Il ricordo/5. Besana: “In viaggio con uno zaino (vuoto) da riempire con libri, musiche, visioni e film nuovi”

Gabriele Marconi ripropone l'intervista allo scrittore lombardo per Barbadillo in occasione della passaggio di Renato al di là dell’ultima frontiera di quel mondo che, nonostante tutto, aveva amato con meravigliosa e disincantata curiosità

REnato Besana con Paola Frassinetti (foto di FRANCO CAVASSI, dal sito Pinorauti.org)

Tanti anni fa pubblicai una serie di interviste dal titolo “I miti fondanti” sulla nostra bella rivista “Area” che fu, nelle quali alcuni amici di bella cultura si raccontavano. La chiacchierata con Renato Besana fu una delle più stimolanti. La ripropongo per Barbadillo in occasione della passaggio di Renato al di là dell’ultima frontiera di quel mondo che, nonostante tutto, aveva amato con meravigliosa e disincantata curiosità.

La teoria del mosaico

La sua strada inizia nella Milano degli anni ’60, dove i fermenti artistici vivevano di contaminazioni e s’intrecciavano con la rivoluzione dei costumi

 

«Ognuno di noi ha dei miti fondanti: racconti, vicende, libri, film, che nel corso della vita hanno costituito la “dotazione” con la quale si è equipaggiato ad affrontare il mondo». Con queste parole, ormai cinque mesi fa, aprivo l’articolo che introduceva questa serie di visite guidate alle strade mitiche delle tante anime che compongono la cultura italiana non conformista. Ne abbiamo già incrociate tre (quattro con quella del sottoscritto, che era servita a illustrare l’operazione), ognuna diversa dall’altra.

La strada dove ci incammineremo questo mese ha un’infinità di incroci, è come un fiume ricco di affluenti: ad accompagnarci è Renato Besana, “libertario anzitutto” (come ama definirsi), giornalista Rai, saggista e vecchia conoscenza dei lettori di Area (e prima di quelli di Lo Stato e L’Italia settimanale) oltre che collaboratore di Libero, il quotidiano di Feltri.

Besana comincia precisando che le letture fondamentali non risalgono all’infanzia, ma poi è da lì che parte: «Da bambino ero un lettore avidissimo di ogni pezzo di carta stampata, e alcuni testi letti nell’infanzia li giudico tutt’ora basilari, a cominciare da “Pinocchio”, che m’appassionò allora ma continua a farlo ancora oggi».

Lo hai riletto recentemente?

Qualche anno fa ho comprato, appena uscito, il “Meridiano Mondadori” su Collodi, ho riletto Pinocchio e ho ritrovato questo formidabile ritratto dell’Italia: è uno dei più grandi libri della storia della letteratura italiana. Per come riesce a ricostruire il carattere nazionale… pensiamo a Pinocchio quando, per uscire di prigione nel Paese dell’Acchiappacitrulli, dove il giudice Gorilla l’ha fatto imprigionare per essere stato truffato, è costretto a dire “son malandrino anch’io”! Perché, con un’amnistia, mettono fuori tutti tranne Pinocchio… “E perché io no?” chiede lui; “Perché tu non sei come loro, tu sei una brava persona e resti in galera”; allora lui dice di essere malandrino come gli altri, e lo mettono fuori. È un ritratto dell’Italia assolutamente calzante. Come nel Giornalino di Giamburrasca, con lo zio di Giamburrasca clericale in campagna e socialista in città… Oggi vediamo che questa povera Italia da quando è nata non è cambiata mai: è sempre un Paese di voltagabbana, di ideologie tiepide… Si può dare ragione a Montanelli, purtroppo, quando dice che i vizi nazionali sono più forti delle virtù, sono assolutamente incoercibili e si rinnovano con storie sempre diverse.

Certo, anche se allora questi libri non ti potevano piacere per la forza delle allegorie.

Naturalmente. Ma il seme germoglia anche se non lo vedi. Comunque mi piacevano molto i fumetti. Quando uscì il quotidiano Il Giorno, aveva un supplemento per ragazzi, dove c’era un fumetto americano, Dan Dare, che noi ragazzini pronunciavamo così com’era scritto…

Come Mandrache…

…o Tex Viller: ancora li chiamo così. E così mi piacevano i grandi albi di Flash Gordon. Grandi avventure, insomma, come i libri di Salgari, nelle edizioni Salani. E a proposito di semi e germogli, ricordi la collana della Utet, “La Scala d’Oro”? Be’, a me l’aveva passata mio zio. Di questa collana, con le storie di Don Chisciotte e Sigfrido, Achille e Ulisse, ricordo soprattutto la grande impressione che mi fecero le illustrazioni: oggi so che quelle illustrazioni partecipavano dei temi del Novecento italiano e del Futurismo, che poi, in seguito, sarebbero state le cose che dal punto di vista visuale avrei amato di più. Ma le radici affondano nell’osservazione di quei libri, di quei grandi illustratori, e che rivedo chiudendo gli occhi.

Dicevi, però, che le vere letture fondanti arrivarono dopo l’infanzia

Sì, nella prima metà degli anni ‘60.

Quanti anni avevi?

Una quindicina. E furono due libri che conservo ancora: uno della Bur, Il piacere di d’Annunzio; l’altro I fiori del male, di Baudelaire, nell’edizione tascabile della Feltrinelli, con testo francese a fronte. Credo che questi furono i due pilastri dai quali partii per costruire l’edificio. Dopo ci fu il Conrad di Lord Jim… e i grandi romanzi italiani dell’epoca, o almeno quelli che a me parvero tali.

Quali?

Il fabbricone, di Testori, La vita agra di Luciano Bianciardi, Il deserto dei tartari e Un amore di Buzzati, e La cognizione del dolore di Gadda. Mi piaceva questo linguaggio italo-lombardo della Milano degli anni Sessanta, che fu una stagione irripetibile. La lettura di Ragazzi di vita di Pasolini, infatti, non mi fece questa grande impressione… erano altre le cose che mi toccavano di più: quelle raccontate da autori che parlavano nella mia lingua. Arbasino, Testori, Gadda, mi erano straordinariamente vicini. Poi, accanto a questi, anche altri non italiani, come Joice, Proust… conservo ancora, accanto alla scrivania, l’edizione preziosa della Pléiade, che mi costò un’occhio della testa ma mi diede un enorme piacere.

A proposito di emozioni visuali, tu sei anche un grande appassionato di cinema…

Dunque… i film americani allora mi piacevano poco o punto, tranne L’uomo che non sapeva amare, tratto da un romanzo di Arold Robbins (e, perché no, anche i primi 007). Devo dire che all’epoca, nella stragrande maggioranza dei casi, amavo i film italiani o francesi. E devo citare senz’altro L’anno scorso a Marienbad, di Alain Renée, con Albertazzi, che ha dei valori formali narrativi fortissimi; quindi Pierrot le fou e All’ultimo respiro di Godard. Molto Sergio Leone e le commedie italiane, come Il sorpasso, Signore e signori, Divorzio all’italiana, che giudico a tutt’oggi degli inarrivabili capolavori. Sempre in quegli anni Otto e mezzo, di Fellini; Vaghe stelle dell’Orsa, La notte, Deserto rosso e poi Blow up di Antonioni, che rividi dodici volte.

Tra i pochi coraggiosi!

Mi piacque enormemente. Ma assieme a tutto questo, assieme ai libri e ai film, c’era l’arte moderna, la Pop Art: Fontana, Burri, tutte cose che si cominciavano a vedere allora.

E come arrivasti ad appassionarti di arte? Non è che sia frequentissimo che un ragazzino si avvicini a questi temi!

