Destre. La lungimiranza di Michelini e il radicalismo di Almirante

"A sedici anni, da poco iscritto alla Giovane Italia, scappai di casa per partecipare ai funerali dello storico segretario toscano del Msi, in cui mi fu data da reggere la corona dell’Ambasciata di Madrid"

La tribuna politica con Arturo Michelini

Ho letto con molto interesse l’articolo su Arturo Michelini di Michel Laudrup. Articolo che ha evocato in me lontani ricordi, perché a sedici anni, da poco iscritto alla Giovane Italia, scappai di casa per partecipare ai funerali dello storico segretario del Msi, in cui mi fu data da reggere la corona dell’Ambasciata di Madrid (Michelini era stato volontario nella guerra civile spagnola).

Sono cresciuto politicamente nel clima del vecchio Msi almirantiano, pur facendo la fronda, come tanti giovani, con i “rautiani”, e leggendo con interesse i fascicoli del vecchio mensile “L’Italiano” di Romualdi, colto e dimenticato vicesegretario del partito. Con il senno del poi, però, debbo riconoscere che Michelini aveva un’intelligenza politica molto superiore a quella di Almirante, anche se non ne condivideva le capacità oratorie né la cultura: era un semplice ragioniere, mentre il suo storico avversario era un brillante giornalista ed era laureato in Lettere e abilitato all’insegnamento (per arrotondare l’onorario di parlamentare – altri tempi! – insegnava in una scuola privata di Roma). Però Michelini non disprezzava la cultura e sapeva coltivare gli uomini di cultura e di spettacolo, patrocinando premi letterari, riviste, convegni, spettacoli teatrali con una larghezza oggi impensabile.

Il fatto è che Michelini, pur avendo aderito idealmente alla Rsi, trovandosi a Roma e non al Nord non ne aveva assimilato la deriva psicologica e non ne aveva condiviso la mistica della sconfitta e il radicalismo socialisteggiante e socializzatore. Aveva compreso che il fascismo era stato forte quando aveva interpretato esigenze, preoccupazioni, ideali di una piccola e media borghesia minacciata di proletarizzazione, mentre era stato perdente quando aveva strizzato l’occhio, come nel 1919 e nel ’43, al populismo (durante la Rsi ovviamente pesavano altri fattori, ma anche quello influì).

In più, merito non da poco per un politico di razza, aveva il senso del potere. Un vecchio amico che è stato anche fra i protagonisti della svolta di Fiuggi mi raccontava che quando Michelini si recava dal presidente della Confindustria per chiedere finanziamenti (all’epoca leciti) si presentava con un accendisigari d’oro massiccio che posava ostentatamente sulla scrivania: era un modo un po’ kitsch per fargli capire che non era un pezzente e non poteva liquidarlo con quattro soldi. Mi raccontava pure che quando si recava in visita in una provincia il Prefetto si precipitava a ossequiarlo, perché era il segretario del quarto partito italiano (quando, nel 2003, Mirko Tremaglia, ministro degli Italiani all’Estero, venne in visita a Firenze, l’allora prefetto Serra non si presentò a riceverlo alla stazione, ma delegò una sottoprefetta, scelta che all’interessato fece piacere, visto che si trattava di una bella donna, ma denotava scarso rispetto). Certo, erano altri tempi, e nella burocrazia statale era largamente rappresentata una percentuale di alti funzionari cresciuti nell’epoca scelbiana o fascista, ma comunque erano cose che contavano.

A quindici anni dal 25 aprile Michelini riuscì a far entrare il Msi nell’area di governo, con Tambroni; purtroppo le cose andarono male, un po’ perché lo stesso Tambroni, che paradossalmente era un uomo della sinistra Dc, fu silurato dai suoi stessi compagni di partito, un po’ perché cadde nella trappola di non accettare il trasferimento del congresso missino dal centro di Genova a Nervi, che è pur sempre comune di Genova; e certi errori si scontano.

