Artefatti. Musica in nero e rune capovolte ai funerali d’Europa

Donato Novellini ripercorre l'ascesa e il declino del genere musicale Neofolk

“Come facevamo? I viaggi le nebbie albe tramonti in giro per l’Italia e l’Europa senza mappe virtuali senza telefoni intelligenti, solo per raggiungere quel determinato concerto, che poi era in realtà un rituale: Walter, all’epoca considerato da noi più giovani alla stregua di uno zio buono, mi aveva spedito una lettera, busta riciclata dall’ufficio bancario dove lavorava (doppie vite) con dentro la locandina, una piantina del luogo fotocopiata e il suo fisso in caso di disguidi, poi a Milano Torino Bologna Venezia Trieste (o Igea Marina, per un paradossale live di Ordo Equilibrio super-fetish in pizzeria) chissà dove, il locale non era mai quello prestabilito, problemi, disdette, toccava entrare in una cabina telefonica: “Oh, sono davanti al Dracma ma è chiuso!” – “Vedi la Grande Madre? Ecco, scendi giù ai Murazzi e tira dritto fino in fondo…” mentre dall’alto cadevano bottiglie di Ceres, cadeau degli autonomi dei centri sociali. Si diceva infatti fossero concerti nazi. Le rune, le torce, neri vessilli. Ai compagni non piaceva ‘sta storia, epperò me ne portai due appresso, annoiati anarchici di paese, al live di Der Blutharsch a Monticelli d’Ongina in provincia di Piacenza. Martynna, bellissima in divisa nera con bustina di traverso sul capo, si chinò dal palco per cedere un grosso cero chiesastico a uno dei due punk con cresta, questi sbiancò trasecolato, cercò di nascondersi ma lei insistette, l’espressione era del tipo: “piglia questa cazzo di candela, idiota”, e lui obbedì, restando per tutto il concerto con il cero in mano. Ma poi quante? Vienna, il fumoso Monastery ficcato in un binario morto della metropolitana, l’uscita all’alba straniati, clandestini del mondo omologato, il Caffè Mentone coi suoi segreti, il concerto al Vittoriale negato nientepopodimenoché dal Presidente della Repubblica, prima ancora del politicamente corretto: precursori di piaceri pericolosi, anticonformisti per vocazione, fedeli ad un’estetica pessimistica quanto eroica, ci piaceva così. Siamo sempre stati pochi, anche all’epoca di maggior fermento, ma meglio quella marginalità voluta del nulla imposto e replicato oggi”.

(Ricordi sparsi di un testimone diretto, lo scrivente)

 

Nel 2007 uscì un corposo libro a firma Andreas Diesel e Dieter Gerten, abbinato ad un cofanetto riassuntivo contenente 4 cd, titolato Looking for Europe in omaggio ad una canzone emblematica di Sol Invictus; il tomo si proponeva il compito di mettere ordine nella complessa scena musicale definita Neofolk, forse l’ultimo genere “occidentale” assieme al metal scandinavo non debitore verso altre culture, soprattutto impermeabile a quelle afroamericane e refrattario all’idea ossessiva di Progresso sotto la quale marciscono le arti occidentali. L’intento compilativo andava anche a storicizzare, ovvero a tumulare con perfetto tempismo, un variegato e contraddittorio microcosmo artistico, allargando la panoramica a precursori ed epigoni; Looking for Europe, per l’appunto, celebrava qualcosa di difficilmente definibile nell’ambito delle sottoculture giovanili, durato circa tre lustri, filo nero d’un comune sentire che si stava irrimediabilmente perdendo, lentamente esaurendo da sé come un fuoco fatuo, ciò al di là delle singole realtà, molte delle quali ancora attive. Tre anni prima era fallita miseramente con tanto di diatribe legali tra soci la World Serpent, etichetta discografica londinese, primigenia casa madre di tutte le declinazioni del suono post-industriale, folk-noir compreso. Fu il primo segno di cedimento, giacché oltre alla distribuzione dei dischi, l’etichetta rappresentava un vero e proprio punto di riferimento per il sottobosco alternativo, sorta di manifesto d’intenti a partire dal nome scelto: Jörmungandr, il mostro marino della mitologia norrena. Se il paganesimo – e usiamo consapevolmente questo termine, con tutti i limiti semantici che si porta appresso – rappresentò il collante iniziale della scena che stiamo approfondendo, diverse furono le declinazioni espressive praticate per evocarlo; paradossalmente, infatti, il Neofolk nasce dal suo stilema contrario, ovvero dalla musica industriale, a sua volta proliferata a fine ‘70 nell’alveo dell’anarchismo punk. All’ombra di Sex Pistols e Clash, e della loro ruffiana iconoclastia da cartolina divenuta presto moda per riviste patinate, pullulavano realtà ben più radicali ed avanguardiste; tra le quali i seminali Throbbing Gristle, fautori di un caotico rumorismo, di provocazioni estetiche scioccanti, volutamente pornografiche, sabbatico quanto alienante sabotaggio delle macchine di segno opposto rispetto al “positivismo” futurista, semmai più vicino al luddismo nonsense del Dada. Quell’esperienza di rottura – per altro rievocante qua e là, nelle performance, l’epica tragica nazionalsocialista, ostentata con intento disturbante – divenne modello per altri guastatori in giro per il mondo; tuttavia, ben presto apparve chiaro che l’Industrial claustrofobico, nichilista in purezza, oltranzista nel proporre soluzioni di bruta negazione del mondo moderno, necessitava di nuove strade espressive per uscire dalla prevedibile ripetizione di una formula data. Iniziarono così ad insinuarsi i primi elementi esoterici, occultistici, per la maggior parte riconducibili alle figure di Aleister Crowley, Charles Manson e Austin Osman Spare. L’opera del mago inglese, soprattutto, fu indispensabile per l’emancipazione della scena, da meramente materialista mutava verso confuse, talvolta ingenuamente sulfuree, forme di spiritualità capovolta. Dai Throbbing Gristle nacquero gli Psychic TV, oltre alla musica essi furono promotori di una sorta di setta transnazionale chiamata Thee Temple ov Psychick Youth, comunità iniziatica dedita, tra le altre cose, alla messa in pratica di sigilli magici.

