Giornale di bordo. Ratzinger e l’assedio liberal contro la Chiesa di Roma

Benedetto XVI, sotto attacco, non era un combattente, ma un mite teologo; non era un attore, ma un timido professore; non era un uomo di spada, ma di penna

Papa Benedetto XVI

Benedetto XVI

Belli, a tratti addirittura lirici, i pensieri sparsi di Marcello Veneziani su papa Ratzinger. Aggiungerei qualcosa di meno filosofico, ma più storico-politico. Scusate se mi capiterà di semplificare, ma si tratta soprattutto di ipotesi di lavoro.

Al mondo protestante che fa capo agli Stati Uniti la Chiesa romana era servita dopo l’ultimo conflitto mondiale come braccio morale dell’Occidente contro il comunismo, in Europa e in America Latina. Dopo il Concilio, sotto il pontificato di Paolo VI la situazione era parsa andare fuori controllo, con la diffusione della teologia della liberazione nel subcontinente americano, che indusse la Cia a finanziare sette protestanti in un’area tradizionalmente cattolica, l’involuzione dell’ordine dei Gesuiti (ricordo quando padre Bartolomeo Sorge veniva soprannominato Bartolomao Sorge), la Ostpolitik di Casaroli & C. 

Con l’avvento di Giovanni Paolo II la situazione si ribaltò e la Chiesa cattolica, arginate le derive post-conciliari, tornò a essere, come e forse più che sotto il pontificato di Pio XII, l’“arma più forte” contro il marxismo, non solo nell’Europa dell’Est, ma anche in America Latina, con la scomunica della teologia della liberazione, esplosivo miscuglio di peronismo di sinistra e di marxismo. Questo indusse gli Stati Uniti e in generale il mondo protestante (devo necessariamente schematizzare) a perdonarle molte piaghe, come la piaga della pedofilia – all’epoca riprovevolmente sottaciuta, oggi strumentalmente enfatizzata – e una certa finanza allegra. 

Negli anni Novanta l’utilità della Chiesa cattolica parve venir meno, visto che l’Occidente credeva di aver vinto la sua sacrosanta guerra contro il comunismo. In realtà, se la minaccia sovietica si era esaurita con la dissoluzione dell’ex Urss, gli Stati Uniti stavano perdendo il controllo dell’America Latina ed emergeva la minaccia del fondamentalismo islamico, stupidamente trascurata da Clinton, che dalla Sala Ovale (od Orale, come si sussurrava a quei tempi) fece un’assurda guerra alla Serbia ortodossa a sostegno del Kosovo musulmano, due anni prima delle Torri Gemelle. Ma papa Wojtyla era un gigante e il mondo anglosassone e protestante non si poteva permettere il lusso di attaccare la Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, che aveva combattuto il comunismo non per fare un piacere a Washington, ma in nome della fede e per amore della sua Polonia, non aveva tardato a capire che altro è la libertà, altro il liberismo selvaggio e il libertinismo di Stato che stavano dilagando in Occidente. Ma le sue parole rimanevano senza seguito.

La situazione mutò dopo la morte di Giovanni Paolo II. Il mondo liberal e radical che dominava e domina tuttora i media statunitensi e anche europei condusse contro papa Ratzinger una guerra spietata e subdola; lo scandalo della pedofilia emerse, amplificato spesso dall’avidità di famiglie e avvocati che spesso utilizzarono calunnie per strappare risarcimenti milionari sino a portare sull’orlo del fallimento qualche diocesi; vergognose insinuazioni vennero fatte circolare contro papa Ratzinger e soprattutto contro suo fratello, nonostante che Benedetto XVI fosse stato il primo ad affrontare seriamente il problema. Si equivocò su tutto, dalle virgolette del discorso di Ratisbona alla fedeltà del pontefice alla tradizione anche nel vestire (l’ineffabile Scalfari lo definì “un papa lezioso”). Gli attacchi a Ratzinger furono in realtà uno degli aspetti di un più vasto attacco a quei “valori non negoziabili” di cui il suo pontificato era rimasto l’ultimo garante.

Nel frattempo anche all’interno della Chiesa cattolica maturava la vendetta dei circoli modernisti e cattocomunisti contro l’ex prefetto della Dottrina della Fede che aveva scomunicato la teologia della liberazione. Occorre aggiungere che a peggiorare la situazione concorsero anche l’impoliticità e l’ingratitudine di quegli ambienti post-lefebvriani che, con la bontà d’animo e l’intima onestà che lo contraddistingueva, papa Ratzinger aveva cercato di recuperare, lanciando un primo segnale con la lettera pastorale Summorum Pontificum, con cui liberalizzava la celebrazione della Messa tridentina. Le dichiarazioni sull’Olocausto del vescovo Williamson, ordinato da Lefebvre, interruppero bruscamente i tentativi di sanare uno scisma che aveva fatto e continuava a fare male alla Chiesa. Ma qui si dovrebbe aprire un dibattito molto più ampio sul fatto che i movimenti e gli ambienti emarginati finiscono per attirare e a volte per creare dei marginali, un dibattito che non attiene solo alla sfera religiosa.

Ben presto papa Ratzinger si rese conto non solo di subire dall’esterno un assedio senza precedenti, ma di doversi guardare le spalle anche all’interno dei Sacri Palazzi, come dimostrò l’episodio del suo maggiordomo infedele. Per tacere – onde evitare l’accusa di complottismo – dell’improvviso essiccarsi dei bancomat in Vaticano, tornati miracolosamente a funzionare dopo le sue dimissioni. Erano del resto gli anni dei due mandati di Obama, il Premio Nobel per la pace che avrebbe destabilizzato il mondo con il sostegno alle rivoluzioni arancioni e alle rivolte arabe, nonché della diffusione (o imposizione) della neolingua gender, con l’introduzione di un nuovo modo prima di parlare, poi di pensare, infine di essere.

Giovanni Paolo II, probabilmente, avrebbe tratto da questa offensiva le energie per affermare con maggior vigore le proprie convinzioni, lui che non aveva avuto paura delle pallottole bulgaro-ottomane. Disgraziatamente  Ratzinger non era un combattente, ma un mite teologo; non era un attore, ma un timido professore; non era un uomo di spada, ma di penna. Anche per questo, quell’infelice 11 febbraio 2013, palesò la sua scelta, con un testo in latino con due errori di grammatica così marchiani da indurre a pensare che a scriverlo sia stato qualcun altro al posto suo. 

Non spetta certo a me, indegno concittadino di Dante, giudicare se le sue dimissioni siano state rassegnate “per viltate” o per senso di responsabilità (del resto, secondo alcuni commentatori della Commedia, l’Alighieri parlando del “gran rifiuto” poteva riferirsi a Pilato, non a Pietro da Morrone). Resta comunque un fatto: dopo Celestino V ai nostri antenati toccò un Bonifacio VIII, a noi è toccato un Francesco. Lascio al lettore decidere chi sia stato meno fortunato.

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Enrico Nistri

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