Quando Almirante,  storico avversario di colui che aveva spesso polemicamente dipinto come “l’ascaro fedele della Dc”, ne prese il posto a causa della sua precoce scomparsa, ne ereditò non solo la scrivania, ma la politica. Lui che era stato il leader della sinistra sociale fu portato dalle circostanze a fondare la Destra Nazionale, con cui ottenne un lusinghiero successo alle amministrative del 1971 e un altro, inferiore alle aspettative, alle politiche del 1972. Forse, giocando meglio le sue carte, sarebbe potuto entrare comunque  nell’area di governo o almeno di sottogoverno; invece, come spaventato dalla prospettiva di avvicinarsi a quella cosa laida che riteneva il potere, commise uno dei maggiori errori della sua vita, tenendo nel cinema teatro Apollo di Firenze (ex Rex: il cambiamento di nome era avvenuto già sotto la Rsi), un discorso bellicoso in cui prometteva che i giovani del Msi erano pronti allo scontro frontale (o fisico: non si è mai capito bene) con gli estremisti di sinistra. Lo scontro vi fu, ma per ovvii motivi di disparità di forze a rimetterci fummo noi, che non ci potemmo nemmeno lamentare. E dire che la Destra nazionale era un’iniziativa politicamente valida e che fra le file del Msi-Dn c’erano eroi di guerra e alti ufficiali che avevano combattuto nel Regio Esercito dopo l’8 settembre e partigiani monarchici (del resto Michelini aveva cercato un’alleanza con la formazione politica del maresciallo d’Italia Messe, volta a raggruppare reduci di entrambi gli schieramenti, superando gli odi della guerra civile).

I nodi vennero al pettine nel volgere di pochi anni e la scissione di Democrazia Nazionale, non infondata nei contenuti, ma infelice nei tempi e nei modi, ne fu una conseguenza. Il partito si “rimissinizzò”, ma debbo riconoscere che in quel partito emarginato e assediato Almirante diede il meglio di sé. Non so quanti sarebbero stati capaci di reggere costretti a dividere le proprie giornate fra il funerale di un militante e un’accusa infondata. Tanti anni fa Donna Assunta, durante un viaggio in auto da Bari a Roma, mi confessò che quando alcuni amici chiedevano a lei e al marito di fare entrare i loro figli nel Msi li scongiurava di non farlo: non potei che darle ragione.

Quando nei primi anni Ottanta il clima cambiò, e Craxi, nell’ambito di un più vasto disegno di “socialismo tricolore”, fece alcune significative aperture al Msi, Almirante ne fu quasi spaventato: reagì col discorso del teatro Lirico, a Milano, in cui – sotto l’impulso delle memorie mussoliniane – tessé un romantico elogio della Repubblica Sociale. Era un modo per marcare le distanze dal Psi e anche per evitare che i militanti del suo partito fossero “traviati” dall’ingresso nell’area di sottogoverno: preoccupazione non infondata vista la fine ingloriosa della Seconda Repubblica, ma ingenerosa nei confronti dello statista che aveva osato sfidare il dogma dell’arco costituzionale. Sono convinto però che, se Michelini fosse stato ancora vivo, avrebbe reagito in modo molto diverso, così come se, per assurdo, si fosse trovato al posto di Fini alla guida di Alleanza Nazionale, una volta al governo non si sarebbe accontentato di qualche briciola e si sarebbe fatto rispettare, senza però strizzare l’occhio a sinistra. Dietro quegli occhiali da sole che, come mi confidò poco prima di morire Gaetano Rasi, portava per nascondere nei dibattiti televisivi una lieve forma di strabismo, si nascondeva uno sguardo capace di guardare molto più lontano del suo storico avversario.

Enrico Nistri

p.s. Una precisazione finale: se ricordo con indulgenza le mie esperienze giovanili, penso che la nascita di un partito neofascista si sia rivelata negativa per la storia italiana. Il fascismo non fu un’ideologia, ma, appunto, un “fascio” di diversi orientamenti e dopo la buriana del 25 aprile quanti vi avevano aderito sarebbero potuti entrare nei partiti democratici, dalla Dc al Psi, passando per il Pli, portandovi le loro esperienze e idealità e magari rivendicandovi un maggior rispetto per una parte della nostra storia. L’assenza di un neofascismo avrebbe impedito il proliferare di un neoantifascismo che ancora oggi inquina il dibattito politico. Fondare un partito per difendere una opzione difficile e opinabile come quella di collaborare con i tedeschi dopo l’Otto Settembre non contribuì purtroppo alla riconciliazione nazionale. Il nostalgismo costituì una rendita di posizione per una classe politica che sfruttando una piccola rendita elettorale si perpetuò sino alle soglie degli anni Novanta, ma anche una trappola per molti giovani che incapparono in persecuzioni e discriminazioni, mentre sarebbero potuti entrare nei quadri dirigenziali dello Stato o nel mondo accademico (un esempio fra tutti: Borsellino rischiò di non essere accettato in Magistratura perché iscritto al Fuan Fanalino di Palermo e coinvolto in una rissa). Quanti, a differenza di lui, ebbero la carriera bruciata?

Né la storia né la politica, però, si fanno con i se e con i ma. Resta il fatto che Michelini, che era un semplice ragioniere, ragionò politicamente meglio di molti suoi avversari nel partito.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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