Current 93 3 Coll

Emblematici, in questo caso, i percorsi di Current 93 e Coil, entrambi partiti da cacofoniche “messe nere”, isteriche campionature incise su vinile, coi primi invasati luciferini, influenzati da Lautréamont e dalla filosofia thelemíta, mentre i secondi propensi a blasfeme ritualità elettroniche di magia sessuale, più precisamente omosessuale. Di Coil qui interessa particolarmente l’epilogo, prima della morte di John Balance e Peter Christopherson (i due detentori del marchio), allorquando virarono verso lisergiche traiettorie cosmiche, dilatate musiche lunari, estatiche suites siderali in grado di polarizzare il caos, di fissarlo in algide processioni digitali (Music to play in the dark, vol.1 e 2, The Ape of Naples, la serie di dischi dedicata a equinozi e solstizi). Assai più complessa la vicenda di Current 93, entità crowleyana mutante, da qualche anno approdata ad un cristianesimo apocalittico d’influenza copta, passando attraverso le più svariate forme di paganesimo e folklore, sovente indagate nell’elemento grottesco, demonico, ma pure ritualistico. Dai primi anni ‘90 la compagine “allargata” guidata dall’istrionico David Tibet, oltre ad ospitare fra i propri ranghi freaks d’ogni risma e musicisti attivi sotto altre sigle (il rumorista Steven Stapleton di Nurse with wound, ad esempio, dal 1982), divenne la quintessenza del folk apocalittico – senza mai abbandonare del tutto la vocazione sperimentale ed il gusto per la bizzarria ermetica – sia attraverso la riproposizione della ballata bucolica di tradizione albionica che spaziando dal minimalismo pianistico a neoclassiche composizioni di natura intimista e contemplativa, fino a lambire i territori psichedelici d’ascendenza hippy. L’apice della complicità creativa tra vari soggetti gravitanti nell’orbita Current 93, si manifestò appieno col disco Beauty reaps the blood of solitude (1994), l’equivalente in musica d’un romanzo di formazione, capolavoro collettivo a firma Nature and Organisation influenzato dal film The wicker man, horror paganeggiante britannico del 1973. Impossibile in questa sede sviscerarne compiutamente la corposa discografia, tantomeno citare scrittori e artisti di riferimento, meriterebbe un saggio a parte, ci basterà ricordare tre dischi fondamentali – Thunder perfect mind (1992), Of ruine or some blazing starre (1994), All the pretty little horses: the inmost light (1996) – e riportare un buffo aneddoto pittorico: la collaborazione con la celebrità Nick Cave scaturì dalla comune passione per l’arte del folle pittore di gatti Louis Wain, del quale anche il menestrello David Tibet era ammiratore e collezionista, tanto da riprodurre alcuni dipinti a tema felino sulle copertine dei dischi. Così il tetro messianismo della “Corrente” si colorava a fine secolo di invernali tinte dickensiane: gatti randagi per le fumose vie di Londra, infreddoliti fanciulli piangenti, piccole e grandi solitudini umane, desueti personaggi – dal conte Eric Stanislaus Stenbock, scrittore di testi macabri vissuto nel XIX secolo, al clownesco strimpellatore americano Tim Tiny, passando per Sveinbjörn Beinteinsson, vecchio e barbuto islandese, ultimo testimone orale dell’Edda – assurti a punti di riferimento di un eccentrico immaginario.

 

