Siracusa. La trionfale “Medea” di Laura Marinoni incanta il Teatro Greco

Venerdì sera il debutto di “Medea” di Euripide, la seconda tragedia della 58 ͣStagione delle Rappresentazioni Classiche Inda. La regia onirica di Federico Tiezzi con Laura Marinoni strepitosa protagonista e un cast perfetto. Suggestivi le musiche e i canti corali

Una scena della Medea di Euripide al Teatro Greco

E’ un grembo cavo quello da cui sgorgano le grida di Medea. Da lì pochi attimi prima era uscito il canto di un coro. Il coro bianco di voce e di vesti regge una testa piumata d’uccello. Dal profondo della cavea allungata fino a toccare il bosco, arriva una donna. L’altra continua a gridare, il suo disperato lamento si sovrappone alle parole della donna e di un giovane, che tiene per mano un bambino e un altro sulle spalle con due enormi teste di coniglio di peluche. Bambini, non è un gioco: la voce continua dal fondo di chissà dove a gridare “Maledetti figli di una madre sciagurata, vi auguro di morire assieme a vostro padre”. Avvolta in una veste pervinca, avanza dal fondo, ha sulle spalle un mantello, la sua coda di piume d’uccello rapace come il copricapo. Arrivata al centro della scena, alza le mani, libera il viso dalla maschera ed eccola, Medea la barbara. La barbarie ha un corpo. Un corpo che sa farsi servo e padrone dello spazio scenico, un corpo che fa di quello spazio patria, e lo sa bene, Medea, quanto sia importante avere una patria. Quel corpo trionfale ha un nome: Laura Marinoni.

Per la settima “Medea” di Euripide al Teatro Greco di Siracusa il regista Federico Tiezzi ha voluto Laura Marinoni.  Regina per quattro anni consecutivi del teatro di pietra più bello del mondo, Laura Marinoni ha interpretato una Medea ancestrale nella sua furia di femmina rapinata del λέχος. Il letto: sesso e passione, grembo fecondato e altare di fedeltà. Quel letto che Giasone, il padre dei suoi figli, l’uomo con le mani ancora tra le sue cosce mentre si accinge a sposare un’altra (più regale di lei che è barbara, maga e assassina), ha barattato per la ricchezza, la fama, la sicurezza, il potere.  Come non fare di quel “Bastardo!” sbattuto per sei volte in faccia al traditore, un grido liberatorio? “Bastardo” come un’eco che dalla cavea sale fin nelle gradinate, diventa sei battimani, mani di donne tradite e umiliate. Perché Medea è empatica ed Euripide non se l’aspettava. Mito insostenibile e terrificante, Medea squassata dall’amore supera nell’immaginario collettivo Medea figlicida: nessuno osa perdonarla o giustificarla, tutti azzardano a comprenderla e a rielaborarla.

 

Laura Marinoni con la sua carnale interpretazione, con la fame della vendetta impressa negli occhi, con quella gamma di espressioni e di ritmo vocale che nello spazio anche di una sola battuta fissa i confini della teatralità, lei stessa come la nutrice racconta Medea “una roccia, un’onda del mare”. Nei gesti e nella falcata, nella voce e nelle espressioni Marinoni è una macchina teatrale perfetta, è il palcoscenico stesso che lei protegge e divora. Medea è sua, catturata nello spazio di tre monologhi (le rheseis euripidee) di intensa bellezza e nelle sticomitie: infida con Creonte, subdola con Egeo e implacabile con Giasone. E’ sua per aver donato il suo corpo allo scandalo di Euripide: dare tridimensionalità alla mente della donna nella Grecia pronta alla guerra del Peloponneso, pronta allo scontro tra due modelli di mondo uniti solo nella irriconoscibilità sociale e sentimentale della donna.  Anche se i sentimenti sono demoniaci, da architetta del male. “…puoi pure chiamarmi leonessa o Scilla: ti ho colpito al cuore, come era giusto” dice Medea a Giasone mentre il carro del sole (in verità, una brutta gru: unico elemento scenico dissonante) la porta verso un immeritato futuro. O meritato?

La regia di Tiezzi è il punto di domanda. Tiezzi dissemina indizi. Spinge lo spettatore verso un mondo onirico in cui il simbolismo freudiano incontra l’inferno di Strindberg e  lo fa accomodare sul salotto di Ibsen, mentre Pasolini e la poesia della barbarie passano nella sontuosa traduzione di Massimo Fusillo, perfetto equilibrio tra contemporaneità e classicità, tra “sfacciataggine” e “profetico ombelico del mondo”: una lingua quotidiana che sa distendersi nella misura giambica. Sulla scena realtà e sogno si mescolano con esiti talvolta ostici.

I bambini (Francesco Cutale e Matteo Paguni ) sono coniglietti, ignari della rapacità dell’uccello-madre; una maschera di coccodrillo, la stessa delle sue guardie, inchioda Creonte (Roberto Latini feroce nell’interpretazione tanto quanto il suo personaggio) al topos, in verità tutto da rivedere, della crudeltà e dell’arroganza del potere.  Simbolo regale è l’ombrello di Egeo (Luigi Tabita).

La scenografia di Marco Rossi e i costumi di Giovanna Buzzi giocano su un cromatismo delle sfumature dal bianco al grigio, dal blu al nero. Il pavimento scaturisce dal fondo della cavea: nero come il sonno e bianco come il sogno diventa infine lo specchio di ciò che l’inconscio svela. Un concettualismo psicanalitico che non sempre dà coerenza alla messinscena.

 

Sul tema del sangue Tiezzi si gioca il simbolo di più impatto: con un ribaltamento possibile solo a livello onirico il sangue, celato alla vista dello spettatore ma assordante nelle grida fuori scena dei bambini inseguiti a morte dalla furia assassina di Medea, è l’acqua con cui le ancelle lavano la reggia. L’unico personaggio a restare fuori dal sogno è Giasone.

Traditore, parolaio, sprezzante, ambizioso e viscido Giasone oppone a Medea la legge di un nomos impudentemente ridotto a opportunismo. Vuole ricchezze e fama, un nuovo letto e una nuova prole ma potrebbe anche tenersi il vecchio letto e la vecchia prole. Spergiuro di ogni patto, Giasone interpreta a suo modo anche il ghenos, così arcaicamente difeso da Creonte ed Egeo. Il conflitto coniugale più che un dramma dell’incomunicabilità diventa un duello tra istinto e ragione, tra civiltà e barbarie. Giasone è un bravissimo Alessandro Averone, capace di tener testa alla vis recitativa di Marinoni e il compito non era affatto facile. Tutto il cast di “Medea” ha retto la scena con intensità dalla nutrice Barbara Zuin a Riccardo Livermore nel ruolo del pedagogo alla prima corifea Francesca Ciocchetti.  Su tutti il nunzio Sandra Toffolatti, applauditissima.

Se è vero che la musica delle tragedie si può solo immaginare ed inventare, in questa “Medea” la musica si prende il ruolo di nono personaggio.

 

La musica

Silvia Colasanti ha scritto le musiche originali del prologo e del coro, curato questo da Ernani Maletta (arrangiatore) e dalla maestra del coro Francesca Della Monica.

Polifonia è la parola chiave, emozione ai limiti dell’esperienza estetica il risultato. La musica è manifestazione scenica: dal canto corale iniziale (con la collaborazione delle Voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma) ai canti rituali in lingua haitiana e aruba della prima parte in cui domina il mondo tribale di Medea fino alla seconda parte con musiche da Ligeti il teorico della micropolifonia, Mahler e “Canti dei bambini morti”,  Schubert per le melodie del sogno. Numeroso e sempre impeccabile il coro diretto dalla prima coreuta Simonetta Cartia e composto da Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini e Claudia Zappia, insieme a ventuno allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico.

La musica torna per accompagnare (felicità!) gli applausi scroscianti e lunghi di un pubblico che in piedi ha salutato attori, regista e cast al completo e ha accolto Medea, ops! Laura Marinoni, scesa dall’alto, avvolta in un sari del colore del dio Sole.

 

 

*Foto di Maria Pia Ballarino, Franca Centaro, Michele Pantano

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Daniela Sessa

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