Centurie nere, baluardo che non salvò lo zarismo                                           

Le origini novecentesche della Russia odierna nel saggio di Alfonso De Filippi

Centuria nera

Accurato studio sulla destra radicale russa nei primi due decenni del XX secolo, Centurie nere di Alfonso De Filippi (Ed. Arya, pp. 172, euro 20) è un argine alla russofobia nella quale sono precipitati società intellettuale e senso comune. Chi non avesse portato il cervello all’ammasso e fosse riuscito a sottrarsi alla demonizzazione del nemico russo troverebbe in queste pagine di storia più di uno spunto per intuire, attraverso il recente passato della Russia, gli sviluppi futuri. Storia contro pregiudizio, conoscenza come libertà.

Il punto di svolta viene collocato da De Filippi nel 1905, quando l’impero bi-continentale, basato su autocrazia, ortodossia e nazionalità russa, si sveglia dal sogno di onnipotenza e superiorità con l’imprevista sconfitta nella guerra contro lImpero giapponese. Il disastro in estremo oriente ha come effetto collaterale la rivoluzione sociale, che ha i suoi più celebri e cruenti episodi nella «Domenica di sangue» di San Pietroburgo e nell’ammutinamento a Odessa della Potëmkin. Il contagio si estende all’intero organismo e viene medicato a Pietroburgo con un rimedio che si rivelerà peggiore del male: il Manifesto riformista e costituzionale del 17 ottobre, suggerito allo zar dal liberale Sergej Vitte, capo del governo, e la convocazione della prima Duma.

Della rivoluzione e del manifesto di ottobre 1905 parla anche Boris Pasternàk nel Dottor Živago (Feltrinelli, 1957), che racconta della manifestazione dei rivoluzionari, attaccata dai cosacchi a Mosca, alla quale partecipa anche il giovane Pavel Antipov, futuro marito di Lara e feroce eroe della guerra civile col nome di Strel’nikov.

Il mondo monarchico e conservatore è sbigottito. La sua dottrina si radicalizza in senso reazionario e antisemita ma, fatto nuovo, non rimane un’esclusiva delle classi egemoni: diventa il riferimento di ampi strati popolari, soprattutto tra i declassati e gli esclusi dai benefici della modernizzazione; nasce l’Unione del Popolo Russo (UPR), che avrà fino a oltre trecentomila aderenti. Questo fenomeno di «nazionalizzazione delle masse» ha portato alcuni storici a parlare di «proto fascismo» e a individuare nell’esperimento russo di quegli anni un precursore dei movimenti degli anni ‘20 in Italia e Germania.

Dubrovin e Puriškevič, piccolo impiegato statale il primo, ricco proprietario terriero della Bessarabia il secondo, furono i fondatori e i principali dirigenti dell’UPR, che fu appoggiata dallo stesso zar Nicola II. D’altra parte i militanti della nuova formazione, come riporta Orlando Figes (La tragedia di un popolo, Corbaccio, 1997), «stupefatti dell’inanità dello zar e della fiacchezza dei suoi tentativi di reprimere le sinistre, avevano deciso di sostituirsi a lui, costituendo gruppi paramilitari e affrontando i rivoluzionari nelle piazze». Nascono così i «cento neri», cioè le Centurie Nere alle quali è dedicato il saggio di De Filippi.

Sul nome dei «cento neri», come i democratici avevano preso a chiamare per scherno le milizie dell’Unione del Popolo Russo, giova citare ancora lo storico inglese: «Era, questo, un dispregiativo foggiato sul termine ‘Cento bianchi’ usato nella Russia medievale per indicare la casta privilegiata dei nobili e dei ricchi mercanti. Il nomignolo beffardo si doveva al fatto che i militanti dei ‘cento neri’ erano tutti di bassa estrazione, quindi ben lontani dal possedere le caratteristiche di quell’antica casta» (ivi).