Trattazione a parte merita il caso Death in June, con tutta probabilità il soggetto più imitato e noto anche al di fuori del circuito Neofolk; Douglas Pearce e Tony Wakeford iniziarono a suonare nei Crisis, una delle formazioni più radicalmente comuniste del punk ‘77 inglese, tanto politicizzata da dedicare un brano alle Brigate Rosse. Pochi anni dopo, affascinati dal Nazional-bolscevismo e dai rivoluzionari tedeschi delle S.A., da Ernst Rohm e Gregor Strasser, i due musicisti cambiarono registro, fondando i Death in June assieme a Patrick Leagas. Mutamento estetico, musicale e contenutistico, dapprima formalmente incline alla dark-wave e al post-punk più rigoroso – Joy Division soprattutto – poi via via sempre più originale con l’immissione di elementi folk nel tessuto sonoro marzialmente percussivo ed elettronico (Nada, 1985). Il primo album, The guilty have no pride, sfoggiava in copertina una rivisitazione del Totenkopf, i concerti vedevano i musicisti abbigliati in camicia nera o con divise militari, mimetiche tedesche, financo uniformi delle S.S. come accaduto con sommo scandalo dei più in una contestata esibizione a Bologna. Fin dove si poteva spingere la provocazione nei circuiti alternativi giovanili, presidi a libertà vigilata in mano agli anarco-comunisti? Ma soprattutto: era ancora una provocazione punk la fascinazione nazista, o già l’embrione di una cifra stilistica affrancata da qualsivoglia appartenenza politica? Il solo Douglas Pearce si fece carico di dare forma compiuta alla contraddizione, portandola alle estreme conseguenze. Tony Wakeford lasciò il nero vascello per imbarcarsi nel longevo progetto autonomo Sol Invictus, caratterizzato inizialmente da tensioni paneuropee, interessi mitraici, suggestioni evoliane (Against the modern world, 1987) e omaggi ad Ezra Pound, musicate contrapposizioni al mondo moderno, col passare del tempo stemperate in romantiche, talvolta nostalgicamente gotiche, rivisitazioni cameristiche della cultura sassone. Dopo qualche anno, l’esoterista Ian Read uscì a sua volta da Sol Invictus per fondare Fire+Ice, sigla maggiormente tradizionalista, dedita allo studio delle rune e alla compilazione di ballate austere a sfondo pagano. Dal canto suo anche Patrick Leagas prese una strada indipendente ma opposta, coi Sixth Comm inaugurando un codice di tribalismo elettrificato, accentuando gli elementi tellurici, selvaggi, orgiastici, della spiritualità nordica. A partire dal 1986, con l’album The world that summer – nera copertina effigiata da rose, runa Algiz e testa di morto – ha inizio il misantropico viaggio della Morte in Giugno a guida Douglas Pearce. Brown book (1987) Östenbräun e The wall of sacrifice (1989) chiuderanno la decade all’insegna del sodalizio con David Tibet (Current 93), coi francesi Les Joyaux de la Princesse, in misura minore con John Balance (Coil) e Boyd Rice (Non), radicalizzando l’ossessione dialettica Amore e Morte: la rosa ed il pugnale, Genet e Mishima omaggiati in più occasioni, echi nicciani e perversioni masochiste, feticci cinematografici quali Rainer Werner Fassbinder, Luchino Visconti e Liliana Cavani (Il portiere di notte). Emerge l’elemento esistenziale, nichilista quanto eroico, quello dello sconfitto non domo, afflato cantautorale mutuato dall’isolazionismo intimista di Scott Walker mescolato a lacerti wave, campionamenti bellici, inni nazionalsocialisti (Horst-Wessel-Lied) e canti kamikaze, lugubri atmosfere morriconiane; sono gli anni della maschera indossata da Pearce sul palco e nelle foto, delle mimetiche e delle rune, della purezza e del kitsch militarista, onore e morte, ostentazioni di una omosessualità virile, sprezzante dei “Diritti delle minoranze”: un lungo cerimoniale funebre riguardante la fine dell’Europa, pubblica confessione e delirio, diario nero inerente la decadenza occidentale post-bellica.

Negli anni ‘90 escono due capolavori puramente folk, But, what ends when the symbols shatter? (1992) e Rose clouds of holocaust (1995), spurgate da allegorie storiche campionate e da artifizi elettronici, spogliate nei suoni, restano solo le canzoni, restano le parole. Chitarra acustica, tastiere, qualche intervento di tromba, leggere percussioni, accompagnano la voce profonda di Douglas Pearce in un doppio viaggio poetico, dolente canto introspettivo ammantato da un aristocratico distacco, vena decadente eppure pregna d’orgoglio che si cristallizza in una forma matura di perfezione stilistica. Nel frattempo scoppia la guerra nei Balcani, la posizione filo-croata di Death in June è testimoniata dall’ardimentoso concerto a Zagabria, a conflitto in corso, dal quale scaturisce il disco Something is coming, al quale fa seguito l’incarnazione Kapo, sorta di macabra litania sulla guerra fratricida nel cuore dell’Europa. Tra concerti annullati per le pressioni delle organizzazioni di estrema sinistra e censure varie, chiuderà il secolo un altro dittico di alta levatura: Take care & control (1998) e Operation Hummingbird (2000), albi caratterizzati da un piglio sinfonico saturo di pathos, ipnotico e marziale, a tratti teatralmente solenne, in altri punti debordante nel puro völkisch autocompiaciuto. Frutti della felice collaborazione con Albin Julius (Der Blutharsch), i due dischi segnano l’apice creativo del combo inglese, col nuovo millennio si assisterà ad un inesorabile ripiegamento nel soliloquio minimalista, solitario canto del cigno – calo d’ispirazione inaugurato dal rancoroso, grottesco, pastiche All pigs must die (2001) –, un declino tutt’ora in corso.

