Dopo la Fiat (diventata apolide) arriva la svendita di Magneti Marelli

La cessione di MM, di un’azienda della componentistica auto, rientra perfettamente nelle strategie di John Elkann. A cui la produzione industriale non interessa minimamente

Magneti Marelli

C’era una volta la Fiat. Anzi, il gruppo Fiat. Che non produceva solo auto ma anche aerei e motori marini. E aveva fonderie, aziende dell’energia, produzioni di macchine utensili, un centro ricerche. Centinaia di migliaia di dipendenti diretti e dell’indotto. Poi è arrivata l’accoppiata Gianni Agnelli/Cesare Romiti e la favola bella (per gli azionisti, per gli altri solo una favola) si è interrotta. Fiat non esiste più, se non come marchio di una vettura prodotta in Marocco. Ci sarebbero anche i cioccolatini, ma è un’altra storia. Magneti Marelli era un’azienda del grande gruppo. Che si era salvata dalla grande svendita messa in atto per salvare qualcosa dopo i disastri provocati dalla coppia di vertice.

E si era salvata anche da Marchionne. Poi è arrivato Mike Manley alla guida di ciò che si era trasformato in Fca e Marelli è diventata giapponese. Pur continuando a fornire componentistica auto agli stabilimenti ex Fiat. Però la globalizzazione non ha confini e Marelli è passata sotto il controllo degli americani di Kkr, gli stessi a cui sono state offerte corsie preferenziali per acquisire Tim. Gli stessi che vorrebbero mandare a casa i lavoratori dello stabilimento Marelli di Crevalcore. Perché i fondi internazionali hanno una calcolatrice al posto del cuore. E chi ha permesso la svendita di Tim non si sa cos’abbia al posto del cervello.

Ma tornando a Marelli, è stato un errore venderla ai nipponici? Dal punto di vista dei lavoratori sì, ovviamente. Ma gli azionisti hanno incassato somme consistenti. E, soprattutto, la cessione di Marelli, di un’azienda della componentistica auto, rientra perfettamente nelle strategie di John Elkann. A cui la produzione industriale non interessa minimamente. Non a caso l’accordo con i francesi di Psa per dar vita a Stellantis ha stabilito che la scelta dell’amministratore delegato spetta ai transalpini. Dunque comandano loro, decidono loro. E, nei limiti del possibile, favoriscono i fornitori francesi. 

Anche il recente accordo che trasforma Mirafiori in una fabbrica per la rottamazione delle auto va in questa direzione. L’industria automobilistica italiana è arrivata a fine corsa. E gli stabilimenti della componentistica devono essere il più vicini possibile alle fabbriche che si dedicano all’assemblaggio. Non sempre è possibile, e questo salva molti fornitori italiani che hanno commesse in Francia e Germania. Ma il percorso è segnato. Non a caso un numero consistente di aziende piemontesi della componentistica auto si sono riciclate in fornitori per il settore aerospaziale torinese. 

Le auto sono diventate troppo care per il mercato interno italiano. Arrivano i concorrenti cinesi che possono permettersi di far viaggiare le componenti di una vettura, da montare in Italia facendola diventare italiana, grazie a costi di produzione molto più bassi e senza bisogno di fare dumping. Magari gli eventuali acquirenti di Marelli, se si paleseranno, potranno competere per la fornitura di componenti alle fabbriche italiane controllate da Pechino.

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Augusto Grandi

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