L’anniversario. Tolkien e la destra culturale e politica

Cinquanta anni fa la morte dello scrittore: la sua opera continua a essere fonte d’ispirazione letteraria, cinematografica, artistica e musicale

Gandalf the Grey

Gandalflf

Cinquant’anni e non sentirli. Tanti ne sono trascorsi, dalla dipartita terrena di John Ronald Reuel Tolkien, avvenuta il 2 settembre del 1973. Eppure, l’opera del professore continua a essere fonte d’ispirazione letteraria, cinematografica, artistica e musicale. Le sue creature impazzano nell’immaginario non solo italiano. È lontano il tempo in cui per lui si chiudevano a doppia mandata le porte della grande editoria a trazione progressista. 

Dopo di lui, il diluvio. È venuta già una vera galassia di opere fantastiche ed heroic fantasy. Non c’è autore, per quanto di successo, che non venga chiamato a fare i conti con l’opera del maestro e non avverta un debito di riconoscenza nei confronti di quella che resta la pietra miliare del genere. Tolkien, come dice George R. R. Martin de Il Trono di Spade, «è una montagna che si staglia su ogni altra opera di fantasy scritta prima e dopo».

Ricorrenza tonda, tempo di celebrazioni, dagli appuntamenti organizzati dall’infaticabile Associazione Italiana Studi Tolkeniani alla pubblicazione di nuovi volumi, oltre alla pioggia di seminari, convegni e incontri che si protrarranno nei mesi a seguire.

La festa a lungo attesa – parafrasando Tolkien – è quella con l’imponente mostra che verrà inaugurata il 14 novembre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Il ministro Gennaro Sangiuliano, che ha fortemente voluto questa iniziativa, ha definito Tolkien «una delle personalità più cospicue della narrativa mondiale, ben al di là del genere fantasy in cui più volte si è cercato di “recintare” la sua opera».

A curare la rassegna saranno Alessandro Nicosia e Oronzo Cilli, membro della Tolkien Society britannica, unico italiano ad aver vinto il Best Book ai «Tolkien Society Awards». «Tolkien va celebrato non solo perché autore del Signore degli Anelli o de Lo hobbit – ci dice Cilli – ma va ricordato e raccontato anche come uomo, e quindi come padre, figlio e amico; accademico, ricordando il ruolo di primo piano che riveste negli studi accademici sull’anglosassone e il medio inglese; e poi come sub-creatore di un mondo capace ancora oggi di parlare a persone lontane dal tempo in cui quelle opere furono pensate e pubblicate».

Se l’opera di Tolkien venne salutata dall’amico C. S. Lewis come «un fulmine a ciel sereno in un’epoca quasi patologica nel suo antiromanticismo», quel che sorprende è proprio l’attualità di un autore capace di raccontare il Mito come i grandi narratori del passato. Lo stesso Tolkien, del resto, raccontava di avere sempre la sensazione di registrare «qualcosa che esisteva già» e non di inventare.

Frodo Baggins del Signore degli Anelli

Il successo planetario del film in tre parti di Peter Jackson, all’alba degli anni Duemila, ha segnato una nuova stagione del Signore degli Anelli, contribuendo ad affascinare più generazioni. Perché, come ha detto Edoardo Rialti, uno dei traduttori di Tolkien, «il fantastico resta una delle grandi case dove desideriamo abitare».

E per quanto Tolkien fosse legato alla sua terra e la stessa sua opera rappresentasse il tentativo di fornire all’Inghilterra una mitologia di cui a suo giudizio era priva, si dichiarò in più occasioni innamorato dell’Italia e ampio spazio al rapporto tra Tolkien e il nostro paese verrà dato nella rassegna romana. Per un decennio Tolkien coltivò la sua passione per Dante collaborando alle attività della Oxford Dante Society. «Sono innamorato dell’italiano e mi sento abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo. Dobbiamo continuare a studiarlo», scrive in una lettera al figlio Christopher.

Pur non amando particolarmente viaggiare, si recò nel nostro paese nel 1955 e nel 1966. Da cattolico tradizionalista qual era, la visitò con gli occhi del pellegrino più che del turista. «Per la prima volta – annotò sul diario – ebbi la sensazione che mi tormentò per il resto del mio breve viaggio in Italia: di essere giunto nel cuore della Cristianità; un esule che ritorna a casa dai confini e dalle province più remote, o almeno giunge alla casa dei suoi padri».