 

Il piccolo fenomeno Neofolk prese rapidamente piede in tutta Europa, con rilevanti appendici ad est (i magiari A.C.T.U.S., ispirati all’imperialismo pagano di evoliana memoria), fino in Russia, e pure negli Stati Uniti – Blood Axis, In Gowan Ring: i primi forti di un’epica wagneriana, suprematista, fortemente antimoderna, tratta da Nietzsche non mediato da intellettualismi, il secondo più simile ad un bardo, cantore boschivo di nenie ancestrali – dando così modo alle riviste specializzate di delineare una vera e propria scena indipendente, attigua al goth-dark e al black-metal ma connotata da simbologie e codici propri, quando non esplicitamente connessi all’iconografia dei fascismi (pur senza intenti apologetici, nella maggior parte dei casi) dichiaratamente rivolta ad un mitico passato precristiano e al recupero di perdute tradizioni. A conferma di ciò uscirono compilazioni collettive tematiche dedicate a Julius Evola (Cavalcare la tigre, 1998), Leni Riefenstahl, Corneliu Zelea Codreanu, ai culti mitraici (Mysteria Mithrae 1996)e più in generale al concetto meta-temporale di Kali yuga (Im blutfeuer,1995); soprattutto il tributo folk/industriale ad Evola, uscito nel centenario della nascita in concomitanza ad una mostra importante tenutasi a Milano (“Tra Futurismo, Dada e Alchimia”) – riconoscimento di profilo istituzionale, essendo stata voluta, tra gli altri, dal compianto assessore alla cultura di Regione Lombardia Marzio Tremaglia – ribadiva la centralità, in un certo senso pure la trasversalità, del pensatore romano. Per la prima volta la cultura reazionaria, conservatrice, tradizionalista, trovava asilo in un contesto non riconducibile direttamente alla destra politica o alla musica militante “d’area”, anzi proveniva da antefatti di segno opposto. Il vate del pensiero negativo Emil Cioran, Ernst Jünger, Martin Heidegger, Yukio Mishima, Pierre Drieu La Rochelle, Louis-Ferdinand Céline, Ezra Pound, Sade e Bataille, oltre al già citato Evola, venivano citati nei libretti dei dischi con particolare enfasi, talvolta addirittura campionati nelle musiche come nel caso dell’autore dei Cantos, e ciò avveniva senza particolari tensioni ideologiche all’interno della sottocultura Dark, chiuso microcosmo intriso di romanticismo maledetto e spleen decadentista. Nella seconda metà degli anni ‘90 era bello vedere, nello stesso club buio e scalcinato, maschi in mimetica paramilitare corteggiare pallide dame abbigliate in pizzi e merletti, secondo la moda del XIX secolo. In fondo ciò che univa musicisti e pubblico Neofolk non aveva connotati propagandistici, in senso strettamente politico calato nell’attualità, semmai verteva sull’interesse storico, estetico, per la propaganda quale mezzo di persuasione e di resistenza dei popoli europei contro capitalismo e comunismo, regimi “maledetti” crollati nel secondo conflitto mondiale in seguito alla stretta distruttiva dei colossi materialisti U.S.A. e U.R.S.S.: un atto volontario disperato ma non infruttuoso; per taluni, cinquant’anni dopo la disfatta d’Europa, risultavano più affascinanti le macerie precedenti, i bunker coperti d’erba sulle coste bretoni e normanne a difesa del continente, o le città di fondazione littorie, rispetto ai dogmi ipocriti del mondo nuovo, coi suoi pixel e titaniche vetroresine ascendenti. Interessava la sconfitta quale elemento catartico, spirituale, financo la bellezza tragica del sacrificio, interessavano gli elementi estetici, talvolta pure etici sottoposti a censura democratica, tutto ciò che di proibito esulava dal ribellismo addomesticato e preconfezionato, commerciale e stereotipato, ad uso gioventù occidentale. In Francia ad esempio operavano Les Joyaux de la Princesse, finissimi artigiani della stratificazione industriale, pionieri dell’assemblaggio retrò di gracchianti voci patriottiche – Croix De Bois – Croix De Feu – Croix De Sang – recupero filologico di testimonianze dell’associazionismo nazionalistico fra le due guerre, riproponendo anche attraverso un raffinato apparato iconografico la documentazione d’epoca; dischi custoditi in preziose custodie fuori dai formati standard, numerate a mano, contenenti volantini, plaquette, sottoscrizioni per i reduci dalla Grande Guerra, come pure testimonianze del culto della gioventù europeista mutuato da Robert Brasillach e Pierre Drieu La Rochelle, poi da Jean Thriart (Aux petits enfants de France), addirittura oggetti, tipo una vera spiga di grano stretta in un nastrino tricolore o un cucchiaio forato per la degustazione dell’assenzio. Non di meno Dernière Volonté, esordiente con l’ambient sinfonico di Obeir et Mourir, cofanetto contenente un set di cartoline dell’occupazione nazista di Parigi, richiami “collabò” ad Albert Speer, Pétain, Maurras, Mussolini e alla SS-Panzergrenadier-Division “Götz von Berlichingen”, la quale prese parte all’operazione Nordwind, l’ultima offensiva tedesca sul fronte occidentale in Francia; quella che portava il nome del cavaliere tedesco Götz von Berlichingen, vissuto nel XVI secolo, colui che perse in battaglia la mano destra e fu costretto a indossare una protesi; non a caso l’emblema della divisione, un pugno di ferro stilizzato, appare sulla copertina del singolo in vinile Commandements. Nella discografia, caratterizzata da sonorità industriali ed inni marziali, poi via via sempre più pop, emergono anche contraddittori riferimenti al movimento di resistenza tedesco La rosa bianca e per contrappasso alla Legione Straniera (Cœur de Légionnaire, Mon Mercenaire), segni di un interesse artistico ed estetico per il gesto eroico, per l’epica della bella morte. Negli stessi anni, dalla penisola scandinava, giungevano segnali di avvicinamento al codice Neofolk, principalmente provenienti da musicisti di formazione black-metal: Of the wand & the moon, Hagalaz’ Runedance, Arditi, i mutanti Ulver, soprattutto il giro dell’etichetta Cold Meat Industry, tipo Ordo Rosarius Equilibrio, Puissance, Deutsch Nepal, Raison d’être, Desiderii Marginis, Arcana, Rome. Le sonorità sono qui più affini all’ambient oscuro, negromantico, l’elemento acustico è stemperato nel magma elettronico o sommerso da ripetitivi stridori di gusto macabro. Le tematiche si compiacciono d’un beffardo nichilismo, d’allegorie erotiche esasperate in parafilie sadomasochistiche, di profanazioni chiesastiche, la simbologia stessa dell’etichetta svedese, raffigurante carni di bestie appese al gancio ispezionate da un macellaio in camice bianco, esula dal genere qui trattato e fa caso a sé.

