Il punto (di E.Nistri). Il ko al fotofinish in Sardegna e la destra che perde nelle grandi città

Una riflessione sui risultati delle regionali nell'isola e sulla necessità di avere una proposta di governo metropolitana

Conte la Todde e la Schlein su La7

Anche se limitati a un ambito locale e con particolarissime specificità, i risultati del voto in Sardegna inducono a una seria riflessione non tanto sul futuro del governo Meloni, blindato da una maggioranza parlamentare che solo una “tempesta perfetta” potrebbe mettere in difficoltà, quanto sulla capacità dell’attuale coalizione di conservare nel medio-lungo periodo l’egemonia nel Paese.

Fatte salve le specificità regionali della consultazione, su cui ha senz’altro ha pesato l’infelice scelta del candidato di centrodestra, variaspetti del voto sardo confermano altrettante caratteristiche degli orientamenti elettorali nel corso degli ultimi anni.

Il primo è l’alto tasso di non votanti, cui alle elezioni europee si pensa di porre argine con l’introduzione del voto per corrispondenza per determinate categorie: una toppa che potrebbe essere peggiore del buco, visto che il voto per corrispondenza può non essere segreto e di conseguenza nemmeno libero, prestandosi a ricatti e condizionamenti, magari all’interno di una casa dello studente. Il secondo è l’esiguo margine di distanza fra i due schieramenti. L’alto tasso di astensionismo può comportare un’improvvisa alterazione dei risultati elettorali, con il massiccio ritorno alle urne di categorie che in precedenza, per rassegnazione, dispetto, disinteresse se ne erano tenute lontane, com’è successo negli Usa con le ultime elezioni, che hanno visto la sconfitta di Trump. Lo scarso margine di distanza fra gli schieramenti in lizza non consente all’attuale maggioranza, e in genere a nessuna maggioranza, di adagiarsi sugli allori.

L’Italia, dalla caduta della prima Repubblica, ovvero da più di trent’anni, è una nazione profondamente divisa, come dimostra il succedersi di governi di centrodestra e centrosinistra, per altro con una netta prevalenza dei secondi. Un ottimista potrebbe essere incline a scorgere in questo fenomeno il positivo avvento di una democrazia dell’alternanza. Purtroppo questa alternanza non avviene fra schieramenti che, al di là delle diversità di programmi, si condividono un sentire comune, al di là del richiamo a una Carta costituzionale che, nata da un compromesso, si presta a una vasta gamma di interpretazioni. Si verifica invece in un clima di contrapposizioni ideali e di scontri verbali con scarsi precedenti nella storia della Repubblica. Un presidente di Regione che offende con un gergo da trivio la premier, una leader del maggior partito d’opposizione che per attaccare il governo coglie qualsiasi occasione – si tratti di una tragedia sul lavoro, di un raduno nostalgico, di una carica di polizia fanno rimpiangere il clima dei primi sette anni della seconda repubblica, quando, magari per la ricerca di una reciproca legittimazione tra postcomunisti e postfascisti, fu avviato un purtroppo incompiuto processo di rilettura della nostra recente storia che conobbe forse il suo momento più significativo con la prolusione nelmaggio del 1996 del presidente della Camera Luciano Violante. È vero che analoghi problemi si avvertono oggi anche nella più grande democrazia del mondo, dopo l’avvento di Trump. Ma il proverbio secondo cui mal comune sarebbe mezzo gaudio ammette molte eccezioni.

Occorre aggiungere, a questo proposito, che il predominio della destra, in questa democrazia dell’alternanza, è tutt’altro che scontato. Anzi, se ci si fonda sul nudo linguaggio delle cifre, non ci vuole molto a comprendere come l’area degli elettori di centrodestra sia andata restringendosi da trent’anni a questa parte. Il momento in cui tale orientamento ha ottenuto il maggiore consenso è stato paradossalmente quello della sua più cocente sconfitta: le elezioni politiche del maggio 1996, quando, per la decisione della Lega di presentarsi da sola e il rifiuto finiano di patteggiare la desistenza con le liste della Fiamma tricolore, la coalizione del centrodestra fu sconfitta dall’Ulivo. In quell’occasione il Popolo delle Libertà ottenne il 42,7 per cento, contro il 43,39 dell’Ulivo; ma la Lega, che correva da sola, ottenne il 10,9; se a tale cifra si aggiunge lo 0,9 della lista di Rauti, ci si rende conto che l’Italia, in quella congiuntura, si era veramente “destra”, anche se poi, per la logica del maggioritario, governò per cinque anni una sinistra per altro molto diversa da quella di oggi. È vero che la Lega di Bossi non era quella, “nazionalizzata”, di Salvini; ma senz’altro i suoi non erano voti di sinistra. Alle politiche del 2022 la coalizione di centrodestra, comprensiva però della Lega, ha raggiunto il 44,02 dei voti al Senato e il 43,79 per cento alla Camera, beneficiando però delle divisioni fra gli alleati: una cifra soddisfacente ma non esaltante, anche a tenere conto dei suffragi “rubati” da Italexit di Paragone, col suo 1,9 per cento. Molto migliori i risultati nel 2019, alle elezioni europee, quando, grazie all’exploit della Lega, il centrodestra sfiorò la maggioranza assoluta

Il terzo aspetto del voto sardo che conferma un orientamento nazionale è costituito dal fatto che il centrodestra ottiene i maggiori consensi nelle campagne e nei piccoli centri, mentre nei capoluoghi ha la meglio la sinistra. Si tratta di un orientamento in controtendenza rispetto al passato, quando per esempio una città come Firenze era “bianca”, o ai tempi del pentapartito “bianco-rosa”, mentre il “contado” era quasi istituzionalmente “rosso”, ma anche rispetto agli esordi della Seconda Repubblica, quando Fini e la Mussolini persero solo al ballottaggio contro Rutelli e Bassolino, ed erano entrambi esponenti di un vecchio Msi che non aveva ancora passato le acque a Fiuggi. Oggi la Lombardia è di centrodestra, il Piemonte anche, come il Lazio; ma Milano, Torino, Roma hanno sindaci di sinistra. È una tendenza che andrebbe seriamente valutata e non liquidata con facili slogan come “la sinistra delle Ztl”. Così come andrebbe capito perché molti sindaci di centrodestra non riescano a fare sistema, capitalizzando il loro consenso sino allo scoglio del secondo mandato o guadagnandosi, come è accaduto a Truzzu, la disistima di molti fra i loro stessi amministrati.

A tutto questo andrebbe sommato un altro fattore, legato all’inevitabile usura che le responsabilità di governo comportano per i partiti della coalizione, specie per la difficoltà di mantenere tutte le promesse profuse in campagna elettorale, soprattutto in materia di immigrazione, per tacere di certe entrate a gamba tesa della magistratura e delle fin troppe volte enfatizzate fibrillazioni all’interno della maggioranza. Fibrillazioni alle quali si spera che il voto sardo, conseguenza anche di un lungo tira e molla fra FdI e Lega per il candidato alla presidenza, possa porre un argine. I leader del centrodestra prima o poi dovrebbero capire che è comunque meglio essere il secondo partito in una coalizione di governo che il primo all’opposizione. I loro elettori lo hanno compreso da tempo: non importa se prenderà più voti Tajani, Salvini o la Meloni, importa che non vincano Conte e la Schlein, regalandoci magari la patrimoniale e il green pass perpetuo. Dopo la lezione della Sardegna si spera che lo capiscano anche loro.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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