All’epoca andavo al Parini, “il liceo” milanese per antonomasia. Il mio compagno di banco aveva il papà che insegnava a Brera, e mi passò un libro scritto da lui: si chiamava Occhio critico, e insegnava a guardare l’arte moderna. Rimasi folgorato (lo lessi tre volte) e il gusto per queste cose mi è rimasto addosso. Ma poi era una cosa che si respirava, nella Milano di quegli anni: io abitavo in un piccolo paese, arrivavo in città per studiare e mi trovavo davanti la Torre Velasca, il grattacielo Pirelli… una meraviglia.

L’Italia del Boom.

Sì, quello stile, quel linguaggio… l’arte che espresse fu anche l’ultima, poi non c’è stato più niente. Così mi piaceva moltissimo l’architettura che allora veniva etichettata gobalmente come “fascista”, ma che poi imparai a dividere in Razionalismo, Novecento e così via. Perciò, i miti letterari e i miti estetici andavano insieme, in poche parole non c’era soluzione di continuità: la linea perfetta di una Lamborghini Miura, il disegno delle stanze della Torre Velasca o del grattacielo Pirelli, ragazze con minigonne meravigliose di Mary Quant e pettinate da un parrucchiere che si chiamava Alexandre, la lettura di quei libri, la visione di quei film costituivano un orizzonte visuale e letterario che si teneva globalmente. Ero immerso in tutto questo, e intanto continuavo a leggere… Grandissimo Céline: forse più Morte a credito che Viaggio al termine della notte: peccato che imiti Stenio Solinas con quei tre puntini.

Imita anche me, se è per questo…

D’altronde ci sono anche nella lingua italiana! Poi bisogna vedere come li usi.

Non hai parlato di libri “politici”.

Ma perché la politica è un’arte pratica. Quella che discende dai libri è una politica scellerata: i grandi politici di ogni tempo, soprattutto del Novecento, hanno dimostrato di essere grandi quando dai libri prendevano soltanto quel che serviva, e non cercavano di applicarlo nella realtà. L’integralismo politico ha seminato disastri: il marxismo-leninismo fu una forma di integralismo politico che faceva discendere delle conseguenze assolute dalla lettura dei testi, invece di stare a guardare la realtà…

…e quello che non collimava si tagliava con l’accetta.

Eh già. Invece la politica è essenzialmente osservazione della realtà, è governo della realtà che bisogna conoscere, è governo della polis… è un’arte molteplice e deve adattarsi alle caratteristiche di un popolo.

E così siamo arrivati agli anni ’70.

Quando conosco Cattabiani, che allora dirigeva la Rusconi Libri: esce un romanzo che gli aveva consigliato Elémire Zolla, dicendogli che i giovani anglosassoni ne andavano pazzi.

Il Signore degli Anelli.

Infatti. Me lo regala e poi, dopo alcuni giorni, mi telefona domandandomi “lo hai letto?”. E io: “Ti devo confessare che arrivato a pagina ottanta non sono riuscito ad andare avanti”. Mi risponde Cattabiani: “Anche tu?”. Mi rendo conto che è una macchia, ma non ci posso fare niente. Forse è la prosa, che non è all’altezza, non so.

Non sono d’accordo, ma ci saranno altri amici che penseranno a contraddirti, e non voglio negargliene l’occasione.

Devo tornare un momento indietro, però: dimenticavo Diabolik, che mi piaceva moltissimo. Forse perché usciva in quegli anni lì, faceva anch’esso parte di quell’universo senza steccati tra arti maggiori e arti minori.

Arti? Ne hai dimenticata una…

Già! La musica. Là convivevano, e convivono, in me la passione per il rock, ma che allora chiamavamo beat, e la musica vera e propria: ho ancora un disco stupendo che comprai nel ’69 o nel ’70, il Pierrot lunaire, di Schönberg, che andava benissimo con i vari Beatles e Rolling Stones.

Niente Italia, qui?

Non i cantautori: non li amavo molto. Tranne forse Gino Paoli e Sergio Endrigo, e “la” Mina, come si diceva allora.