In Germania e Austria

 

Per ritrovare importanti tracce del Neofolk, tra fine secolo e prima decade del nuovo, occorre spostarsi in Germania e soprattutto in Austria. Dalla prima emergono, a discapito di una legislazione fortemente restrittiva riguardo a temi e simboli del recente passato, Forseti, Sonne Hagal, Von Thronstahl, Darkwood ed altri; mentre dalla seconda i veterani archeo-futuristi Allerseelen, saturi di riferimenti culturali pan-europei, invero trasversali – da Baudrillard a Jünger, da Hölderlin a Jodorowsky, da Pound a Novalis – maggiormente interessati all’occultismo pre-nazista rispetto all’effettiva manifestazione di potere inerente il Terzo Reich; oppure Sturmpercht, collettivo alpestre radicalmente tradizionalista nella strumentazione e nel vestiario, rievocante per certi versi la leggenda ancestrale del Krampus. Ma da Vienna proviene qualcosa di più organizzato, forse l’ultima testimonianza strutturata del genere. Albin Julius è reduce dalla straordinaria esperienza con The moon lay hidden beneath a cloud, duo fuori dal tempo – con la ieratica Alzbeth alla voce – vero e proprio culto per iniziati ed adepti, i cui dischi pregni di atmosfere medievali, sigilli monasteriali, suggestioni arturiane e fascinazioni aramaiche, retti su testi scritti in linguaggi perduti, dal latino all’antico germanico passando per la langue d’oïl, mai ristampati, sono oggi materiale di collezionismo; ebbene, a fine ‘90 egli decide di ripartire col marchio Der Blutharsch, adottando come simbolo la runa Sig – poi sostituita da una croce di ferro decorata con foglie di quercia – e pubblicando materiale sonoro esclusivamente attraverso la casa discografica personale WKN (“Wir Kapitulieren Niemals”). Le prime emissioni fonografiche a tiratura limitata, curate nei minimi dettagli, si contraddistinguono per l’esplicito utilizzo di immagini risalenti all’iconografia nazionalsocialista, nessuna nota esplicativa o giustificatoria, nemmeno i titoli dei brani, l’operazione discografica è avvolta da un fitto mistero. Anche i concerti, più simili a rituali di fedeltà tra fiaccole ardenti, coi musicisti vestiti in nere divise militari, si discostano parecchio dalle consuete esibizioni rock, rievocando piuttosto cerimonie pagane mutuate dalle catacombali iniziazioni delle SS. Codesta fase, tutto sommato accolta positivamente dalla stampa musicale specializzata, la quale giudicò allegorico, volutamente provocatorio o forse addirittura situazionista l’apparato estetico nazista (molti gruppi punk o industriali l’avevano già fatto prima, chi pigliando i riferimenti totalitari a Berlino e chi a Mosca); venne apprezzata la commistione tra elementi sinfonici e campionamenti bellici, la capacità di sintetizzare in musica pulsioni eroiche e tragiche allo stesso tempo. D’altronde, il nazismo non era forse il grande tabù d’Europa? O forse solo un pretesto per sostituire un potere con un altro, detto democratico? Quesiti pericolosi da porre. Vecchie macerie e nuove servili ipocrisie. Fuoco e acciaio, sulle copertine dei dischi appaiono riferimenti funebri, monumentali rimandi alle gloriose vestigia militari di Prussia, scene cruente di guerra. Albin Julius da vessillifero del Ragnarǫk, da solitario granatiere nelle trincee della postmodernità, diventa una vera e propria fucina di armamenti sonori; dapprima allargando la compagine ad amici musicisti, trasformando Der Blutharsch in una band potenzialmente capace di suonare dal vivo, quindi gradualmente aggiustando il tiro verso soluzioni sempre più simili alla forma-canzone, sorta di rock sperimentale dalle tinte oscure. Se non smesso, quantomeno camuffato l’armamentario nazi, il gruppo sembra volersi emancipare dal cliché oltranzista e marziale per adottare una condotta più eclettica e disincantata, pur senza rinunciare all’afflato ribelle, alla lotta contro il Leviatano del nostro tempo: Time is thee enemy!, When did wonderland end? e The philosopher’s stone, in questo senso, restano dischi fondamentali, gli ultimi prima della svolta psichedelica, la quale esula dal nostro percorso.