De Filippi riferisce le vicende di strumentalizzazioni, corruzione, crisi e scissioni delle formazioni di estrema destra russa, che portarono all’esaurimento dell’esperienza militante alle soglie della Grande guerra. E individua la causa prima nell’incapacità di elaborare unideologia consona ai problemi del tempo: parlamentarismo, riforma agraria, ruolo della Chiesa nella società, libertà civili e opportunità della guerra alla Germania. Gli unici tratti distintivi sul piano politico di questo frastagliato mondo sono essere fedeltà alla monarchia e giudeofobia, che macchiò i cento neri di pogrom e contribuì alla fortuna del coevo Protocolli dei Savi di Sion, sul quale Sergio Romano molti anni ha avuto una parola definitiva (I falsi Protocolli, Corbaccio 1992).

A proposito invece della riforma agraria, è utile dare rilievo alla figura dello statista Pëtr Stolypin, che fu primo ministro dell’Impero dal 1906 al 1911, quando venne ucciso in un attentato a Kiev. Di cultura nazionalista e conservatrice, assunse la responsabilità del governo all’indomani dello scioglimento della prima Duma e cercò di riformare lo stato attraverso la diffusione della proprietà terriera e la creazione di una vasto ceto di piccoli proprietari fedeli allo zar, i kulaki, che sarebbero stati successivamente sterminati dallo stalinismo. Ma Aleksandr Dubrovin, presidente dell’Unione del Popolo Russo, si oppose a Stolypin e si schierò a difesa del Mir, tradizionale comunità contadina. Avversato dall’estrema destra (e dall’estrema sinistra), Stolypin è stato invece una personalità assai amata da Aleksandr Solženicyn, che nel 1984 pubblicava una nuova versione del romanzoAgosto 1914, molto ampliata rispetto alla prima edizione del 1971, dedicando oltre duecento pagine alle vicende di Stolypin, nonché alle origini ebraiche e alla personalità del suo assassino, Dmitri Bogrov.

Dopo i primi due anni di guerra, gli avvenimenti precipitano: la rivoluzione, scoppiata nel febbraio 1917, determinò l’abdicazione dello zar e l’instaurazione di un governo provvisorio, di cui ben presto fu a capo Kerenskij, del Partito socialista rivoluzionario; venne proclamata la repubblica; in aprile si presentò Lenin alla stazione Finlandia per completare l’opera, «senza che la destra monarchica fosse in grado di opporre una qualche resistenza degna di nota».

De Filippi cerca le tracce di questo mondo in frantumi tra le Guardie Bianche della guerra civile e tra le comunità dell’emigrazione russa in Europa occidentale; ricorda tra gli altri la figura del generale Krasnov, autore di romanzi popolarissimi anche in Italia, la cui Confraternita della Verità Russa conseguì qualche successo in Manciuria. Krasnov, dopo l’esilio, si batté invece dalla parte dellAsse nella seconda guerra mondiale con un corpo cosacco in Jugoslavia e infine nel Friuli. Nel maggio 1945 Krasnov e i suoi si arresero ai britannici, che li consegnarono ai sovietici Il 17 febbraio 1947 Krasnov fu impiccato a Mosca.

De Filippi ricorda inoltre il tedesco del Baltico di origine russa Max Erwin von Scheubner-Rochter, attivo nella lotta a difesa degli armeni, vicino a Hitler nei primi tempi dell’organizzazione della NSDAP, morto durante il Putsch di Monaco il 9 novembre 1923.

Forse perché esterno rispetto agli ambienti monarchici dell’emigrazione, non è citato nel libro di De Filippi l’effimero partito fascista panrusso, sviluppatosi negli anni Trenta in Manciuria e negli Stati Uniti, di cui scrive Erwin Oberländer (Trasgressioni n. 69, 2022).

Con modestia, De Filippi presenta il suo lavoro come “una raccolta di appunti”, mentre passa in rassegna la migliore bibliografia sul tema, quasi tutta inedita in italiano, con grande beneficio per il lettore e lo studioso.

Francesco Bergomi

Francesco Bergomi su Barbadillo.it

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