Marco Ferrante: “La Puglia è la mia nostalgia della giovinezza”

Intervista al giornalista e scrittore originario di Martina Franca in libreria con “Ritorno in Puglia” per Bompiani

Ci sono storie nella storia d’Italia che appartengono alla memoria collettiva, immagini che si tramandano come nel DNA della nazione. La Renault rossa con dentro il cadavere di Aldo Moro, l’autostrada di Palermo squarciata dalle bombe della mafia e i brandelli umani nell’albero di fronte la casa di Paolo Borsellino, i funerali di Berlinguer e la firma sul contratto di Berlusconi con gli italiani. Storie che hanno segnato fratture e tratturi nelle coscienze. Ma c’è una storia che ritorna ogni volta che il Mediterraneo diventa un cimitero d’acqua: la marea umana di 10000 albanesi, dopo il crollo del regime comunista, dal porto di Durazzo a quello di Bari. Era l’8 agosto 1991 e iniziava il fenomeno dell’immigrazione in Italia.

 

Un evento epocale che, se lo si guarda con gli occhi di uno scrittore, diventa epica, mito, archetipo.  La Puglia è Magna Grecia e se arriva uno straniero, l’accoglienza è ordine olimpico. Zeus Xenios puniva l’ospite che non apriva la porta della sua dimora allo straniero. Nasce da questo patrimonio di cultura e di umanità il personaggio di Bernardo Bleve, il titanico protagonista di Ritorno in Puglia di Marco Ferrante. Giornalista e scrittore, Ferrante dopo aver raccontato con il bel Gin tonic a occhi chiusi il declino dell’alta borghesia annegata nei cocktail e nei gossip, costruisce un romanzo che ha il respiro dell’epopea. Bernardo Bleve è il patriarca di una famiglia affollata, dove ogni personaggio è un fiume carsico di sentimenti, emozioni, desideri, segreti. Si muove a Tisa che è una sorta di non luogo, proprio perché l’essere finzione lo trasforma in sintesi di ogni luogo della terra di Puglia, la comprimaria di questo romanzo. Bleve è il patriarca padrone di un’industria di succhi di frutta nata dalla trasformazione del latifondo ereditato dal padre: lì fa lavorare gli albanesi, la famiglia di Gezim. Un romanzo della colpa, si legge nel risvolto di copertina. La colpa di stare nel luogo giusto del mondo mentre altri annegano, si umiliano, cambiano nel bene e nel male per sopravvivere. La colpa ha un nome dentro il romanzo. Quel nome è parte di una piccola storia dentro la grande storia del porto di Bari affollato di albanesi. Il nome è Käter I Rädes, l’imbarcazione della motovedetta albanese affondata, in circostanze mai veramente chiarite, nonostante le sentenze definitive, dalla corvetta italiana Sibilla nel Canale di Otranto. La vicenda resta nel fondo come un’eco che Bleve ha nella testa e che lo porta a cercare di capire, a prendersi cura con ogni mezzo degli stranieri. Tra diffidenze e caparbietà, si snoda una storia feroce, a tratti ironica, forse perché giocata su piani doppi: da un lato la verità dei fatti storici e la finzione dello spostamento temporale e dei luoghi (come Manzoni che s’inventò il paesino di Lucia nella geografia del lago di Como e l’Ottocento nel Seicento) e dall’altro il benessere del clan dei Bleve, attraversato da note di romanzo borghese decadente (la figura di Gelasio e della zia Osanna ne sono l’incarnazione) contro cui stride, nel momento in cui l’ingloba, la sopravvivenza morale, economica e sociale delle famiglie albanesi. Bleve prova a proteggere gli albanesi, pagando costi altissimi. Se Honorè De Balzac avesse letto Ritorno in Puglia, vi avrebbe rivisto una comèdie humaine, perché nel romanzo non c’è solo l’umanità di Bernardo Bleve ma anche la disumanità di chi ha disatteso agli ordini di Zeus Xenios.

 “Ritorno in Puglia” è un affresco corale in cui si stagliano personaggi con una loro ben definita personalità, tanti tasselli di una comunità nel momento di un trapasso sociale ed economico quasi epocale. Ritorno in Puglia è solo un titolo o anche il suo nostos?

“Innanzitutto è un titolo, che contiene un riflesso personale. Per me la Puglia è la nostalgia dell’infanzia e della giovinezza. Quando torno, ritrovo la mia casa, l’aria di allora e una specie di sensibilità soggettiva che appartiene ai luoghi. Non avevo mai scritto della Puglia. A parte un reportage di tanti anni fa per “Il Riformista” e un piccolo ricordo per i 40 anni del Festival della Valle d’Itria, avevo tenuto sempre fuori la questione pugliese dal mio orizzonte di racconto. Il libro l’ho cominciato molti anni fa, e per molti anni l’ho tenuto da parte.

Mi interessava descrivere una trasformazione – più lenta di quello che si pensa – di questa regione di base agricola e agraria in una regione con un forte tasso di industrializzazione e con una grande propensione allo sviluppo e alla modernità. Modernità che ha convissuto con la tradizione. Un confronto tra vecchio e nuovo, travaglio della società e in certi casi anche delle famiglie. Su questo ho cercato di costruire il romanzo e di definire il suo protagonista”.

Chi è Bernardo Bleve? Quanto ha inciso la sua passione per i ritratti di personalità determinanti per la storia del nostro Paese? Penso al racconto della famiglia Agnelli o di Sergio Marchionne o di personaggi quali Alberto Arbasino o Claudia Cardinale, tutti raccolti nel suo sito…

“Onestamente non c’è un legame con i miei libri né con i ritratti – borghesi – raccolti nel sito che raccontano alcuni figure notevoli della nostra storia recente. Ho costruito un personaggio che riassumesse le complessità e contraddizioni del rapporto tra tradizione e modernità. Bleve è “uno dei nostri” nella tipologia antropologica degli individui che procedono per tentativi, approssimazioni e adeguamenti. Ovviamente quello che gli accade dentro il romanzo è il tentativo, spero riuscito, di trasformare un tipo di uomo in un personaggio letterario”.

Posso azzardare dei parallelismi? Bleve potrebbe essere il fratello casto di un personaggio di Philip Roth oppure di un personaggio della letteratura dell’America centromeridionale, un proprietario che ha creato un mondo a sua immagine, tanto che lo stiamo identificando con il cognome, un mondo nuovo ma con una patina di antico che la sua lingua, così limpida e precisa, ha consegnato alla contemporaneità. Ha avuto un modello letterario?

“È un romanzo tradizionale, fatto di plot, di personaggi e di dialoghi. C’è qualcosa di sudamericano, in effetti, se non altro per una questione di temperature. Non vedo molto Roth per la verità. Bleve è un prototipo meridionale, viene dalla memoria di tanti arcipreti di paesini un po’ sbiaditi, e dai racconti perenni e ripetuti della vita di provincia. Poi Bleve ha sviluppato una sua personalità in ragione delle cose che fa”.

Un personaggio tormentato…

“Sì. Tormentato e drammatico. Così l’ho sempre immaginato. D’altronde si dice sin dalla seconda riga che non ama la commedia all’italiana”.

Pietro e Gelasio, i figli di Bleve sembrano le due facce del padre e, a sua volta, la storia pare dipanarsi dentro una felice claustrofobia ossia di un mondo chiuso con le sue regole e diffidente comunque verso l’esterno.

“Bleve è aperto alla modernità: eredita un’azienda agricola e crea un’industria. Si sentirà un’industriale per tutta la vita. Da questo punto di vista è molto ottimista. Torna la questione dell’ambientazione. In provincia ci si divide in due categorie: quelli completamente calati nella dimensione provinciale e nell’accettazione del mondo intorno a loro, come se in quanto fatto di prossimità, fosse il migliore dei mondi possibili; e quelli che vivono costantemente le limitazioni dell’ambiente con tormento. In Bleve questa seconda reazione è molto esplicita. Non è disponibile a essere schiavo della sua comunità, del suo ricatto morale e soprattutto ottico, visivo, tattile quasi: “so chi sei, so cosa fai, so dove sei, so quanto guadagni, so con chi esci la sera e con chi intrattieni una relazione”. Bleve, per esempio, rifiuta la dimensione sessuale nella costruzione della sua identità: vuole sfuggire al sessocentrismo. In generale negli affari sentimentali e relazionali è trattenuto come se non volesse giocare quella partita. Non è chiuso, ma diffida dei riti in cui è cresciuto, nonostante si senta parte attiva di un sistema che concorre a far crescere, sia rispetto alla comunità degli albanesi sia in fondo anche con i parenti. Naturalmente è un fottutissimo snob tradizionalista, perché è nato in un mondo in cui tutto veniva misurato in ettari, in dimensioni delle case e nei quintali dei raccolti. Successivamente tomoli e quintali diventeranno milioni di lire e multipli di milioni, ma questo solo in un mondo successivo…”.

La sua è un’operazione di contestualizzazione molto interessante. E non solo per la vicenda, impressa nell’immaginario nazionale, dell’arrivo degli albanesi negli anni ’90.

“Andiamo più indietro. Bleve appartiene a un ceto nato con l’Unità d’Italia e che defunge col fascismo. Quando finisce la guerra, quella classe perde la sua forza perché si è compromessa con il regime, semplicemente perché il fascismo nasce anche per proteggere gli agrari. In Puglia questo è accaduto come in Emilia. Le conseguenze di quel passaggio furono traumatiche. Pensiamo ai moti nel salentino Arneo o più a nord nel barese, con il tragico terribile assassinio delle sorelle Porro (appartenenti a una famiglia di proprietari terrieri di Andria, nel marzo del ’46 vennero linciate dai compaesani, probabilmente istigati dagli organizzatori di un comizio della CGIL, ndr)”.

La storia, oltre ai continui riferimenti a eventi storici, si concentra sulla questione degli albanesi, sulla loro difficoltà di integrazione, sul disincanto verso l’Italia, considerata un Eldorado, che sfocia nella rinuncia di alcuni, nello sfruttamento per altri o nella delinquenza per altri ancora. Nella Puglia di oggi cosa è rimasto di quel periodo?

“La comunità albanese in Puglia si è totalmente integrata. Ho fatto una presentazione del romanzo a Martina Franca, la bellissima città in cui sono nato, organizzata dal Presidio del Libro (grande istituzione pugliese) e da una signora albanese. Mi ha detto che a Martina Franca vive una comunità di 3mila albanesi. La Puglia da questo punto di vista è un polo di inclusività, grazie anche a una economia stabilizzata. In fondo, l’Albania era una specie di provincia italiana: si parlava italiano, si guardava la nostra televisione. Il mio romanzo è pessimista perché è un romanzo, ma io penso che sul medio-lungo termine i conflitti tra entità differenti si compongono. Nel breve si deve superare la difficoltà di accettare il nuovo, l’altro”.

Le donne combattono moltissimo in questo confronto tra diversi. La figura di Elena, la moglie di Bleve, è indicativa. Le figure femminili sono tante e sfaccettate, tra tutte spiccano Jelana per la fragilità disperata e Giovanna, maledetta dai suoi stessi desideri. Nella carne delle donne ha affondato la penna. Quale quella che ha amato di più?

“Dal punto di vista tecnico Giovanna è il personaggio riuscito meglio nel senso che è perfetta come la volevo, mentre su Elena e Aurora ho lavorato di più perché più complesse. Giovanna è un archetipo: quella devastante bellezza che non riesce nemmeno a fare i conti con la sua fisicità e con il potenziale di energia e di forza psicologica di cui dispone nel rapporto con gli uomini”.

Nelle note ringrazia Alessandro Leogrande, uno scrittore animato dal desiderio della verità.

“Si era occupato sin dall’inizio del fatto della Kater i Rades, che era presto finito in una specie di bolla per questioni politiche: gli esponenti del centrodestra non potevano criticare Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, perché aveva fatto quello che loro avrebbero voluto fare e l’intellighentia di centrosinistra non poteva attaccare il suo governo per una vicenda così assurda e terribile. