La Francia nel caos e il rischio Eurabia

"Non riesco a compiacermi delle disgrazie di una Francia sempre più “terzomondizzata”, come l’ha descritta un editoriale del “Figaro”. Quando la campana suona in una nazione del vecchio continente, suona per tutti noi"

La Francia nel caos per le sommosse nelle strade

Nell’agosto di 44 anni fa mi recai in vacanza a Parigi. Visti i costi proibitivi degli alberghi, trovai modo di ottenere un camera presso la Maison d’Italie: uno dei tanti pensionati universitari costruiti a partire dagli anni Venti nella Cité universitaire internazionale, dirimpetto a quel Parc Montsouris in cui Robert Brasillach ambientò il suo romanzo Le marchand d’oiseaux. Il soggiorno fu piacevole e ricordo ancora la gioia di discendere col fresco della mattina l’Avenue de l’Observatoire per arrivare nel centro di Parigi, con l’acqua che scorreva sotto le zanelle dei marciapiedi, per pulire le strade. E rammento anche il sollievo di vivere in una nazione in cui i servizi pubblici funzionavano, il mercato di Maubert era aperto anche per ferragosto, quando a Firenze chiudevano pure i gelatai, e non c’era il problema delle monetine che in Italia scarseggiavano, anzi se in un negozio pagavi con troppi spiccioli il commerciante un po’ stizzito ti chiedeva “Avez-vous chanté à la messe?” 

Ricordo anche, però, la delusione provata quando, abituato a pranzare con poche centinaia di lire nelle mense universitarie italiane (già laureato il Lettere, mi ero iscritto a Giurisprudenza nel tentativo di prendere una laurea con maggiori sbocchi lavorativi, e di conservare i privilegi dello studente, assistenza sanitaria compresa), mi recai alla mensa della Citè Universitaire. La cassiera guardò con sussiego il mio tesserino plastificato e mi applicò il prezzo più alto: tutto il contrario di quanto avveniva in Italia, dove con pochi spiccioli pranzavano pure i clochard. La vera delusione però fu un’altra: la mensa era una sorta di girone dantesco in cui non era possibile mangiare cibi europei, ma solo piatti arabi estremamente piccanti: qualcosa di molto diverso dai couscous “aggiustati” cui abbiamo fatto l’abitudine. Compresi solo dopo che quella scelta era dovuta al fatto che la maggior parte degli studenti rimasti in sede erano magrebini. Allora non si parlava certo di sovranismo, ma quella perdita di sovranità alimentare mi lasciò perplesso, come trent’anni dopo mi avrebbe lasciato sgomento scoprire che nel carcere fiorentino di Sollicciano la carne di maiale era rigorosamente bandita, e un detenuto cristiano che avesse avuto voglia di mangiarsi una salsiccia avrebbe dovuto pagare di tasca sua il “sopravvitto”. Assiduo frequentatore delle mense studentesche, ero abituato a fare la fila con iraniani avversari dello Scià, ma, a parte il fatto che i persiani non sono arabi, nessuno da noi si sarebbe sognato di adeguare il menù alle preferenze alimentari degli stranieri, senza lasciare almeno un’opzione a noi “indigeni”.

All’epoca, i musulmani e i magrebini a Parigi non mancavano, ma, forse perché concentrati in quartieri marginali e popolari come Belleville, forse perché non era in atto il processo di reislamizzazione delle masse arabe, non costituivano una presenza inquietante, almeno per il turista. La capitale francese era una città meravigliosa e sicura, grazie anche a un sindaco di indubbio valore, come Chirac – futuro mediocre presidente della Repubblica – e all’opera efficace di una polizia che non aveva le mani legate come oggi. Ma in realtà molte cose stavano cambiando, in seguito alla legge sui ricongiungimenti familiari voluta da Giscard d’Estaing, che avrebbe reso possibile il trasferimento sul suolo francese dei figli dei lavoratori stranieri. I “ricongiunti” degli anni ’70 sono i padri o le madri dei “casseurs” di oggi.