Albius Julius

L’importanza di Albin Julius, morto il 5 maggio 2022 a 54 anni, del ruolo cardine riguardo le faccende fin qui trattate, non si limita alla sola produzione di musica come Der Blutharsch o sotto altre sigle collaterali, ma a conferma di uno spirito eclettico, movimentista, vulcanico, assume la rilevanza dell’agitatore culturale – una figura ormai scomparsa nel museo delle cere delle arti contemporanee – radicalmente alieno al conformismo spettacolare dell’intrattenimento globalizzato. Egli probabilmente avrebbe disprezzato la definizione, del resto forzata come ogni intellettualismo sovrastrutturale aggiustato per mettere qualcuno al suo posto; dotato di spirito e ironia, tutt’altro che misantropo, lontano dallo stereotipo del tetragono nazista utilizzato come maschera pour épater les bourgeois, avrebbe risposto con una gagliarda risata. Sul finire dei ‘90, Julius costituì l’etichetta discografica Hau Ruck!, subalterna di WKN, riservata alla produzione e diffusione di altre band in combutta fra loro, affini per spirito pur se eterogenee nelle forme espressive. Tali emissioni portavano come marchio uno stilizzato tamburino, silhouette mutuata con tutta evidenza dall’immaginario Hitler-Jugend. Rimarchevole la presenza a catalogo di Nový Svět, inclassificabile duo viennese, originale nella proposta di una musica dei bassifondi, caotica, folcloristica quanto macabra colonna sonora di bettola malavitosa o di cambusa piratesca, ubriaca nenia acustica squassata da rumorismi assortiti, quanto di più distante dallo stilema marziale divenuto nel frattempo maniera, stereotipo, genere. Il romanticismo zingaresco di Nový Svět, coi suoi speziati esotismi mediterranei – lo stravagante utilizzo dell’idioma spagnolo o italiano, assai curioso per un duo di lingua tedesca – si fa più o meno consapevolmente viatico per fruttuosi interscambi artistici tra nord e sud Europa; nello specifico sull’asse Vienna-Roma, in barba alle antiche ruggini risorgimentali, nacque un sodalizio destinato a chiudere il cerchio del Neofolk in un baccanale nichilista. Si rafforzarono affinità elettive artistiche, visionarie, utopiche, europeiste, in qualche modo comunitarie, attitudine pressoché inedita nel caratteristico egocentrismo moderno, soprattutto nell’individualismo alienante dei circuiti musicali. Tornarono di moda strumenti tradizionali come la fisarmonica, nonché desuete melodie risalenti ai primi del ‘900. Al Monastery, un club collocato in un binario morto della metropolitana della capitale austriaca, vennero organizzate due edizioni (2002 e 2004) assai partecipate dell’Hau-ruck Festival; vi suonarono i gruppi affiliati, anche italiani, in un’atmosfera che mescolava avanguardia, anarchia, iconoclastia del contemporaneo, romanticismo gotico, cabaret decadente, arditismo e cameratismo. Fra l’eterogeneo pubblico era viva la sensazione d’assistere a qualcosa di speciale e irripetibile, di tragico ed eccitante, quello fu un atto d’emancipazione dai padri putativi del Neofolk britannico. D’altronde che ne sapevano d’Europa gli anglosassoni contemporanei? Le antiche radici comuni erano recise da secoli. Il Neofolk europeo aveva raggiunto la maggiore età, un traguardo propizio per darsi volontariamente alla morte.

 

Gardone Riviera, 30 aprile 2005, pomeriggio assolato, nella piazzola antistante l’ingresso del Vittoriale capannelli di nerovestiti giunti da tutta Italia confabulano mestamente, aleggia delusione e l’aria è pesante; l’accesso alla prestigiosa dimora del Vate è sbarrato da un cordone di celere, camionette di Polizia e Carabinieri stanno appostate ai quattro cantoni, vengono chiesti i documenti ai convenuti. Complice un infamante articolo sul Corriere della Sera – intitolato “Al Vittoriale va in scena il rock-nazi” – l’evento intitolato Memento Audere Semper è annullato all’ultimo dalla prefettura, dopo che la Fondazione preposta aveva concesso l’utilizzo in affitto della sala dell’aeroplano. L’esibizione di Der Blutharsch, prevista nel programma, trovò poi asilo di fortuna in un ristorante nei paraggi, prendendo i connotati della clandestinità per un piccolo manipolo di arditi spettatori.

