Contro la patrimoniale proposta da Fratoianni: senza se e senza ma

Nistri: "La patrimoniale si dovrebbe configurare come una next generation tax, una tassa destinata a sostenere le nuove generazioni promuovendone la crescita culturale ed evitando la cosiddetta dispersione scolastica. In altre parole, si vorrebbe finanziare l’educazione dei figli a spese del patrimonio dei padri, dai quali essi figli, un giorno, potrebbero ereditare"

Lo storico manifesto della sinistra per la patrimoniale

La patrimoniale proposta dalla sinistra in Italia ormai da molti anni

Se la maggioranza si fosse limitata all’approvazione, sia pur con qualche distinguo, di un ordine del giorno che prevede un’imposizione straordinaria per chi possiede beni mobiliari o immobiliari superiori ai cinquecentomila euro, non ci avrebbe fatto anche solo per questo una bella figura. Uno dei cavalli di battaglia elettorali del centrodestra è sempre stato il rischio che la sinistra una volta arrivata al potere mettesse le mani sulle case e i risparmi degli italiani. Non si capisce di conseguenza per quali motivi sia stato recepito in commissione, sia pur con richiesta di una “riformulazione”, l’ordine del giorno presentato da Nicola Fratoianni (SI) che impegna il governo – come si legge nel dispaccio dell’Ansa – a valutare l’opportunità di introdurre una “next generation tax, che colpirebbe i patrimoni delle persone fisiche solo se superiori ai cinquecentomila euro”.

Cinquecentomila euro – anche a prendere per buoni, per quanto riguarda gli immobili, i semplici redditi catastali – non sono molti. Chiunque sia proprietario di una casa sa bene come, a meno di non trasformarla in un B&B nelle località turistiche più richieste, la sua proprietà, fra tasse sui rifiuti, minimi della luce e del gas, costi di manutenzione, oneri di messa a norma, imposte comunali, ruberie condominiali, spese legali per cacciare un inquilino insolvente costituisca spesso più un debito che un credito, tanto che per mantenerla occorre spesso intaccare i risparmi. Oltre tutto, sui costi degli immobili incombe la spada di Damocle del cosiddetto efficientamento energetico, che l’Europa ci vuole imporre con gravi disagi per le tasche dei proprietari.

Ma nella convergenza, sia pur critica, della maggioranza con l’ordine del giorno Fratoianni,si può scorgere un secondo autogol, che risiede nella motivazione del provvedimento. La patrimoniale, infatti, si dovrebbe configurare come una nextgeneration tax, una tassa destinata a sostenere le nuove generazioni promuovendone la crescita culturale ed evitando la cosiddetta dispersione scolastica. In altre parole, si vorrebbe finanziare l’educazione dei figli a spese del patrimonio dei padri, dai quali essi figli, un giorno, potrebbero ereditare.

Il primo motivo di perplessità riguarda la terminologia. Che un’operazione educativa, a quanto pare oltre tutto alquanto onerosa, debba essere denominata con un barbarismo, come se la nostra bella lingua non possedesse un’espressione adeguata, è già tutto un programma. Oltre tutto l’esperienza insegna che dietro ogni anglicismo si nasconde una fregatura. Quando i vecchi treni espressi divennero intercity, il prezzo gradualmente aumentò, sino a raddoppiare con la promozione a eurostar. Per non parlare dell’obbligo di prenotazione, che costituisce un motivo di disagio in più per chi non conosce in anticipo l’orario di ritorno. Quando un direttore dell’ufficio personale (pardon, responsabile delle risorse umane) annuncia di voler “ottimizzare” (brutto calco dall’inglese, che ha sostituito il nostro “migliorare”) la gestione dei lavoratori, vuol dire che c’è aria di licenziamenti.

Nicola Fratoianni

Il secondo motivo riguarda l’accettazione del principio secondo cui il miglioramento dell’offerta educativa debba passare attraverso un’imposizione straordinaria. Il vero problema del nostro sistema educativo non risiede nella quantità della spesa, ma nella sua qualità. Se ci si dicesse che il ricavato della patrimoniale servirebbe ad aumentare lo stipendio agli insegnanti, ci si potrebbe anche stare. Ricordo ancora il titolo di un editoriale del grande Vittorio Mathieu sul “Giornale” di Montanelli, nel luglio 1988: “Per risolvere il problema della scuola, raddoppiare lo stipendio ai professori”. Ma non sarebbe certo così. I soldi estorti andrebbero dispersi in quella miriade di “progetti” e di sperimentazioni in cui il sistema della pubblica istruzione dilapida risorse che invece potrebbero essere destinate a migliorare la condizione degli insegnanti.

Certo, nell’ordine del giorno si parla di combattere la dispersione scolastica. Ma siamo davvero sicuri che tale dispersione possa essere combattuta a forza di Pof e di Ptof, di interventi per Bes (acronimo per Bisogni educativi speciali), interventi a gamba tesa di psicologi e assistenti sociali? E poi, che cosa significa “dispersione”? Da che mondo è mondo, non siamo (per fortuna) tutti uguali: ci sono persone vocate agli studi teorici, altre che invece si sentono a disagio a stare a lungo sedute sui banchi e già a quindici anni sognano un lavoro manuale, ragazzi felici di lasciare la scuola per la bottega artigiana o per un’officina. È necessario, certo, assicurare a tutti una formazione di base, ma non ha senso portare chiunque al diploma o alla laurea. Meglio semmai, con una politica di borse di studio per i capaci e meritevoli, consentire di studiare se necessario anche sino al dottorato di ricerca chi ha davvero i numeri, anche se proviene da famiglie disagiate.

