Carlo Piano: “Con Donato Bilancia racconto la follia di un uomo feroce e fragile”

Il romanziere che cercava Atlantide ora sulle piste di un ladro divenuto assassino seriale

Carlo Piano è uomo in viaggio. L’ho incontrato per Il torto (Edizioni e/o, 2023), romanzo sul pluriomicida Donato (“Walter”) Bilancia. Ma il primo libro di Carlo Piano è Atlantide (Feltrinelli, 2019), scritto col padre Renzo, seguito da Alla ricerca di Atlantide (Feltrinelli, 2022).
Un percorso da Genova a Itaca, da Genova a Osaka. Un libro così per chi è?
“Per chi, invano, cerca Atlantide. Fra le terre fantastiche, è quella che più solletica filosofi, scienziati, esploratori, romanzieri e semplici creduloni. E anche architetti di una certa fama, come mio padre. Che cosa sogna un architetto, se non la città perfetta?
L’avete trovata?
“Mio padre ha cercato la perfezione, che il mito di Atlantide rappresenta, costruendo in giro per il pianeta. Forse tutto ciò che facciamo – si scriva, si costruisca, si esplori – è la bozza di ciò che abbiamo in mente, col dubbio di non essere all’altezza, di non poter approfondire. Se anche non esistesse, Atlantide va cercata: è una bella idea, destinazione perfetta per il viaggio. Da qualche parte sarà”.
Perché cercarla comunque?
“Perché incarna l’opera perfetta, cui aneliamo e che mai realizzeremo. Manca sempre qualcosa in ciò che facciamo, e lo sappiamo benissimo”.
 
Un libro “scritto insieme al padre Renzo”, recita la precisazione editoriale.
“Sono come Rustichello da Pisa, che con Marco Polo scrisse Il Milione. Io sono Rustichello: l’estensore. Non importa che Atlantide sia reale o no: serve a viaggiare, a porsi domande, che è il vero senso del viaggio. Per Konstantinos Kavafis, devi viaggiare senza fretta, imparare da ogni situazione, ammirare ogni luogo, permearsi di cultura, di sorprese e di incontri. Chi torna da un viaggio, non è la stessa persona che è partita”.
 
Quali sono le tappe della sua carriera?
“Giornalista all’Indipendente di Vittorio Feltri, al Giornale, a Panorama, al Sole 24 Ore. Ora collaboro con La Stampa, La Repubblica e Il Secolo XIX”.
Un’esperienza per lei indimenticabile? 
“11 settembre 2001. Ero al New York Timesper uno stage. Conservo una copia di quel giorno, col titolo: U.S. ATTACKED”.
Che cosa ricorda di quel giorno?
“Gente imbiancata dalla polvere sbucava dalla coltre dei calcinacci, che erano state le Torri Gemelle. Sembravano fantasmi. I due grattacieli parevano invincibili, invece si erano sgretolati. C’era un odore acre nell’aria, bruciava nei polmoni. Una sensazione di finimondo, un’atmosfera di guerra che avevo vissuto solo nei racconti dei nonni”.
Donato Bilancia: lei ne studia il lato oscuro, come disse Vittorino Andreoli?
“Una domanda mi torturava: che cosa avesse scatenato un uomo di quasi cinquant’anni – certo, un ladro e un balordo – che, prima, non aveva commesso violenze? Gli psichiatri hanno cercato una risposta. E anch’io ho provato, nella mia biopsia letteraria di Bilancia, uomo feroce, fragile e contraddittorio. Ho scritto di lui, forse, per liberarmi di lui”.
Perché?
“Nel 1998 lo intervistai in carcere a Chiavari. Bilancia domandava a me perché fosse in prigione con i delinquenti. Aveva ucciso diciassette persone, ma lui non si considerava un delinquente. Mi sconvolse. Nel 2020, quando Bilancia è morto di Covid, mi è tornato tutto su. E mi sono trovato a scriverne per esorcizzarlo”.
Gusti e disgusti d Carlo Piano?
“Leggo di tutto. Leggere, secondo me, significa capire, essendo parte attiva e non passiva. Farsi un pensiero proprio”.
Il libro della vita di Carlo? 
Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, sublime nella sua desolante disperazione, da ragazzo mi ha cambiato la visione della vita. Ma il mio romanzo preferito è Moby Dick di Herman Melville. La vastità del mare e quel piccolo mondo che ci galleggia dentro. Come non innamorarsene?”
Nella letteratura italiana chi preferisce?
“Niccolò Ammaniti e Andrea Vitali, ma anche altri. L’Italia continua a dire la sua in campo letterario. La ricchezza del passato si riflette nella lingua e ci aiuta. Ma non bisogna farsi schiacciare da un passato così ingombrante. E non è semplice”.
Nel 2021 lei ha pubblicato Il cantiere di Berto. Il romanzo del ponte di Genova (Edizioni e/o). Berto sente sfuggire le ultime occasioni della vita. Che effetto fa guardare il ponte dal basso, dal torrente Polcevera in secca?
“La sciatteria ha fatto sì che il ponte crollasse, portandosi via quarantatré vite. Leo Longanesi diceva che l’Italia, alla manutenzione, preferisce l’inaugurazione. Ma l’orgoglio, che accomuna gli italiani, ha permesso di ricostruire il ponte a tempo di record. Ci hanno lavorato mille persone d’ogni angolo d’Italia. Costruire unisce ed è un gesto di pace. Ho raccontato la storia attraverso gli occhi di un geometra, uno di quei mille che hanno lavorato giorno e notte, un uomo ordinario che diventa straordinario nella coralità del cantiere”.
De André cantava: «Mentre il cuore d’Italia / da Palermo ad Aosta / si gonfiava in un coro / di vibrante protesta…».
“Parole migliori lei non poteva trovarne. Oltre che poeta, De André era un attento e intelligente testimone dei cambiamenti. Replico: ‘Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior'”.

Francesco Bergomi

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