L’Italia ebbe peraltro l’opportunità di essere il primo paese a pubblicare una traduzione del Signore degli Anelli, ma per due volte, nel 1954 e nel 1962, Mondadori decise di non pubblicare l’opera. Troppo nordico, conclusero.

Il coraggio di sfidare il mercato editoriale, lo ebbe l’editore Mario Ubaldini con l’Astrolabio nel 1967. Un fiasco. Solo tre anni più tardi l’opera conquistò il grande pubblico grazie alla Rusconi sapientemente diretta da Alfredo Cattabiani. Il testo venne curato da Quirino Principe e presentato da una introduzione di Elémire Zolla con cui si sottolineava la forza di rottura rispetto al materialismo della società laica e consumista.

La stampa progressista ignorò il libro, finché possibile, trattandolo con quell’aria di sufficienza che si riservava, allora, alle opere di fantasia. Si trattava di un romanzo ambientato in uno pseudo medioevo e quello stralunato autore, alle prese con le sue idiosincrasie antimoderne e assorto nelle sue fantasticherie – «le mie spiritosaggini con il linguaggio delle fate», le definiva – sembrava non volesse assolvere a quella funzione sociale cui gli scrittori erano chiamati. Un renitente e quindi un fascista. A sua insaputa, perché Tolkien, pur non essendo un grande estimatore della democrazia, non nutriva la benché minima simpatia per le dottrine totalitarie del suo tempo.

Con questo successo inarrestabile la Rusconi, una delle pochissime voci non progressiste dell’epoca, si affermava definitivamente tra gli editori più importanti della penisola. Per questo, prima ancora di leggerlo, Tolkien veniva attaccato. Per il semplice fatto di essere stato pubblicato da Rusconi. 

Campo Hobbit I (foto di Ferdinando Parisella)

I giovani di destra, al contrario, ne fecero un cult. Per la prima volta veniva scoperto e “adottato” un narratore puro. Ne colsero le valenze metapolitiche, vedendo nei suoi personaggi degli archetipi e nei suoi valori dei punti di riferimento. Non era l’ambito tradizionale dei suoi libri a interessarli, quanto i valori espressi nella saga: eroismo, comunitarismo, critica della società tecnocratica e progressista, ma anche solidarietà e difesa della propria specificità culturale. Non si trattava di rifiutare il mondo moderno per rifugiarsi in uno immaginario, era piuttosto l’opportunità per sostituire definitivamente le mitologie stantie del passato con una universale. Il desiderio di sperimentare forme espressive quali la musica, il teatro e la poesia. Così come gli hippies americani negli anni precedenti avevano sbandierato cartelli con scritto “Frodo lives” o inneggianti a “Gandalf for President”, nelle sedi giovanili della destra facevano bella mostra di sé proprio i poster di Galdalf, scalzando nella hit iconografica i polverosi manifesti sulle rivolte anticomuniste. Nel 1977, arrivarono i campi Hobbit. «Un Parco Lambro di segno opposto», lo presentarono gli organizzatori. Raduni non intitolati al virile condottiero Aragorn, ma ai pacifici hobbit, privi della minima attitudine ai gesti eroici. Non agli eclettici elfi, agli intrepidi nani o al più potente dei maghi. È agli hobbit, per quanto apparentemente fragili e inadeguati, che è affidata la salvezza del mondo. Tolkien, da parte sua, ha sempre manifestato la sua predilezione per i mezzi uomini dai piedi pelosi, pretendendo che nelle traduzioni tale termine venisse sempre riportato in originale.

Organizzati tra la Campania e l’Abruzzo, i campi Hobbit vennero accolti dallo scetticismo se non dall’aperta ostilità dei leader del partito, ma anche di qualche intellettuale d’area che non riusciva a cogliere l’insofferenza creativa di quella generazione. Giano Accame, uno dei più lucidi intellettuali della destra postbellica, espresse il timore che Tolkien potesse distrarre i militanti dall’impegno politico, confessando di non essere riuscito a leggere Il Signore degli Anelli «per l’istintiva ripugnanza che provo di fronte a opere di pura fantasia». 

