Il gramscismo di destra e la l’irrisolta questione dell’egemonia culturale

Come spiegò Fausto Gianfranceschi, nei Quaderni l'intellettuale sardo aveva teorizzato "un bottaismo di sinistra"

Gramscismo a destra?

L’iniziativa del ministro Sangiuliano di promuovere l’apposizione di una targa commemorativa di Antonio Gramsci davanti alla clinica Quisisana, dove il pensatore comunista morì il 27 aprile 1937, è apprezzabile per almeno due motivi. Il primo, più banale, è di ricordare implicitamente che il fascismo (molto probabilmente Mussolini in persona) non fece morire Gramsci in carcere, come vedo ancora oggi scrivere, ma ne autorizzò il ricovero in una lussuosa clinica romana, di cui pagò per due anni le rette tramite la Banca Commerciale di Raffaele Mattioli. Si trattò, ovviamente, di una modesta riparazione alla vergogna dell’arresto illegale di un deputato e dell’indebita detenzione di un oppositore, ma c’è da chiedersi se, qualora si fosse trovato in Russia e fosse caduto in una delle tante purghe staliniane, Gramsci avrebbe potuto godere dello stesso trattamento. Abbiamo i Quaderni dal carcere; difficilmente avremmo avuto i Quaderni dal gulag. Sono anche dettagli come questo a distinguere un regime dittatoriale e autoritario da totalitarismi come quello nazionalsocialista o sovietico. Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio comunque la lettura dell’esaustivo volume dell’ex segretario di Togliatti Massimo Caprara, Gramsci e i suoi carcerieri (Ares). Un libro che data 2001, ma non è affatto “datato”.

L’altro merito è di avere riportato all’attenzione, intenzionalmente o meno il tema del cosiddetto “gramscismo di destra”. Un orientamento, che, al di là degli equivoci sorti sull’argomento, ebbe il merito “appena” (ahimè) quarantacinque anni fa di portare all’attenzione del mondo della destra, soprattutto giovanile, il tema dell’egemonia culturale come premessa per la conquista dell’egemonia politica. Forse c’era nel gruppo di ventenni che sollevarono la questione, di cui anch’io per un certo periodo feci parte, un sottile errore. Come molti anni dopo ebbe modo di rilevare Fausto Gianfranceschi, storico caposervizio della terza pagina del “Tempo”, se noi ipotizzavamo un gramscismo di destra, Gramsci nei “Quaderni” aveva teorizzato, senza esplicitarlo, un “bottaismo di sinistra”. L’intellettuale comunista, che nella sua camera nella clinica Quisisana e prima nella sua cella singola in carcere aveva libero accesso a giornali, libri, riviste, si era reso conto della capacità che Giuseppe Bottai stava dimostrando come evocatore e valorizzatore di intelligenze, come direttore di “Critica fascista” e come ministro dell’Educazione Nazionale, dicastero che comprendeva anche le competenze dell’odierno ministero della Cultura. Il “fascista critico”, segnato da un indelebile odio-amore per Mussolini, aveva raccolto intorno a sé alcune fra le più vivide intelligenze italiane dell’epoca. Personalmente, non nutro molta simpatia per le idee di Bottai e non mi ha mai entusiasmato la sua Carta della scuola, in cui voleva imporre il lavoro manuale in tutti gli ordini di studi. Devo ammettere però che egli fu una straordinario evocatore di intelligenze e scopritore di talenti. Fra le persone che, grazie alle sue scelte, salirono a una cattedra universitaria o di Conservatorio, divennero provveditori agli Studi o ispettori centrali del Ministero, ci sono futuri premi Nobel (Salvatore Quasimodo) o poeti che il Nobel l’avrebbero meritato (Giuseppe Ungaretti), scrittori come Giuseppe Dessì e Piero Bargellini, fini critici letterari e protagonisti della stagione vociana come Giuseppe De Robertis. Per tacere di Giulio Carlo Argan, futuro sindaco comunista di Roma e autore di un manuale di storia dell’arte su cui si sono formate generazioni di liceali, che  ottenne da lui incarichi di primo piano nel suo ministero, anche nell’ambito della tutela del patrimonio artistico. Non per nulla nel 1995 l’allora sindaco di Roma Rutelli avrebbe voluto intitolare a Bottai una strada e non lo fece solo per le proteste della comunità ebraica, memore del suo sostegno alle leggi razziali. Erano tempi di diversa civiltà, in cui a destra come a sinistra ci si preoccupava di ricomporre la storia italiana: tutto il contrario di oggi, in cui invece che sui problemi reali ci si fa la guerra sui… saluti romani. Di tutto questo, noi ventenni degli anni Settanta sapevamo relativamente poco, perché, ultima generazione francofona, conoscevamo meglio il “romanticismo fascista” dei vari Drieu e Brasillach, attraverso un fortunato saggio di Paul Sérant tradotto in Italia dalle Edizioni del Borghese, che la politica culturale del regime.

