Siracusa. E ci trattenne l’incanto: l’Odissea di Peparini seduce il Teatro Greco

L’ovazione finale del pubblico. Eccellenti le prove di Giuseppe Sartori e Massimo Cimaglia. Lo spettacolo, in scena fino al 2 luglio a Siracusa e poi a Pompei il 16 luglio, chiude trionfalmente la Stagione 2023 dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico

Giovedì scorso nella cavea del Teatro Greco di Siracusa c’è da scommettere che tra il pubblico ci fosse il fantasma di Ezra Pound. Si dice che abbia borbottato a chi gli stava vicino “tali acrobazie, tali veri e propri urli di gioia e oplà e volteggi di trapezio di tecnica”: le stesse parole scritte per l’Ulisse di Joyce. Addirittura qualcuno è pronto a testimoniare che era proprio lui il vecchio severo e sornione che stringeva la mano al regista Giuliano Peparini, riconoscendogli la capacità di realizzare quelle epifanie di stile che Pound vide in Joyce. Perché se è vero che lo spettacolo di Giuliano Peparini Ulisse, l’ultima Odissea è dentro il recinto archetipico dell’epos omerico, non si può negare l’oplà della messinscena. Né la gioia di un allestimento in cui il virtuosismo è arte all’ennesima potenza. E’ stupore, è fiato sospeso, è un’onda di bellezza che muove dalla scena alla cavea, è la corda che lega il pubblico all’albero della nave insieme a Ulisse, per sentire uno straordinario canto delle sirene, che ammalia ma non uccide. Peparini non ci sta a mettere i tappi di cera nelle orecchie dei 4mila spettatori: devono ascoltare, devono vedere, devono volteggiare. 

Come i nobili della reggia di Alcinoo, essere trattenuti dall’incanto. Se l’ineffabilità dell’incanto è materia divina, affare di celesti che trafficano con gli intrugli e sanno rapirsi e rapire, per i mortali l’incanto è possibile solo se Dioniso offre acini dalla sua vigna: l’animo è ebbro, il corpo danza e il tirso batte il tempo.  Che tirso è quello di Peparini! Mette in scena quasi cento artisti tra performer e attori, riempie ogni angolo del Teatro, muove colori, note e luci con una sincronia perfetta. Muove persino gli spettatori che diventano, senza accorgersene, elemento metateatrale in una lettura preziosa del poema di Omero. Tanto da sfuggire a qualsiasi etichetta: anche definirla opera totale, alla fine appare semplicemente una categoria necessaria solo all’esegeta. Ulisse, l’ultima Odissea è l’unica traduzione teatrale possibile del poema di Omero, della fantasia avventurosa degli antichi- avrebbe detto Leopardi- di quel mondo creatore di miti e favole, di illusioni. Il mondo dell’immaginazione. E mentre Omero gli cede la cetra, Peparini in sei quadri riporta in perfetto equilibrio l’immaginazione antica nella contemporaneità. L’equilibrio è evocazione, è suggestione, è emozione. Niente è lasciato al caso in questo spettacolo. Tutti i sentieri di senso hanno la propria metamorfosi scenica.

Sentieri: la prima meraviglia. “Racconta, Musa, dell’uomo dai molti sentieri, che vagò tanto”. Chi se l’aspettava che dopo tante declinazioni illustri, l’epiteto omerico πολύτροπος restituisse a Odisseo la fugacità esistenziale e a Francesco Morosi, poeta (traduttore a questo punto è riduttivo) della poesia di Omero, l’hapax legomenon di inaugurare una nuova tradizione della traduzione. Il libretto scritto da Morosi è brillante: per aver curvato la musicalità dell’esametro in una versificazione in cui imbriglia il verso libero nella misura greca, per aver creato un vocabolario arioso e tremendo, per aver composto come il più scaltro dei musicisti uno spartito libero dalle rime e aggrappato alle assonanze, per aver insegnato ai poeti contemporanei la possibilità dello stile formulare, per aver chiesto ai lettori di andare a caccia del verso di Giovanni Giudici nascosto tra le maglie della sua traduzione (cercarlo è un sentiero di senso), per aver ripetuto così tante volte Nessuno da edificare un altare votivo al novecentesco teatro nel teatro. Perché non è solo Ulisse a essere Nessuno: è l’uomo nella sua essenza a negarsi a se stesso e agli altri, per salvarsi o per perdersi.