Che erano molto Italia anni ‘60.

E poi i gruppi: l’Équipe 84, i Corvi, i New Dada. Ma anche molti francesi. A proposito di versi, un’altra passione era la poesia. Dopo Baudelaire, assolutamente indimenticabile, venne Mallarmée, Rimbaud, Verlaine, Guido Gozzano, Ungaretti (fondamentale) e T.S. Elliot con La terra desolata, assolutamente imperdibile. Anche Auden. Un altro che non posso dimenticare, tornando ai romanzi, è Fuoco fatuo di La Rochelle, insieme al suo Diario segreto, di cui non riesco a fare a meno tutt’oggi… Come diceva? “La notte scivolava sul mattino come uno straccio su un vetro sporco”.

C’è un richiamo a questo passo nell’inizio di Neuromante, di William Gibson: “Il cielo sopra il porto aveva il colore di un televisore acceso su un canale morto”…

Più tardi, quando l’ho scoperto, non ho potuto fare a meno di rimanere assolutamente ammirato per la grandezza e la bellezza di Memorie di Adriano. Mi piacque moltissimo anche I demoni di Heimito von Doderer, un libro pieno di curiosità, di asprezze. Come, tra gli anglosassoni, mi piaceva molto il James Cane di Serenata, o Il quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell.

Un po’ troppi, per esser definiti “miti fondanti”… Quello che hai illustrato sembra più che altro un percorso intellettuale.

Vedi, è un po’ come quando si va verso Roma: ci sono dei grandi punti di riferimento, che ricordi nei dettagli, ma a volte uno scorcio apparentemente marginale diventa assolutamente fondamentale. Così una pagina, una frase, ti resta in mente senza che ci fai caso e assume un’importanza di cui ti accorgi solo molto tempo dopo. Sì, magari di un libro che non vale niente, buttato lì, o un best seller letto per scrivere una recensione… ci puoi trovare delle pagine assolute; il quadro di un autore minore, lo scorcio di un’architettura, di una strada, di una piazza… Le grandi impressioni ricevute vedendo per la prima volta piazza Mincio, al quartiere Coppedè, o sempre a Roma il ponte di Brasini a Corso Francia.

Quello che chiamavano Ponte Mussolini?

Sì. O anche l’Eur. E Sabaudia! Una sensazione grande, la prima volta che la vidi, in un perfetto pomeriggio estivo, senza un’ombra, con l’assoluta nettezza dei parallelepipedi razionalisti, un’emozione estetica intensissima.

Sei mai stato a Tripoli, in Libia? Be’, camminando per il corso principale, con i minareti e i grattacieli che spuntano oltre i portici, come astronavi atterrate, ti sembra di entrare in una Sabaudia di un altro universo. Impressionante.

Gli architetti erano gli stessi.

Appunto. Insomma, tirando i fili della questione: Renato Besana è convinto che il suo percorso “mitico”” non sia scandito da pietre miliari.

Ma no, perché non c’è un libro o un film che mi abbia formato in maniera particolare! Io sono il frutto dei metapercorsi che uniscono questi libri, che di volta in volta mutano il quadro dell’insieme: un paesaggio, anche interiore, che cambia a mano a mano che lo percorri, che via via si decostruisce e si ricostruisce seguendo vettori imprevedibili; e di volta in volta queste cose cambiano posizione… creando però una precisa sensibilità, che poi saprà cogliere certe sfumature, sentire certe voci, vedere certi colori.

Una teorizzazione del mosaico?

In continua evoluzione. Lo zaino di cui si parla tante volte, quello nel quale metteresti cose da portare “altrove”… be’, il mio sarebbe vuoto, perché vorrei riempirlo con libri, musiche, visioni, film nuovi. Lo ricomporrei ogni volta.

Lo spigolatore di saperi.

Un calembour alla Veneziani!

Gabriele Marconi

Gabriele Marconi su Barbadillo.it

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