Artefatti. Caraco e l’apocalisse nella marcia inarrestabile del caos

Donato Novellini: "Va certamente posto accanto a Schopenhauer e Nietzsche per eredità, a Sgalambro, a Marinetti"

Un libriccino da niente, 120 pagine senza introduzione senza note, Piccola Biblioteca Adelphi numero 411, tutto sottolineato dall’inizio alla fine, compulsivamente maniacalmente con varie gradazioni d’enfasi, sta per essere riposizionato nel suo incavo impolverato, ma non senza importanti conseguenze per il lettore che si credeva sufficientemente edotto in materia di letteratura pessimista; non si tratta affatto di un “bel libro” comunemente inteso oggi – almeno stando ai criteri miserandi, pigramente rassicuranti, che presiedono l’intrattenimento generale del consorzio scrivente e leggente in cui viviamo, chiamato Cultura – epperò nemmeno tale volendo stare a più elevati criteri di giudizio morale o estetico.

Breviario del caos (1982) di Albert Caraco, con la sua minimale copertina canna da zucchero pur essendo amaro come il fiele, resta a tutti gli effetti un testo mostruoso, cinicamente iperbolico, furibondo delirio reso scrittura con fredda ed ineccepibile eleganza formale, “il male assoluto” consapevole di sé, ben inchiostrato su carta e miracolosamente ancora leggibile oggi, benché possieda tutte le caratteristiche per meritare il rogo, la censura, qualsivoglia tipo di divieto proveniente da destra a manca. Difatti dentro non manca nulla del concordato peggio – dal razzismo al classismo all’eugenetica, passando per il complottismo – tranne la speranza, qualsivoglia possibilità di futuro per l’umanità (leggasi per l’uomo europeo). Perciò, visto lo stato dell’arte contemporaneo, può ben dirsi un testo in gran parte profetico.

Nessuna tradizione ci protegge dal futuro, perché il futuro non ha precedenti e l’universo non ha più ripari”.

Privo di sfumature, materialista, ricercatamente violento, a tratti ripetitivo e lievemente demagogico, Breviario del caos procede implacabile, tetragono nell’opera di demolizione teorica di tradizioni (soprattutto religiose) da un lato e di utopie progressiste dall’altro, massacrando senza pietà plebi ed élites, politici e uomini di fede, grandi principi universali, fratellanze, stati governi chiese imprenditori proletari, soprattutto questi ultimi colpevoli di procreare, secondo Caraco la pratica più scellerata dell’individuo e causa d’olocausto per l’ecumene; strutturato in paginette brevi, prive di qualsiasi appiglio consolatorio, chiuse in secche sentenze che tornano sempre allo stesso punto fondamentale per l’autore: l’esistenza è schiavitù mascherata da finte libertà, la democrazia è peste, il collasso globale è imminente, tirannia delle plebi e cavallette ovunque. Trattasi dunque di libro apocalittico, screziato di Quolet ma fondamentalmente pagano nella visione del mondo, al netto di un catastrofismo visionario prefigura con incredibile precisione molti aspetti critici del nostro tempo, mettendo il dito nella piaga: l’ingestibile immigrazione africana ed asiatica, la retorica dei buoni sentimenti, eppoi intelligenza artificiale, rammollimento e femminilizzazione del carattere europeo, parodia imperante nell’informazione, emergenze ambientali, sovrappopolazione del pianeta, ma tutto senza il pedagogico piglio moralista tipico dei nostri potenti, bensì al contrario auspicando che tutto vada a definitivamente a catafascio. “Accelerare il declino”, nichilismo radicale, morte, la fine senza illusioni senza consolazioni.

…stiamo andando verso il caos con passo eguale, il cuore colmo di speranza, sognando il Paese della Cuccagna, la cui scienza gratificherà i nostri trenta miliardi di figli e di nipoti, nell’ora in cui le cento nazioni formeranno ormai un unico popolo, e le tre razze ne costituiranno una sola”.

Caraco va certamente posto accanto a Schopenhauer e Nietzsche per eredità, a Sgalambro, a Marinetti per l’iconoclastia nei confronti del passato, a Ducasse, Bernhard, Gómez Dávila, Michelstaedter, Ceronetti, Céline (quello violentemente polemico di Bagatelles pour un massacre), Carmelo Bene, il quale deve sicuramente averlo letto, finanche Evola per l’antimodernismo reazionario; a Cioran ovviamente, pur non possedendo l’affilata ironia e lo scetticismo del rumeno. Più di tutti è imparentato con l’individualismo anarchico di Max Stirner, al quale lo accomuna l’idiosincrasia nei confronti delle cause collettivistiche e sociali, l’avversione alla cosiddetta massa (di perdizione). Ebreo cosmopolita di ricca famiglia, gioventù dandy e libertina ben resa nel raffinato volume L’uomo di mondo (1967), pone termine coerentemente alla sua vita come un asceta misoteista, quindi senza Dio né credenze, privo di centri di gravità permanenti ed orfano rancoroso di un umanesimo perduto, suicida un giorno dopo la morte del padre: per non dargli un dispiacere.

 

 

 

 

 

 

Donato Novellini

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