Teatro. “Taddrarite” e il canto di genere delle prefiche di Luana Rondinelli

In scena al Teatro Massimo di Siracusa, l’opera di Luana Rondinelli conferma la sua attualità. Ottima Donatella Finocchiaro

 

Ci sono prefiche e prefiche. Ci sono le prefiche del mondo classico: capelli lunghi, volto graffiato queste lugubri donne, arpie dei funerali, intonavano lamenti a pagamento. Note in Egitto e in Grecia, vengono espulse dalla romana Legge delle XII Tavole, ma rientrano nelle cerimonie funebri della tradizione popolare. In Sicilia, pagine memorabili di Dacia Maraini in “Marianna Ucria” le rappresentano ai piedi del catafalco aristocratico, nella Puglia salentina le chiangimuerti erano il coro doloroso che rinverdiva la lamentazione greca nel buio del lutto. Pier Paolo Pasolini scrisse negli anni ’60 la sceneggiatura di “Stendalì”, un cortometraggio sui canti delle rèpute (questa la denominazione moderna) declinato da par suo in forma estetica e morale. Lo stesso Pasolini definì la sceneggiatura “forte, dura, tetra, benchè continuamente allegra e spiritosa…una vera e propria storia articolata e drammatica; e quindi, benchè sepolta in fondo alle anime, una crisi morale”.

Lo stesso accade in “Taddrarite” di Luana Rondinelli.  Lo spettacolo di cui Rondinelli è regista e drammaturga, tratto da un suo omonimo libro del 2015, è sui palcoscenici dal 2013, vincitore del premio Fringe, adesso ha ripreso la tournee che l’ha portato al Teatro Massimo di Siracusa. In scena oltre alla Rondinelli (Rosa), Giovanna Mangiù (Maria) e una formidabile Donatella Finocchiaro, nei panni di una carnale, dolente e sarcastica Franca, c’è la bara del marito di Maria, intorno alla quale tre sedie su cui siedono le tre sorelle a piangere il morto e a provare a recitare il rosario. Prefiche, dunque, in gramaglie più o meno rituali come più o meno rituali sono le loro nenie. O meglio, più che nenie dalla bocca delle tre sorelle escono parole; spietate, accorate, disperate, sollevate. Mai consolatorie. Perché sull’assenza di pietas si regge lo spettacolo. Cinquanta minuti in cui lo spettatore viene spintonato da tre storie di violenza e sopraffazione, di emarginazione e prigionia. Storie di donne che sono state picchiate, umiliate, tradite, annullate dai loro mariti cui hanno reagito ognuno a suo modo: sopportando una fino alla morte di lui, scappando l’altra da lui, provocando la terza la morte di lui. Una sorta di sovratesto costruito a climax in cui la reazione si impenna fino all’ineluttabile unica via di fuga. Taddrarita in siciliano significa pipistrello: tre pipistrelli vissuti al buio della verità, nascoste nella notte dei giudizi degli altri, addormentate sotto le ali della paura. Creature che Rondinelli staglia crudamente dallo spaccato ambientale della Sicilia, una sorta di meridione delle coscienze, amplificato dall’uso del dialetto nella sua forma più lacerata ed espressionista.

 

 

Per capire il senso profondo di questo testo magmatico, tutto giocato sull’alternarsi dei registri (comico, lirico, drammatico) e sull’andirivieni dei ricordi che frantumano la veglia al morto, sulle lame di luce che saettano la scena , bisogna andare alle parole di Gesualdo Bufalino e al suo “La luce e il lutto”.  Nella essenzialità della scena si proietta quella che lo scrittore chiama “sopercheria del morire” ovvero la traduzione della morte come ambivalenza di luce e lutto. La luce è il riso che accompagna già nei riti ancestrali la morte: in “Taddrarite” la luce è la risata piena, vendicativa e talvolta sguaiata delle tre sorelle, tre fimmini che finalmente possono godere della libertà che la morte ha donato. Ognuna di loro è la pala di un trittico che oggi diremmo antisessista, se non fosse che la bellezza dello spettacolo stenta a stare dentro un’etichetta che non sia quella del teatro di impegno civile. Impegno che non ha bisogno né di nostalgie in bianco e nero, né di revisionismo pseudoculturale, ma di parole che arrivano dritte al cuore con tutto il loro carico di libertà e di rivincita.

Di questo si fanno carico le tre protagoniste, capaci di tatuare sul loro corpo in scena la violenza di migliaia di donne che nel tempo hanno piegato il loro corpo al teatrino di amori eufemisticamente malintesi. Capaci di rendere la coralità del romanzo, tanto che lo spettatore non vede solo loro tre ma anche tutte le comparse scomparse dal palco ma che ingombrano con la loro spietatezza (gli uomini), con le loro necessità (i figli), con la loro curiosità (la gente) la finzione e la realtà. E’ Donatella Finocchiaro a dominare la scena con un’interpretazione tridimensionale, come le vite del suo impertinente personaggio.

In “Taddrarite” si ride e molto. L’umorismo nero delle battute, i balletti accennati dalle tre sorelle, sono il segno di una nuova ritualità, una cerimonia di rinascita. Al morto al cimitero una foto sfocata, all’ultima delle sorelle a essere liberata una promesssa “a nasciri n’avutra vota c’è sempi tempo”. Che è come dire c’è ancora domani, ma con meno retorica.

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Daniela Sessa

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