Personalmente credo che, almeno nelle sue forme più gravi, la dispersione scolastica, ovvero la decisione di molti ragazzi di lasciare le scuole superiori prima del diploma, sia frutto del combinato disposto di due scelte sciagurate maturate negli anni Novanta: la deprofessionalizzazione dell’istruzione professionale e la licealizzazione dell’istruzione tecnica da un lato, dall’altro l’elevazione dell’obbligo scolastico a sedici anni. Sino al 1992, un ragazzo che usciva dalle medie e voleva proseguire a studiare aveva la possibilità di iscriversi a un corso professionale che gli consentiva di conseguire in tre anni un diploma di qualifica valido in tutta Italia (la qualifica statale, appunto) in una specializzazione a sua scelta. Le discipline teoriche c’erano, anche se in misura minore che negli altri ordini di studi, ma almeno la metà dell’orario era destinato alla pratica di laboratorio e alle materie professionalizzanti. Non c’è miglior incentivo all’impegno, per un ragazzo poco portato per gli studi teorici, di poter applicare praticamente in un laboratorio quello che impara nelle aule. La dispersione, certo, c’era anche nei Professionali, ma era contenuta e comunque gli alunni che abbandonavano potevano iscriversi a corsi di formazione professionale gestiti dalle Regione o dai Comuni o da consorzi di imprenditori. Fra coloro che invece superavano l’esame di qualifica c’erano quelli che entravano subito nel mercato del lavoro – come elettricisti, odontotecnici, meccanici, ma anche cuochi o camerieri – o quelli che proseguivano gli studi sino a prendere la cosiddetta maturità professionale, con la possibilità di accedere successivamente a tutte le facoltà universitarie.

Oggi, il ragazzo che entra in un istituto professionale segue pochissime ore di pratica, è gravato dal peso di discipline teoriche che spesso non gli interessano, non può ritirarsi per andare a bottega perché l’elevazione dell’obbligo lo condanna a scaldare i banchi sino a sedici anni compiuti, e quando non ce la fa più fa scontare la sua frustrazione e spesso la sua rabbia con episodi di violenza di cui solo i casi più eclatanti salgono agli onori, si fa per dire, della cronaca. Vittime di questa situazione sono infatti non solo gli insegnanti, ma anche gli alunni che vorrebbero studiare e invece sono bullizzati” dai compagni più insofferenti, e spesso finiscono anche loro per lasciare la scuola.

Su di un piano diverso, un analogo sfasamento del sistema scolastico si registra nell’ambito dei cosiddetti “licei deboli”: corsi di studi nati dalla soppressione del vecchio istituto magistrale, che sostituiscono lo studio serio della filosofia, delle lingue, classiche e non, delle vere scienze, con le pseudoscienze che oggi vanno tanto di moda. È il mondo dei licei sociopsicopedagogici, paradiso degli “ariafrittologi”, destinati a sfornare legioni di frustrati, nel migliore dei casi, di ciarlatani di successo, nel peggiore. Quello che era uno dei grandi motivi di vanto del sistema educativo italiano – la capacità di sfornare in soli cinque anni, negli istituti tecnici – i futuri periti, ragionieri, geometri, ha ceduto ahimè il posto a una grande fabbrica di disoccupati o disoccupati, che conseguono (quando lo conseguono) un titolo che non è spendibile sul mercato del lavoro ma non hanno nemmeno conseguito quella maturazione intellettuale, quella conoscenza del nostro retaggio culturale, quell’attitudine al pensiero critico che cercano di assicurare, con alterne fortune, i veri licei, classico, scientifico e linguistico.

Il fatto è che oggi esiste una doppia dispersione scolastica: quella di chi abbandona studi che non sente congeniali – e sarebbe la meno grave, se potesse accedere a lavori pagati decorosamente, nell’agricoltura, nel terziario, nell’industria, realizzando sul posto la propria formazione – e chi invece prosegue gli studi senza profitto, arrivando faticosamente alla maturità dopo avere perso anni preziosi in cui come apprendista avrebbe potuto farsi padrone di un mestiere rendendosi a vent’anni autonomo economicamente. Per le statistiche, questi giovani non sono “dispersi”, perché hanno ottenuto uno svalutato pezzo di carta. Ma in realtà sono proprio loro quelli irrimediabilmente “persi”.

p.s. Non vorrei che questo articolo fosse letto come un attacco indiscriminato. So, per la mia pur modesta e ormai remota esperienza istituzionale, quanto sia facile fare un passo falso, quando si è premuti in più direzioni. Ho solo l’impressione che, per quanto riguarda la politica scolastica, la classe dirigente della destra sia spesso condizionata dai miti della sinistra. Mi ha fatto per questo piacere l’interrogazione di numerosi senatori di Fratelli d’Italia al ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara per ottenere un chiarimento sulla posizione del governo riguardo ai progetti educativi legati alla teoria del cosiddetto “gender” e in particolare alla cosiddetta carriera Alias. Quest’ultima consente agli studenti che non si riconoscono nel loro sesso di cambiare genere nei documenti pur senza alcun riconoscimento ufficiale. Un motivo di grave imbarazzo e anche di scandalo, non solo se un maschietto che si dichiara donna senza esserlo pretende di entrare nel bagno delle femmine.
@barbadilloit

Enrico Nistri

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