Il provincialismo è sempre stato un limite della nostra classe dirigente, liberale, fascista e postfascista: da Salandra, che quando era a Parigi per la conferenza di pace, secondo Luigi Barzini Senior rispondeva al telefono “Con qui parle”, a Mussolini che dichiarò guerra agli Stati Uniti suscitando ad Ansaldo lo storico commento: “Ma l’ha visto l’elenco telefonico di New York”? Se avessero letto il trattato di Maastricht con la stessa attenzione con gui Giorgia Meloni legge le clausole del Mes, penso che non l’avrebbero sottoscritto. Eppure credo che, se qualche politico della prima repubblica avesse fatto visita nel 1979 alla mensa universitaria della Cité universitaire di Parigi, forse sarebbe stato gestito con minor buonismo e maggior realismo il fenomeno dell’immigrazione clandestina, manifestatosi in forme latenti e pittoresche nel corso degli anni Ottanta, poi esploso nel decennio successivo. Ma i politici della prima repubblica (e anche molti della seconda, per la verità) non avevano esperienza di mondo, o meglio il loro mondo era quello dei ristoranti stellati, delle auto blu, dei voli in business class o addirittura di Stato.

Oggi, però, internet e canali satellitari ci permettono di vedere tutto: il tempo degli alibi è finito. Sappiamo tutti che nel cuore della capitale francese, dove un tempo bastava il fischietto di un flic per intimorire i ragazzini, i poliziotti girano in ronde di quattro, con tanto di sfollagente, mitra, radiotrasmittente, e non si sentono lo stesso sicuri. E sappiamo soprattutto che c’è una terza generazione di giovani islamici che odiano la Francia: la stessa douce France che li ha fatti nascere in moderne cliniche ostetriche, ha permesso loro di studiare, finché ne hanno avuto voglia, e quando non hanno voluto più studiare li ha mantenuti e li mantiene con sussidi di disoccupazione se non hanno modo o voglia di lavorare. Una generazione che odia la Polizia, e si diverte a sfidarla, sapendo che i giudici daranno sempre ragione a loro (perché altrimenti ci sarebbe stato un ragazzo col cellulare pronto per filmare il giovane Nahel che non si fermava all’alt?), non ha paura della magistratura, considera il saccheggio il giusto risarcimento per un passato coloniale.

In realtà, gli unici algerini che avrebbero il diritto di odiare la Francia sono i discendenti degli harkis, gli algerini che si batterono a fianco della Repubblica contro l’Fln e che dopo la concessione dell’indipendenza furono abbandonati a se stessi da de Gaulle, più homme grand che grand homme, con la famigerata frase Eh bien, vous souffrirez! (furono linciati almeno in trentamila; quelli che si salvarono ripararono in Francia grazie all’intercessione dei loro ufficiali, nonostante gli ostacoli frapposti dal Generale).

Noi italiani non abbiamo certo nulla da farci perdonare da quanti si sono introdotti, spesso irregolarmente, nel nostro territorio, ma non per questo possiamo dormire sonni tranquilli. L’incendio dilagato fra la banlieue di Parigi e Marsiglia, con qualche focolaio persino nella tranquilla Svizzera francese, costituisce una minaccia e non sarebbe né bello né saggio godere canagliescamente della brutta figura della Francia e del suo ministro che dopo averci accusato di non saper gestire i flussi migratori ora è alle prese con qualcosa di peggio della grande rivolta del 2005. Per questo non riesco a compiacermi delle disgrazie di una Francia sempre più “terzomondizzata”, come l’ha descritta un editoriale del “Figaro”. Quando la campana suona in una nazione del vecchio continente, suona per tutti noi. E il vero europeismo non è boicottare i combustibili fossili o etichettare come velenose le bottiglie di Chianti, ma fare in modo di impedire che la Patria di Cesare e di Carlo Magno, di San Benedetto e di Mozart, divenga nel volgere di pochi decenni quello che Oriana Fallaci chiamava l’Eurabia.

p.s. Naturalmente, credo che il poliziotto arrestato come un volgare delinquente, per aver ucciso preterintenzionalmente il magrebino che non si era fermato all’alt, avesse torto. Avrebbe potuto sparare agli pneumatici, e poi arrestarlo. Ma i magistrati avrebbero trattenuto in carcere il diciassettenne algerino che l’aveva sfidato, o avrebbe potuto continuare senza la patente a guidare auto non sue? Certo, la Polizia francese è sempre stata piuttosto burbera nei comportamenti. Una volta era prassi usuale nei commissariati “le passage à tabac” per gli arrestati insolenti: il malcapitato passava attraverso due ali di poliziotti, che lo bastonavano. Un po’ come il “passaggio attraverso le bacchette del reggimento” che molti ricorderanno nel capolavoro di Kubrick Barry Lindon. Lo provarono sulla loro pelle anche molti italiani dopo il 10 giugno del 1940, debitamente bastonati prima di essere destinati al campo di concentramento di Le Vernet, in precedenza destinato a profughi repubblicani della guerra civile spagnola, che avevano subito lo stesso trattamento. Però era una Polizia che funzionava, come del resto funzionava ancora la Francia.

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Enrico Nistri

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