelphi ed., pagg. 85, euro 12,00; (prefazione di Jacques Rupnik e Pierre Nora; trad. di Giorgio Pinotti)

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Manlio Triggiani

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