“Del declinare del mondo”: la storia mondiale e la fine della civiltà euro-americana

Il libro di Beniamino Di Dario sulle orme di Oswald Spengler

Il tramonto dell'Occidente nella traduzione del 1970

Oswald Spengler, autore de Il tramonto dell’Occidente nella traduzione del 1970

A partire dalla fine della Grande guerra, una critica articolata è stata mossa contro il nuovo ordine mondiale fuoriuscito da quel conflitto di epocale portata; critica diretta ad evidenziare gli aspetti più problematici della modernità, che prese il nome di “cultura della crisi”.

Già Nietzsche, in verità, come un novello Epiterse, ebbe a diffondere nell’Europa fin de siècle l’annunzio panicante della “morte di Dio”, vaticinando l’avvento del nichilismo, la fine di ogni supremo valore; ma nel periodo entre-deux-guerres gli spiriti più acuti del tempo, tra i quali Oswald Spengler, la cui figura incombe nell’immaginifico epistolario di Beniamino Di Dario indirizzato ad antichi e moderni, in questo Del declinare del mondo che riecheggia il «Tramonto spengleriano già dalle corrispondenze del titolo», ebbero a ravvisare il “tramonto dell’Occidente”, immanentizzando e  geolocalizzando, si potrebbe dire, la percezione della crisi.    

Mentre, oggi come allora, calato nella propria epoca, l”“uomo corrente” o, per dirla in termini evoliani, “sfuggente”, «si considera l’apice del progresso e del processo evolutivo – afferma Di Dario – […]  Entrambi, l’uomo e la sua civiltà, sono in realtà prigionieri di un’illusione da cui solo la storia, se svincolata dalla banalità causa-effetto ed elevata a metafisica, può farli riaffiorare.»

Forte in queste pagine il motivo senechiano del “ritiro del saggio”. E se “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt” insegnava lo stoico contemporaneo di Nerone, Petronio e Paolo di Tarso, e con tali parole chiosava Spengler il suo Tramonto dell’Occidente, Di Dario ci ricorda anche che “Habent sua fata libelli”, che anche i “libri hanno il loro destino”: non è infatti un caso che questo suo «libro catacombale» germini in un contesto di decadenza come il presente, «l’indomani di una catastrofe». Il testo di Di Dario vide infatti la luce nel 2021, anno primo post-Covid.

Del resto, ce lo hanno tramandato gli antichi greci con Esiodo, e Vico fu l’ultimo depositario di questa arcana conoscenza:«Come ogni altro composto alla deriva nel divenire, le civiltà ne subiscono le leggi cicliche; nascono e crescono, maturano, invecchiano e muoiono.» È ciò più o meno quanto insegna la sophia perennis circa l’eterno dramma cosmico, per cui dall’unità spirituale originaria del Principio si giunge al dominio della mera molteplicità, dal Vero, si giunge, per tappe degenerescenti, all’ignoranza e al male, all’irrealtà, all’oscurità spirituale, com’è di una scintilla di luce che via via si disperda nelle tenebre.

Scriveva Paul Van den Bosch in Les enfants de l’absurde, sunteggiando lo zeitgeist della contemporaneità: «Ci sembra che Dio sia morto di vecchiaia e che noi esistiamo senza uno scopo.» Similmente il mondo «alla fine della decadenza» (a dirla con  Rimbaud) descritto da Di Dario ci sembra il precipitato della luce emessa da un astro morto.

«Cosa ne sarà dunque – si chiede Di Dario – della civiltà occidentale euroamericana, chiamata a chiudere il ciclo dei cicli?»

Questo il responso:

«Destinata a trasfigurarsi nell’imminente città mondiale, essa accoglie nel suo seno morente le carcasse e i relitti delle civiltà che furono. Ma sintomi e simboli la condannano all’ineluttabile disfacimento. Eppure, colui che si trova a vivervi è un privilegiato, perché è in grado di contemplare lo spegnimento della civiltà. Ora la fine della Storia rende possibile il tentativo di una storia minima del mondo. Nel calare della notte mondiale, il metafisico della storia sembra chiamato a intonare requiem e lamenti funebri. E invece potrà mostrare agli uomini del proprio tempo che, come nelle antiche tragedie, quando il finale è già noto si può assistere alla recita senza scomporsi.»

Un destino da «convitato di pietra», dunque, Di Dario profila soprattutto per questa sorta di nietzscheano «uomo della conoscenza» che, forte del suo sentire e del suo sapere, può guardare all’evolversi della storia con uno sguardo “dall’alto”, o meglio, “dal centro” delle cose, senza rassegnarsi al pessimismo e alla disperazione: «Non andare contro, né lasciarsi trascinare, ma restare fermi. Fermi nella corrente.»

* Del declinare del mondo, di Beniamino Massimo Di Dario (Aragno. –2021, pagg. 385 – euro 14, 25)

 

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Giovanni Balducci

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