Il terzo e ultimo campo Hobbit si tenne a Castel Camponeschi, in provincia dell’Aquila, ma il gruppo di persone che si riunivano attorno alle iniziative dei campi Hobbit cominciò a disarticolarsi. Quella esperienza si concluse, ma non il rapporto della destra con le opere dell’illustre filologo.

Più recente è la riscoperta di Tolkien da parte della sinistra italiana. Troppo tardi per rivendicarlo come antesignano del flower power e per brandirlo come voce critica al capitalismo. Che Tolkien possa considerarsi vagamente reazionario e di destra, lo ha certificato e argomentato ampiamente il suo biografo, Humphrey Carpenter. Ciononostante e come è giusto che sia, innumerevoli sono i grandi scrittori di destra letti a sinistra e viceversa. Qualcuno ha ritenuto, tuttavia, che per apprezzarlo pienamente una qualche aggiustatina sarebbe stata opportuna. Tolkien figurava da tempo nell’elenco degli autori tenuti sotto osservazione dall’ideologia woke. Woke, traducibile con sveglio, all’erta. Una corrente di pensiero sempre più influente in molte università americane e inglesi, pronta a denunciare personaggi che avrebbero violato le norme del politically correct. Come quei poveri orchi, vittime di una presunta rappresentazione razzista in quanto tratteggiati da Tolkien come orrendi solo perché al servizio del male.

Non che le opere di Tolkien rischiassero l’eliminazione fisica dalle biblioteche, sorte toccata ad altri colleghi. I tentativi di boicottarne i libri, abbiamo visto, sono clamorosamente falliti. Magari una revisione dei testi, come in casi già sperimentati, sarebbe servita a smorzarne il tono epico e a depotenziare l’opera sino a renderla gradevole per una cultura che non ama il Mito. Da saga portatrice di simboli e spiritualità a romanzone d’avventura, per intenderci.

Non si sono ancora sopite, al riguardo, le polemiche sulla nuova traduzione affidata a Ottavio Fatica, secondo molti dettata dall’esigenza di ridurre un poema cavalleresco a inoffensiva e più fruibile fiction per giovani e adulti.

Sul banco degli imputati, giusto un lustro fa, è finita la principessa Vittoria (Vicky) Alliata di Villafranca, storica traduttrice delle opere tolkieniane. «Un grottesco tribunale del popolo radical chic che processa un’imputata ignara e inerme. E lo fa con argomenti peggio che banali», reagì la principessa, che all’epoca della traduzione aveva appena diciassette anni ma aveva già tradotto i poeti della Beat Generation. Malgrado lo scambio di corrispondenza fra Tolkien, l’editore inglese Allen&Unwin e Ubaldini sarebbe già sufficiente a dimostrare quale indirizzo dette il professore al lavoro dell’Alliata, con tanto di apprezzamento del testo definitivo, la traduzione originaria è stata liquidata da Fatica come «un’avventura improvvisata» e piena di errori. Al di là del merito filologico della contesa e dell’entusiasmo manifestato da Wu Ming 4 per il raggiunto intento di cambiare faccia al libro, rimane il fatto che la traduzione di Vittoria Alliata, con i suoi toni ben più evocativi e quello stile barocco – come è stato definito – è quella che ha venduto milioni di copie stampate e i diritti cinematografici. Il fattore nostalgia, infine, non è trascurabile: Grampasso il Ramingo resterà tale e non sarà giammai ricordato come Passolungo il Forestale. Con tutto il rispetto per i Forestali, ovviamente. 

Tradurre è tradire, come sanno bene i traduttori, ma di questa nuova traduzione non si sentiva proprio l’esigenza e sicuramente non certo quella di far «uscire Tolkien dalla palude in cui era rimasto relegato per quarant’anni in Italia e ridargli la dignità».

Così come è da valutare il valore aggiunto portato dalla serie Gli anelli del potere di Amazon – una drammatizzazione in chiave inclusiva – che semplifica e mortifica l’opera in nome di priorità morali estranee alla visione di Tolkien.

Il pubblico, tuttavia, è sovrano e noi auguriamo lunga vita alle opere di Tolkien, affinché possano trovare sempre nuovi lettori.

Da il Giornale del 2 settembre 2023 (in occasione dei 50 anni dalla morte di Tolkien)

 @barbadilloit

Roberto Alfatti Appetiti

Roberto Alfatti Appetiti su Barbadillo.it

Exit mobile version