Storia. Il racconto di La Mazière giornalista collaborazionista nella Parigi del 1944

“Il sognatore con l’elmetto” per Italia Storica: "Avevo a poco a poco rioccupato un posto nella vita. Il dopoguerra poneva interrogativi nuovi, che desideravo affrontare con rinnovato spirito. Del mio passato non avevo conservato nessuna nostalgia, ma soltanto un insegnamento: il disgusto del fanatismo e del sangue versato"

Christain de La Mzière, con Dalida

Christian de La Mazière fu giornalista per “Le Pays libre”, un quotidiano minore della Collaborazione, volontario nella Divisione Ss “Charlemagne” negli ultimi combattimenti sul fronte orientale, e nel dopoguerra esperto di pubbliche relazioni del cinema internazionale e amante di Juliette Gréco e Dalida: nelle sue memorie, inedite in italiano e che alla loro uscita in Francia nel 1972 furono un vero e proprio caso letterario, il “romanzo di formazione” di un giovane idealista dalla Parigi dell’estate 1944 al viaggio attraverso una Germania straziata dalle bombe Alleate sino al campo d’addestramento di Wildflecken, e all’invio in Pomerania contro i T-34 e Stalin sovietici dilaganti verso ovest, tra colonne di profughi e combattimenti disperati. Quindi, l’odissea tra le foreste baltiche dei superstiti stremati del suo reparto della “Charlemagne”, la resa, la prigionia sovietica e il rientro in Francia, il processo per collaborazionismo e il suo trasferimento da un carcere all’altro, dalla Santé a Fresnes alla cupa ex abbazia di Clairvaux, un folle universo carcerario popolato da criminali comuni d’ogni sorta e detenuti politici quali Lucien Rebatet, Pierre-Antoine Cousteau, Jacques Benoist-Méchin, sino al suo rilascio nel 1948, tra i resti delle sue illusioni perdute. Di nuovo disponibile la traduzione italiana per i tipi di ITALIA Storica Edizioni di Genova, presentiamo qui su concessione dell’editore l’introduzione al libro dell’autore.

L’introduzione

Credevo di aver congedato il mio passato, ma un mattino mi ha ritrovato. Stavano preparando un film sul periodo dell’Occupazione, quei famigerati anni difficili che la Storia aveva tanto semplificato. La Resistenza e la Collaborazione, i puri e i maledetti: questa dicotomia era una cosa normale dal giorno in cui la fine della guerra aveva rivelato, in tutto il suo orrore, la realtà del nazismo. Ma i francesi, scossi dagli eventi che il futuro non aveva ancora sanzionato, che avevano dovuto prendere una decisione nella confusione dei tempi, che la vita giorno dopo giorno già mobilitava solo per sopravvivere, quei francesi, come si erano comportati? La verità diventava improvvisamente innumerevole e dolorosa, e bisognava decifrarla attraverso il Dolore e la Pietà, come il film, nel titolo, enunciava. La verità aveva cento volti, e io ne incarnavo solo uno.

Quindi chi ero io per dover testimoniare? Un ex militare delle Waffen-Ss, uno scampato della Divisione francese “Charlemagne” che nella primavera del 1945 era andata a farsi massacrare tra le nevi della Pomerania. Da allora, più di vent’anni erano trascorsi. Avevo a poco a poco rioccupato un posto nella vita. Il dopoguerra poneva interrogativi nuovi, che desideravo affrontare con rinnovato spirito. Del mio passato non avevo conservato nessuna nostalgia, ma soltanto un insegnamento: il disgusto del fanatismo e del sangue versato.

E adesso dovevo smuovere questa cenere che credevo ormai fredda. Tuttavia accettai, forse perché soltanto il chiarore del giorno sa dissolvere i fantasmi.

Per quello che potevo, rispondevo alle domande che mi venivano poste. Eppure, avevo detto tutto? Avevo fatto sufficientemente risorgere il personaggio che ero stato, almeno ai miei stessi occhi? Non ne ero per nulla convinto. Il processo era in cammino, dovevo seguirlo, inesorabilmente. Sullo schermo ero solo un esempio, ero lì solo per dare forma a uno stile. Adesso, dovevo sapere perché, a un certo punto della mia vita, avevo scelto questo stile a cui ero rimasto fedele. Dovevo parlare di me e per me. Insomma, scrivere un libro.

