L’epica dell’inviato di guerra nel libro di Almerigo Grilz

Dai diari del reporter morto in Mozambico emerge un giornalismo più libero e attendibile di adesso

Almerigo Grilz è stato il primo giornalista italiano dopo il 1945 a morire in guerra. Cadde in Mozambico il 19 maggio del 1987 mentre documentava il conflitto civile scoppiato nel Paese africano alcuni anni dopo l’indipendenza dal Portogallo. Aveva trentaquattro anni e lavorava come freelance per l’agenzia Albatross, che lui stesso aveva fondato a Trieste nel 1983 insieme con gli amici e colleghi Fausto Biloslavo e Gian Micalessin. È tecnicamente il primo giornalista italiano morto dal Dopoguerra ad oggi perché altri due sfortunati colleghi, freelance pure loro, Italo Toni e Graziella De Palo risultano tuttora scomparsi a Beirut dal 1980, anche se nessuno pensa che possano essere ancora vivi.

Grilz non era un novellino né uno sprovveduto: negli anni precedenti al 1987 aveva già documentato scenari di guerra in Afghanistan, Libano, Etiopia, Cambogia, Birmania e Filippine e i suoi reportage erano stati pubblicati per importanti testate europee, tra le quali The Sunday Times, Der Spiegel, Gazzetta Ticinese, Cbs, Antenne 2. In Italia, invece, era poco conosciuto e sia lui che gli altri colleghi dell’agenzia Albatross facevano fatica a trovare contratti a causa del marchio che si trovavano appiccicati addosso: fascisti. Sì, perché prima di dedicarsi al giornalismo a tempo pieno Almerigo era stato un importante dirigente del Fronte della Gioventù di Trieste e poi consigliere comunale del Msi e aveva mosso i primi passi nella professione di corrispondente di guerra pubblicando articoli sul Secolo d’Italia e sul quindicinale del FdG Dissenso. Più o meno lo stesso percorso di Biloslavo e Micalessin, un curriculum sconveniente per il giornalismo mainstream italiano di quegli anni.

Quando venne ucciso in Mozambico, trentasei anni fa, la sua morte venne ignorata da gran parte della stampa italiana, con poche lodevoli eccezioni (ne parlarono Paolo Frajese al Tg1, l’inviato di guerra Ettore Mo sul Corriere della Sera e Renato Farina su Il Sabato). Passeranno molti anni prima che la sua storia e la sua breve ma intensa attività professionale vengano riconosciute e apprezzate anche dal mondo dei mass media e della politica. Solo di recente Trieste gli ha dedicato una strada, Pordenone la sala stampa dell’amministrazione provinciale e il suo nome è stato scolpito sul monumento di Reporters sans frontieres in Francia.

Ora arriva in libreria “La marcia dei ribelli”, un volume che raccoglie i diari inediti degli ultimi due anni di attività di Almerigo Grilz e documenta gli ultimi viaggi che il reporter triestinio intraprese nel 1986 e 1987 nelle Filippine, in Afghanistan, in Etiopia e appunto in Mozambico, dove le spoglie del giornalista riposano tuttora nello stesso luogo in cui incontrò la morte per colpa di una pallottola vagante. L’iniziativa è dell’editore triestino Spazio Inattuale, che negli scorsi anni ha già dedicato interessanti pubblicazioni sui fenomeni politici giovanili degli anni Settanta e Ottanta nell’area del Nordest italiano.

«Non proponiamo i suoi articoli oppure le sue foto», spiega nell’introduzione Pietro Comelli, giornalista de Il Piccolo. «E nemmeno le interviste raccolte, che pure sono presenti in quelle preziose agende. Sarebbe troppo facile e forse anche ripetitivo rispetto ad altri lavori già usciti su quello che è stato il primo giornalista freelance italiano morto dopo la Seconda guerra mondiale, mentre svolgeva il proprio lavoro con in mano una cinepresa nell’Africa martoriata dalla fguerra. Questo non è un libro “su”, nessuno parla di lui, ma è un libro “di” Almerigo Grilz. Un libro scritto di suo pugno che sembra quasi un romanzo e invece è la realtà quotidiana da lui vissuta in Afghanistan, Etiopia, Filippine e Mozambico».

Una sorta di romanzo autobiografico che, al di là del valore storico e professionale di farci conoscere meglio il personaggio Grilz, ha l’indubbio merito di catapultarci nel mondo del giornalismo di trenta-quarant’anni fa, quando seguire e documentare una guerra significava andare di persona in prima linea e non accontentarsi di immagini di agenzia e “veline” passate dagli uffici propaganda di uno dei contendenti (l’allusione all’attuale guerra in Ucraina è voluta). Ai tempi di Grilz, che non sono poi così lontani, il mondo diviso in due blocchi, non c’era il digitale e tanto meno internet e gli strumenti dell’inviato di guerra erano la penna a sfera, il taccuino, una macchina fotografica o la cinepresa.

«Per svolgere il mestiere», dice ancora Comelli, «bisognava caricarsi sulle spalle macchinari ingombranti e pesanti, cumuli di rullini fotografici, pellicole super8 e batterie grandi come ferri da stiro. Certo, la propaganda e le fake-news esistevano all’epoca come oggi; ma quelle poche immagini e quegli articoli, arrivati in differita rispetto al “bombardamento” odierno di notizie in tempo reale, erano capaci di raccontare un conflitto forse meglio di quanto avvenga nel terzo millennio fatto di smartphone e telefoni satellitari, dirette sui social network, droni e un’esplosione di testate giornalistiche e canali televisivi tradizionali e online».

@barbadilloit

Giorgio Ballario

Giorgio Ballario su Barbadillo.it

Exit mobile version