Focus (di M.Lavezzo). Se gli Usa si interrogano sul crollo di patriottismo e coesione nazionale

Una riflessione su ciò che pensano gli americani dell’attuale situazione della società a stelle e strisce

Il WSJ si sofferma sugli esiti di una indagine sugli orientamenti culturali e politici degli americani

America
Centro di figlie uguali, di uguali figli,
tutti, tutti in pari grado cari, piccoli, adulti, giovani o vecchi,

robusta, grande, bella, paziente, capace, ricca,
perenne quanto la terra, la Libertà, la Legge e l’Amore,

sublime, salubre una Madre torreggia seduta, 

sull’adamantino trono del Tempo.

da Walt Whitman, “Foglie d’erba”, 1855


Il prestigioso centro di ricerca NORC, legato all’Università di Chicago, ha effettuato il mese scorso per il Wall Street Journal un sondaggio su ciò che pensano gli americani dell’attuale situazione della società a stelle e strisce.

Il titolo dell’articolo con cui il quotidiano ha diffuso, il 27 marzo, i risultati del sondaggio è già di per sé significativo: “America pulls back from the values that once defined it”. Ne emerge in effetti che quelli che vengono definiti “valori tradizionali” americani non sono più considerati “molto importanti” dalla maggioranza degli intervistati: il patriottismo, ad esempio, è ritenuto tale solo dal 38% (contro il 70% del 1998) e diminuzioni simili sono evidenziate per la religione, il generare figli, il coinvolgimento con la comunità, il lavoro duro, la tolleranza; l’unico “valore” a far registrare un aumento risulta, e non poteva essere altrimenti, il denaro. Tale tendenza è stata rilevata in tutti i gruppi d’età, ma soprattutto in quello più giovane (sotto i 30 anni).

L’analisi

Una volta sintetizzati i risultati del sondaggio, l’articolo del WSJ non ne fornisce un quadro interpretativo unitario, citando la crescita dell’individualismo, la concentrazione delle persone sui diritti e sul proprio background culturale e razziale, le divisioni indotte dalla politica, la crescente difficoltà di raggiungere o conservare il benessere. Un quadro che non sembra rendere appieno la complessità della crisi della società americana, sia a livello federale che statale. In ogni caso, il fatto che soltanto il 21% degli intervistati consideri gli Stati Uniti il miglior Paese al mondo sembra confermare la crisi del cosiddetto “eccezionalismo” americano, basato sulla credenza che il “destino manifesto” degli Stati Uniti sia quello di essere esempio e guida per il mondo intero, redimendo gli altri Paesi dagli errori che impediscono loro di svilupparsi nel migliore dei modi.

In realtà, il principale interesse del conservatore WSJ sembra, fin dal titolo dell’articolo, quello di esprimere la propria preoccupazione per l’involuzione del Paese sul terreno valoriale e, di conseguenza, su quelli dell’identità e della coesione nazionale. E in effetti sono stati molti, negli ultimi anni, i segnali in questo senso, a cominciare dai gravi fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Fino a qualche anno fa, nonostante leader non sempre abili e non sempre amati, gli Americani erano restati fedeli al loro mito fondativo, di derivazione puritana, della “città sulla collina”, cui Dio ha affidato la missione di civilizzare il mondo. E proprio lo status riconosciuto agli Stati Uniti a livello internazionale aveva sempre convinto i loro cittadini dell’eccezionalità del loro modello civile. Già nel 1783 George Washington aveva definito gli USA “a rising empire”: una nazione che, per legittimare se stessa, avrebbe dovuto puntare sempre più in alto, anche a costo di guerre, sacrifici e privazioni dolorose. La diversità degli Stati Uniti, insomma, doveva necessariamente declinarsi all’esterno, traducendosi necessariamente in egemonia: ed è stato in suo nome che, più volte, gli americani hanno respinto la tentazione dell’isolazionismo.

Oggi, dopo le fallimentari “guerre per la democrazia” in Afghanistan e Iraq, il mito fondativo e la sua declinazione esterna sembrano in crisi; e appaiono meno credibili i versi appassionati di Walt Whitman, padre della poesia americana, qui riportati in apertura. Eppure, non saremmo così sicuri della fine della “città sulla collina”, dato che la superpotenza geopolitica americana resta tale, come ampiamente dimostrato anche nel conflitto russo-ucraino, condotto per procura ma con un chiaro e ampio vantaggio su avversari e alleati. Resta da vedere se tale vantaggio sia davvero strategico o, in quanto non più corroborato da una convinta e condivisa adesione a valori di fondo, limitato allo strapotere tecnologico di cui gli Stati Uniti tuttora usufruiscono.

Da questo punto di vista, colpisce che il WSJ si guardi bene da mettere in rapporto i complessi problemi interni degli USA con la loro proiezione esterna. Come potranno cittadini pressoché privi di una comune visione della propria società, anzi in massima parte critici verso i suoi stessi valori fondativi, accettare quei gravi sacrifici a suo tempo compiuti dai loro padri per portare al mondo la libertà e la democrazia? 

 E’ forse proprio questo il sottotesto del sondaggio di cui si diceva all’inizio e del commento che ne fa il WSJ: un sottotesto le cui implicazioni sono certamente ben accette a Pechino, in vista di quel confronto per l’egemonia mondiale fra l’Aquila e il Dragone che molti osservatori ritengono inevitabile. 

@barbadilloit

Massimo Lavezzo

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