Era un po’ come se avessi un appuntamento con un fratello da tempo scomparso. Per capirlo, dovevo restituirgli la voce. Dove mi stava aspettando? Ho lasciato vagare la mia mente. Poi, all’improvviso, mi sono ricordato di un mattino soleggiato dell’agosto del 1944. Stavo guidando sulla strada per Nancy, dove di tanto in tanto si allungavano dei convogli tedeschi in ritirata. Parigi era dietro di me, dove presto gli Alleati sarebbero entrati. E andavo a Est, per raggiungere i volontari francesi che si riunivano per l’ultima battaglia. È quel mattino, che tutto ha avuto inizio.

Avevo preso una decisione esaltante e strana, come in ogni scelta di attivismo. Corrispondeva certo alle mie scelte politiche, ma non era una soluzione imposta dalle circostanze. Avrei potuto, al contrario, sparire dalla Francia o, meglio ancora, rendere alla Resistenza qualche favore per i quali, lo vedremo, ero stato peraltro sollecitato. Furono quelle stesse soluzioni agevoli, credo, che mi condussero invece alla scelta estrema, più ancora forse, delle mie stesse convinzioni: è proprio quando la casa è in fiamme, mi dicevo, e che potremo scappare approfittando del disastro, che bisogna difenderla con ancora più energia. Così facendo, mi sembra, agivo meno nel nome di una dottrina che per fedeltà a me stesso. E mi rendo conto, oggi, di quanto potesse esserci di ingenuamente esemplare in un comportamento simile. Ma bisogna non aver mai avuto vent’anni per non capirlo.

In effetti, all’epoca, ero ancora sollevato da un entusiasmo che si tuffava nel più profondo della mia adolescenza. Dall’età di quattordici anni, le idee politiche mi affascinavano. Mio padre, che era un ufficiale, mi aveva dato un’educazione di un tradizionalismo e di un nazionalismo intransigenti; e a Saumur, la Scuola di Cavalleria dove insegnava, era una specie di sismografo dove venivano a iscriversi con particolare acutezza le agitazioni della vita politica francese – il febbraio del 1934, il Fronte popolare…

Ero stato formato come si deve alla lettura de “L’Action française”. Ma più che le speculazioni di Maurras, che non capivo granché, risuonavano in me i furori di Léon Daudet. Avevo bisogno di vibrare e non di filosofeggiare, del tutto simile in questo ai miei compagni di liceo; e dubito che quelli dei miei condiscepoli che avevano aderito alla Gioventù comunista avessero conosciuto il marxismo meglio di quanto lo conoscessi io stesso.

Le cause che difendevamo riflettevano innanzitutto il nostro ambiente sociale e la nostra famiglia. La nostra gioventù aggiungeva loro una specie di fervore sacro che all’uscita di scuola ci gettava frequentemente gli uni contro gli altri, nel corso delle battaglie la cui violenza non era da meno rispetto a quella che compie, ai giorni nostri, nei licei e nelle università.

Tuttavia, mi ero presto stancato del conservatorismo scrupoloso dei maurrassiani. Volevo essere innanzitutto un rivoluzionario, probabilmente per quell’impulso di contestazione che ci mette, a una certa età, contro la nostra famiglia e l’ideologia paterna. Ma, soprattutto, pensavo meno al passato che a dei domani esaltanti. Il mondo in cui vivevamo mi appariva schiavo del denaro, macchiato di ingiustizie sociali.

Nondimeno, niente mi portava a unirmi alla rivoluzione comunista: ero stato educato a condannarla costantemente e, istintivamente, sentivo il bolscevismo come una forza malefica. Fu allora che attraverso gli stendardi e le fotoelettriche di Norimberga avevo avuto la rivelazione del nazionalsocialismo. Mi lanciai subito in letture numerose e contraddittorie che, ai miei occhi, non ne facevano che aumentare la seduzione. Questa dottrina, nella quale mi sembrava che le grandi tradizioni e un socialismo innovatore trovassero un equilibrio, proponeva uno sbocco naturale ai miei sentimenti rivoluzionari.