L’abbiamo visto “re neghittoso alla vampa del focolare tranquillo” perire tra Ceuta e Sibilia, “Odisseo che a sé prega la morte nell’atto”. L’abbiamo visto vagare tra coste dalmate e strade di Dublino, in procinto di salpare per eterni penultimi viaggi o con l’approdo nel destino. Financo dentro l’atroce urna della disumanità.  Lo vediamo qui dentro un aeroporto, prima seduto poi disteso sui sedili, in attesa di un volo che non partirà. Odisseo è Giuseppe Sartori. Punto, verrebbe da scrivere. Invece, si deve dire della magistrale interpretazione di un attore che sta al Teatro di Siracusa come Odisseo sta all’avventura. Il suo Ulisse ha il dolore nella voce e la potenza nel corpo. Non perde mai il controllo della scena, Giuseppe Sartori, si sa. Scoprirvi la stessa fisicità anche quando si muove al ritmo dei danzatori è la sfida vinta da un attore che, parafrasando Montale, fa poesia dell’atletica teatrale.

Un Ulisse eroe della nostalgia, del dolore di un impossibile ritorno: Argo è un clochard (Gabriele Beddoni) uno che non ha casa. Il dolore di un viaggio interrotto che per un tratto condividerà con altri passeggeri bloccati dentro l’aeroporto, il luogo di transito della modernità. Nelle scene di massa Peparini tira fuori la genialità di coreografo e crea mantici umani, manichini moventi. Passi di danza in sincronia: ciurma o folla, compagni di viaggio o ombre dell’Ade. O assolo di forte suggestione, come quello di Ermes o del circense dentro il cubo sul land side dell’aeroporto. O come la performance acrobatica di Theo Legros-Lefeuvre sull’asta che duplica l’albero della nave nell’episodio delle sirene.

Non danza Massimo Cimaglia ma la sua interpretazione è un passo a due di ritmo e parole. Quando fa l’aedo, riesce a ricreare la voce antica dell’epos: dopo Cimaglia nessuno potrà dare ad Omero un altro corpo. E’ anche  Polifemo nella prova più complessa della messinscena. Si trasforma en plei air: esce dal clochard ed entra nel gigante. Gioca su due livelli interpretativi, anche nella dinamicità del personaggio di Polifemo e domina la scena. Bravissimo. Brava Giulia Fiume, che è Calipso e Anticlea, l’intensamente lirica Anticlea, come Alessio Del Mastro, l’inserviente rapsodo e anche l’ombra di Tiresia.

Se Penelope è incatenata alla tela/sudario, Circe è l’eros che incatena. Nella rappresentazione della maga, Peparini ha condensato la sensualità immancabile nei suoi spettacoli qui enfatizzata da un tango che sublima la prevedibilità della scelta nella barrida di labbra e non di gambe tra Ulisse e Circe. Giovanna Di Rauso è una convincente Circe.

Il tableau delle Sirene è il climax dello spettacolo. Le creature mostruose e seducenti del mito diventano nella visione di Peparini creature gender sinuose e sensuali: hanno una coda rossa di taffetà, strisciano a terra e sono pesci e mare assieme; le teste allungate dal cuffie sono il simbolo della loro intelligenza espansa. I costumi firmati da Valentina Davoli creano una tavolozza dai confini ben definiti tra l’attualità dei completi di Ulisse e dei viaggiatori alla citazione classica dei costumi del clochard, di Argo, di Circe con il mantello rosso rubino e le foglie d’oro sulla pelle o i pepli delle ancelle maschio. Contrasti cromatici e semantici: rosso e bianco, volume e linearità. Per le Sirene Reuben and the Dark ha composto una canzone originale “Siren song for Ulisse”.

La musica, le sonorità,  i jingle, l’interfono e i rumori sono parte essenziale del racconto di Peparini, che ha voluto Reuben and the Dark per ibridare folk, rock, indie e orchestra e citazioni cinematografiche. La quintessenza dell’ibridazione è la scenografia metamorfica firmata da Lucia D’Angelo e Cristina Querzola. Un terminal con una fontana bianca centrale che si fa postazione delle hostess, banchetto, isola e zattera. L’architettura ibrida, da una parte areo dall’altra corridoio, taglia in due lo skyline del Teatro: sopra il videoled che proietta lo spazio della narrazione e sotto il container varco e uscio, caverna dei ricordi e antro infernale.

Se a una sola immagine si dovesse affidare l’emozione di questo spettacolo di rara perfezione, tra le tante (dall’otre di Eolo alla palla occhio di Polifemo, alle spade della presa di Troia fino ai piatti dei Lotofagi), sarebbe il mare di stoffa in tempesta che fa dondolare Odisseo. Se, invece, si volesse dare un suono all’emozione sarebbe il lungo applauso che dalla cavea è arrivato agli attori, ai ballerini, al traduttore, al regista di Ulisse, l’ultima Odissea, della più bella produzione della Stagione Inda 2023.
*Foto di Maria Pia Ballarino e Franca Centaro

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Daniela Sessa

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