Certo, Bottai non fu l’unico protagonista del Ventennio capace di valorizzare intelligenze: basti pensare a Giovanni Gentile o, nell’ambito storiografico, a Gioacchino Volpe. La battuta dei primi anni Venti secondo cui il fritto misto di fascista si fa con molto fegato e poco cervello vale solo in parte e anche un quadrumviro considerato – in parte a ragione – poco duttile come De Vecchi sostenne Argan nei primi passi della sua carriera. Più in generale, il regime svolse un’abile opera di cooptazione (o, se si preferisce, di corruzione) degli intellettuali, mediante sussidi ad personam (ne pubblicai nel 1995 l’elenco nel mio Anni Trenta, oggi fuori commercio), incarichi, premi letterari, collaborazioni ben retribuite. L’“amichettismo” esisteva anche allora, solo che magari era più tollerante con chi raccontava barzellette al caffè Aragno: oggi rischi di bruciarti con un tweet. Qualcuno forse ricorderà, nella Governante di Vitaliano Brancati, le lamentele dello scrittore Alessandro Bonivaglia perché in democrazia i suoi articoli erano pagati meno che nel deprecato Ventennio. Per non parlare dell’influenza esercitata dal regime sui giovani, soprattutto universitari, tramite riviste come “Il Bo” o il “Campano”, su cui compì i primi passi il futuro segretario del Pci Natta insieme al futuro senatore del Msi Valerio De Sanctis, e persino attraverso i Cineguf. Un regista e documentarista di un certo livello come Carlo Lizzani, poco prima di morire, ammise che il regime aveva fornito ai giovani appassionati di cinematografia strumenti oggi impensabili per sviluppare i loro talenti. Certo, si trattò di un consenso effimero, anche se sarebbe interessante capire quale sarebbe stata l’evoluzione di molti giovani passati nel volgere di pochi anni dai Littoriali alle Frattocchie se la guerra avesse conosciuto un esito diverso.

Ad ogni modo, Gramsci aveva capito come il fascismo stesse costruendo la sua egemonia culturale e, attraverso i suoi Quaderni (dal Carcere e anche dalla clinica), fornì al Pci lo strumento per prenderne il posto, prima nelle cattedre universitarie – emblematico il passaggio dal gentilianesimo al crocianesimo  e poi al gramscismo di un grande storico della filosofia come Eugenio Garin, – poi nelle redazioni dei giornali, nella scuola, sui palcoscenici, sui set cinematografici, nella  Tv post Bernabei e nella stessa cultura popolare, dai fumetti alla musica leggera. Trasformatosi l’ex Pci in un partito radicale di massa, secondo la profezia di Augusto Del Noce, l’egemonia culturale è divenuta ancora più pervasiva, resettando l’ortografia e il vocabolario come nemmeno il fascismo era riuscito a fare, entrando all’interno delle case, nelle dinamiche familiari, nelle stesse abitudini alimentari, imponendoci tendenziosi neologismi o alterando il significato di vocaboli vecchi di secoli.

Quando Alleanza Nazionale entrò al governo, furono in molti a sperare in un’inversione di rotta: sarebbe impietoso ricordare come tali aspettative siano andate deluse. La precoce scomparsa di Marzio Tremaglia, assessore alla Cultura della Regione Lombardia e ministro della Cultura in pectore, non ha certo giovato. Marzio era una delle pochi esponenti di destra capaci di coniugare finezza di tratto, intransigenza sui principi, larghezza di prospettive. Al suo posto, la guida del ministero sarebbe andata a personaggi della levatura di Sandro Bondi, l’ex sindaco comunista di Fivizzano che aveva dedicato poesie a Silvio Berlusconi, prima di tradirlo per Matteo Renzi, e che nominò ai vertici dei Beni Culturali l’ex amministratore delegato di McDonald’s.

Oggi, qualcosa sembra cambiato e le opportunità potrebbero essere immense. È doveroso però ricordare che un bravo attore, un talentuoso regista, un romanziere di buon livello, un serio ricercatore storico e anche un buon professore di scuola non si inventano dall’oggi al domani, né si può pretendere di cambiare la narrazione se, come è stato giustamente osservato, mancano i narratori. Ma questo non può costituire un alibi per chi condivide responsabilità di governo, a tutti i livelli. Si tratti di gramscismo di destra o di bottaismo senza camicia nera, è comunque il momento di fare qualcosa.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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