Il punto. Via Rasella, l’ignoranza della storia (peggio dell’uso politico)

Si è dovuto leggere che i militi del battaglione Bozen vittime dell’esplosione – insieme a due civili italiani di passaggio, dei quali non si parla mai – appartenessero alle SS. Una falsificazione ideologica

Una immagine di Via Rasella a Roma con le schegge della bomba partigiana ancora sugli edifici

Potrò sembrare monotono, ma non posso fare a meno di osservare come non sia l’uso politico della storia, che vi è sempre stato e sempre vi sarà, ma l’ignoranza della storia nelle sue componenti fattuali, a inquinare l’odierno dibattito politico. Dalla pseudodonazione di Costantino in poi, non sono mancate certo le menzogne o i  falsi storici utilizzati per avallare posizioni di potere e rendite ideologiche, ma se questo avveniva in passato è inconcepibile che possa verificarsi nell’era informatica, in cui spesso con pochi clic è possibile verificare l’attendibilità di un’affermazione.

Torniamo al caso delle vittime dell’attentato di via Rasella e delle polemiche seguite all’intervista del presidente del Senato La Russa. Anche in questa occasione si è dovuto leggere che i militi del battaglione Bozen vittime dell’esplosione – insieme a due civili italiani di passaggio, dei quali non si parla mai – appartenessero alle SS. Si può anche capire che in un primo tempo, a caldo, i responsabili dell’attentato, consapevoli dell’impopolarità della loro azione fra i romani (testimoniata anche dal documentato saggio di Aurelio Lepre Via Rasella, Laterza, Roma-Bari 1996), avessero cercato di demonizzare i militari del Bozen per angelicare se stessi. In una Roma occupata dai tedeschi, per altro, gli attentatori non potevano certo controllare i ruolini del battaglione né seguire un corso accelerato di uniformologia. Purtroppo però tale affermazione è stata ripresa acriticamente anche in seguito e viene utilizzata ancora oggi, nonostante  che sia stata smentita anche da autorevoli esponenti della Resistenza romana. 

Una voce insospettabile fra tutte: quella di Matteo Matteotti, figlio di Giacomo e futuro deputato e ministro della Repubblica, ma all’epoca partigiano socialista a Roma. Matteotti dichiarò in un’intervista a Mixer che i militi vittime dell’attentato “non avevano niente a che fare con le rappresaglie, gli orrori che venivano perpetrati nei confronti dei partigiani e della popolazione. Si trattava appunto di un reparto di soldati di scarso rilievo bellico e aggressivo» (l’intervista è oggi consultabile in rete con questo collegamento: https://www.larchivio.com/matteotti.htm). 

Un altro argomento utilizzato per giustificare l’attentato era che le vittime fossero “nazisti”. Certo, erano altoatesini arruolati a forza nell’Esercito della Germania nazista. Alcuni, forse molti di loro potevano condividere l’ideologia nazista, ma non più di quanto i nostri militari di leva condividessero l’ideologia fascista. Moltissimi, forse tutti, nutrivano risentimento nei nostri confronti per l’italianizzazione forzata di quello che consideravano il Sud Tirolo, ma è indicativo il fatto che fra i superstiti non albergasse uno spirito di vendetta. La prassi dell’esercito tedesco voleva che le rappresaglie fossero eseguite da membri dei reparti che avevano subito l’attentato; loro invece, in maggioranza cattolici, si rifiutarono di sparare e il lavoro sporco passo alle SS, quelle vere. Sulle vicende degli altoatesini (e anche dei trentini) reclutati forzosamente da Hitler può essere senz’altro utile la lettura del volume Dall’Alpenvorland a via Rasella – Storia dei reggimenti di polizia sudtirolesi 1943-1945di Lorenzo Baratter (Publilux, Trento 2004).

Nel mondo altoatesino le valutazioni dell’attentato sono sempre state univoche, non solo fra i reduci del Bozen, che per anni continuarono a riunirsi nel Santuario di Pietralba commemorando i commilitoni caduti, ma a livello istituzionale. Fece scalpore, nel 1981, la cerimonia in cui fu scoperta una lapide in memoria dei caduti di via Rasella nel cimitero austro-ungarico di Bolzano, una lapide in cui l’azione dei gappisti veniva definita proditoria. La cerimonia fu presenziata da Silvius Magnago, all’epoca presidente della Provincia autonoma di Bolzano, fra le ovvie proteste dell’Anpi e le altrettanto scontate interrogazioni parlamentari di esponenti del Pci. 

Detto per inciso, è singolare come la sinistra esalti Magnago per il suo autonomismo, rimuovendo però l’altro Magnago: compreso quello che a metà anni Settanta, quando il Pci sembrava prossimo al “sorpasso” sulla Dc, minacciava la secessione perché non voleva che l’Alto Adige cadesse sotto un governo comunista.

Il punto debole dell’intervista di La Russa semmai è un altro: aver presentato i militari del Bozen come musicisti. In questo il presidente del Senato può essere stato ingannato dal fatto che i soldati del battaglione cantassero mentre dopo un’esercitazione militare rientravano negli alloggiamenti. Il canto, però, era molto più coltivato nella Wehrmacht di quanto non lo sia stato e lo sia nell’Esercito italiano. Cantare durante le marce era considerato oltre che un utile esercizio di respirazione un modo di rendere più coeso il reparto e sollevarne il morale: più che di un’opzione, si trattava di un’imposizione.

Tanti anni fa ebbi modo di conoscere Marcello Fabbri, poeta e scrittore fiorentino che in gioventù aveva combattuto, suo malgrado, nella divisione Monterosa della Rsi, esperienza che descrisse tra l’altro nel suo romanzo Il sergente che non poteva morire (Lo Scarabeo, Bologna 2004). Una volta, mentre eravamo a cena, mi parlò del durissimo addestramento che, prima di essere destinato al reparto, aveva dovuto fare in Germania, agli ordini di ufficiali e sottufficiali tedeschi. Dopo una massacrante esercitazione sulla neve, con relativa marcia, lui e i suoi commilitoni si erano rifiutati di cantare, o forse non avevano cantato con il debito entusiasmo. Il maresciallo che li comandava non aveva sentito ragioni, e, alle soglie delle baracche dove speravano di potersi finalmente riposare, li aveva fatti tornare indietro e riprendere la marcia cantando. 

Nulla di strano che anche le future vittime del Bozen cantassero, volenti o nolenti, mentre si avviavano verso il loro tragico destino.

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Enrico Nistri

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