I tempi stavano cambiando, si inasprivano censure e divieti non tanto nei confronti di pericolosi gruppuscoli di estremisti, di paramilitari della destra radicale, quanto verso libere persone, tendenzialmente apolitiche, accomunate dalla passione per un genere musicale certamente anticonformista, provocatorio, oscuro, epperò avulso da palesi affiliazioni ideologiche. A quel tempo l’asse Roma-Vienna prese forma ufficialmente, grazie all’istituzione di S.P.Q.R., filiale italiana di Hau Ruck!: coerentemente il tamburino germanico impresso sui CD mutò d’abito, assumendo le fattezze di un giovane gladiatore stilizzato. L’esordio avvenne con la doppia compilazione Tutti a casa! (2003), tributo ai romani Ain Soph, storico ensemble pesantemente influenzato da Julius Evola (Kshatriya, 1988) e dal Gruppo di Ur, capace di spaziare dall’avanguardia industriale alla ritualistica della tradizione ermetica, dal cantautorato esistenzialista con influenze francesi all’invettiva antisovietica d’ascendenza celiniana, nello specifico il pamphlet Mea culpa. Presero parte all’avventura vecchie e nuove conoscenze del giro post-industriale, tra le quali spiccavano alcuni gruppi italiani con i loro tratti peculiari: il romanticismo maledetto di Spiritual Front, il combat-folk di Foresta di Ferro, l’eclettismo psycho-jazz di Mushroom’s Patience, l’etereo madrigale di Argine, il cabaret noir di Calle della Morte e Macelleria Mobile Di Mezzanotte, il retro-punk di Circus Joy, l’elettronica teutonica dei maestri Kirlian Camera, qui celati sotto la sigla Stalingrad; invero non manca qua e là l’apologia di fascismo, esplicitata nelle immagini presenti a libretto, dalla corale traccia Cuore Nero posta in chiusura e dalla partecipazione di Zeta Zero Alfa, band notoriamente affiliata a Casa Pound. Nello stesso anno ZZA e Der Blutharsch confezionarono un disco assieme, senza titolo, accompagnato da una maglia ad uso seguaci raffigurante i rispettivi loghi, sotto la scritta “Rose rosse – Ossa rotte”. Anche se all’epoca il centro sociale neofascista, battezzato col nome dell’autore dei Cantos, non era ancora attivo, quel dischetto in combutta contribuì ad incrementare il livello di scontro con le normative vigenti in materia di libertà d’espressione, nonché a ribadire la vocazione d’orgogliosa alterità dell’alleanza austro-italiana. Eppure, nonostante la deriva truce e la piega da teppaglia, le licenziosità goliardiche e quella sorta di fascinazione pasoliniana per la vita di strada, la scena Neofolk rimase, fino all’ultimo, assestata nella sua torre d’avorio, in un limbo atemporale, probabilmente anche autoreferenziale, quale espressione di un cenacolo riservato a spiriti affini, indifferente alle vicende della contemporaneità, a maggior ragione alla politica.

Cos’è rimasto oggi di tutto quel fermento, di quel ribollire sotterraneo? Di quella sorta di “militanza” anticonformista? Ben poco, invero resta qualche casa discografica indipendente (Old Europa Cafe, SPQR, Cold Spring), rare persistenze italiane (Roma Amor, L’amara, Il ballo delle castagne) o forse a trarre le somme è solo la nostalgia della perduta gioventù; le band storiche sopravvissute vivacchiano reiterando il glorioso repertorio con esiti alterni, ignorandosi l’un l’altra, immemori delle antiche alleanze. Di certo, per chi ha vissuto avventurosamente gli anni ‘90 fra dischi e concerti semi-clandestini divulgati attraverso passaparola o missive cartacee, l’avvento dei social-network non ha certamente contribuito a ravvivare interesse: l’appiattimento fagocitante dei nuovi media ha prodotto una banalizzazione impietosa di tutte le istanze alternative, talvolta addirittura rendendo ridicolo, miserevole, patetico, ciò che fino a qualche anno prima emanava fascino esclusivo e mistero. Chi è venuto dopo s’è arrangiato, pigliando la via intimista o azzardando un’improbabile svolta pop. Se dunque, per varie ragioni, è venuta a mancare la spinta propulsiva facendo implodere il circuito, si può ben dire che del Neofolk, all’oggi, non restano che sparute propaggini e qualche scheggia impazzita in grado di fare codice a sé. Tra queste emerge con una certa imponenza il nome di IANVA, la più autarchica delle compagini italiane, già a partire dal nome ripreso dal latino, e dal simbolo, un’antica moneta genovese. Esordienti ufficialmente nel 2005 con l’E.P. La ballata dell’ardito, si distinguono per una proposta musicale inedita, raffinata, retrò senza risultare mai passatista, equidistante sia dal folk apocalittico e dalle sue terminali derive “borgatare”, che dal cosiddetto rock alternativo (a che, poi?). D’altronde i componenti, tutt’altro che alle prime armi, provenienti da eterogenee esperienze musicali precedenti, garantiscono la solidità necessaria per osare l’originalità in un contesto artistico per lo più appiattito, collassato seppellito tumefatto putrefatto, in pose ruffiane e luoghi comuni. Dapprima IANVA riprende con intuito geniale la vecchia ferraglia risorgimentale, obliata da chiunque, a maggior ragione dall’attuale corporazione artistica votata ad uno sradicato nichilismo, per poi approfondire tematiche patriottiche legate alla Prima Guerra Mondiale, all’impresa di Fiume e quindi di riflesso al poeta-comandante Gabriele D’Annunzio, omaggiato nel meraviglioso disco Disobbedisco! 1918 – 1920: atmosferico ritratto di un’epopea affascinante quanto febbrilmente contraddittoria; musica e testi riescono ad evocare gli spiriti inquieti aleggianti all’epoca, quel miscuglio di arditezza, eccitazione dionisiaca, sensualità decadente al crocevia tra caserma e bordello, tra vizi e pugnali, muse avvolte in piume di struzzo, avventurieri, oppio, esoteriche stravaganze e vitalismo nazionalista. Il perfetto connubio di liriche auliche (in sostanza un italiano eccelso, sublimato in vocazione poetica) e umori mediterranei, pregnanza di parola e teatralità sonora, la qualità elevata dell’albo – estetica e contenutistica – fanno di Disobbedisco! un caso degno di trasversali attenzioni e diffusa ammirazione. Ma IANVA non si accontenta della rendita di posizione, del credito riscosso presso la sonnolenta stampa specializzata e di un pubblico fedele, sempre più ampio, bensì affonda il colpo nel ventre molle delle democratiche vergogne italiche con filologico scrupolo e appassionato struggimento, facendo ovviamente scandalo in un panorama come quello italiano infarcito di insulsi stereotipi e banalità assortite. Due anni dopo vede la luce il coraggioso Italia: Ultimo atto, disco di amarissima bellezza, dolente eppure fiero, a tratti spietato j’accuse sbattuto in faccia alla narrazione retorica del dopoguerra; il brano dedicato a Luisa Ferida, ad esempio, è in grado di squassare anche le coscienze più pigre, facendosi manifesto dell’intera poetica di IANVA. Trapela dietro un’aristocratica, minoritaria, intransigenza, la nostalgia per la Bellezza perduta dal mondo, indignazione per lo scempio perpetrato ai danni di ogni senso della misura, ribellione al fatalismo omologante, alla complice indolenza, all’indifferenza anonima di un popolo fattosi utenza, o peggio imbelle clientela. Seguiranno il distopico, quasi filmico albo La mano di Gloria (2012), invero musicalmente sacrificato alla grande saga ucronica, quindi nel 2017 un possente atto d’amore nei confronti del vecchio continente: Canone Europeo, affresco inaugurato e chiuso da riferimenti alla Grecia, a quella antica, civiltà fondativa di forza e bellezza, e a quella contemporanea, piegata dalle umilianti disposizioni economico-burocratiche della tecnocrazia imperante; nel mezzo, con particolare enfasi novecentesca, si srotolano arazzi e garriscono vessilli raffiguranti le ultime suggestioni estetizzanti, gli ultimi sussulti vitali e maledetti dello spirito europeo prima della fine. Romanticismo epico, tromba morriconiana, percussioni da battaglia, Enrico Ruggeri tra gli ospiti, ma soprattutto l’alta letteratura di Mercy e la passionaria voce di Stefania T. D’Alterio, confermano che tra le rovine del Neofolk si aggira ancora qualcuno in grado di cantare una nuova rivolta contro il mondo moderno:

“Chi sono Picasso e Apollinaire?
Forse bohémiens, Futuristi o imbrattatele?
Sarà che qui giornali non ne leggo,
Ma chi li ha mai sentiti nominare?
Qualcuno sta cercando di incastrarli,
Ma a loro pare quasi non dispiaccia,
La gente che s’accalca per vederli:
Tanto basta per metterci la faccia.

Vi dirò:
Lei sorride solo a me,
E tout le monde va chiedendosi dov’è
E chi sarà
Quel Fantomas, quel Rocambole,
Forse il Lupin, insomma il folle genio che fa bestemmiare la Sûreté.
Très bien, c’est moi: un tinteggiatore.
Un italien, mon Dieu quale orrore!
E già mi immagino la delusione vedessero in faccia il cafone che ha preso il grisbì.

Io sono le Rital
Con la R di un esercito di rane,
Il pezzente che ti porta via il lavoro
E le tue figlie mette a fare le puttane.
Per loro resto sempre le Rital
Il tagliaborse con la pelle troppo scura
E i miei compagni tutti rossi o anarchistes
Son stati i primi a procurarmi vita dura!

Tutto ciò,
Lo so, non ci risarcirà
Ed il maltolto semmai col tempo crescerà.
Ma resta che,
Sul far dell’alba in quel del Louvre,
Questa canaille ha colto l’attimo ideale per lo schiaffo originale,
E ho scelto Lei: il vanto dei vanti d’un gran bottino di ladri arroganti
In più avanzanti diritti imperiali, non bastando formaggi e maiali alla loro Grandeur.

Io sono le Rital
E ho preso Monna Lisa come ostaggio
E’ chiusa qui in valigia, sotto il letto,
Sorride ancora mentre si prepara al viaggio.
E ve ne restan tanti di Rital
Dentro al Louvre fino a farlo straripare
Ma voi che noi imbianchini deridete
Tenete a mente che sorprese si sa fare!

C’est moi!”

(Le Rital)

 

*Articolo tratto dalla rivista Arthos

Donato Novellini*

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