Era quindi sopraggiunta la guerra di Spagna. L’avevo seguita, in questa mia disposizione nuova e appassionata, vedendoci soprattutto un campo chiuso dove il fascismo e il comunismo si scontravano. Ero giunto alla certezza che le democrazie capitaliste fossero condannate per sempre. E se ne avessi avuto la possibilità, avrei preso le mie prime armi all’ombra degli eroi di Toledo.

Poi, la Germania e la Russia si erano alleate alle spalle della Polonia. Non avevo compreso questa mossa, ed ero ritornato, temporaneamente, a un nazionalismo più ortodosso. Ed è in questo spirito che mi arruolai nel 1939. Ma quando il Reich aveva invaso l’U.R.S.S., avevo ricominciato a sognare un mondo nuovo, dove l’Europa avrebbe rappresentato il faro del socialismo. Questa speranza aveva nutrito gli editoriali che scrivevo per un piccolo giornale parigino.

Il 1944 era arrivato, gli eventi erano precipitati. Mi trovavo, come ho detto, in quel punto critico in cui la militanza ha per solo futuro l’elmetto e il fucile. Ho fatto il salto, ho scelto l’avventura. Ed è al termine del grande sogno ideologico che ho scoperto la realtà. Innanzitutto la mia: ero, come ogni uomo, un essere contraddittorio. Provavo molto sinceramente il bisogno di sacrificarmi per un ideale; ma egualmente potente, vi era in me il desiderio di vivere e di essere felice. Quel desiderio, che avevo represso nel profondo della mia anima, non aveva di fatto mai smesso di parlare e di mettermi in guardia, anche nei momenti di massima esaltazione. È grazie a lui, lo so bene, se ho potuto superare i pericoli: ed è a causa sua, sicuramente, se non posso recitare la parte dell’eroe tutto d’un pezzo, come quelli che popolano le stampe di Épinal. Sarebbe strano se me lo rimproverassero.

Più in generale, scoprivo inoltre quelle grandi e semplici verità da cui mi aveva allontanato quella specie di cerchio magico in cui mi ero rinchiuso: che la guerra è vergognosa, che i fanatismi sono assassini, che la morte è il male più grande. La gioventù vive volentieri in una specie di teatro mentale e ci si ritaglia dei ruoli a seconda dei propri slanci. È in questo teatro intimo che avevo proiettato la guerra di Spagna e le messe nazionalsocialiste di Norimberga: è ancora una volta attraverso di esso che avevo provato la guerra del ‘39-‘40. Nel 1944, nonostante le scelte opposte di molti miei amici, sapevo troppo poco sulla realtà concreta del nazismo perché smettesse di apparirmi come una speranza possibile. Il disastro del 1945 e soprattutto le rivelazioni del dopoguerra dovevano distruggere le mie illusioni.

Fu brutale e piuttosto crudele. Vidi, in parte, voltarsi dall’altra parte l’entourage che mi aveva nutrito della sua ideologia, un’ideologia di cui tuttavia la mia avventura ne costituiva il risultato ultimo. Restavano i miei amici – vecchi e nuovi – e l’amicizia non conosce patria ideologica. E del resto, andava bene così. Lasciavo che la mia gioventù vagabondasse con le generose fantasie che l’avevano sollevata, fino a questo film, un giorno, e a questo libro in cui la resuscito solo per restituirla definitivamente al passato. È questo un rinnegarla?

Questa domanda, mi sembra, è oggi senza significato. Si rinnegherebbe, del resto, il proprio entusiasmo giovanile, l’aver creduto in qualcosa, l’aver tentato di mettere le proprie azioni in accordo con le proprie idee? Non sarò mai uno di quegli esseri amareggiati che disilludono dalla loro fede i giovani di vent’anni. Solo, credo di avere il diritto di consigliare loro la massima prudenza, non nell’impegno militante in sé, quanto nelle scelte che ne derivano.

Edito da ITALIA Storica Edizioni di Genova e disponibile su Amazon 

Christian de La Mazière

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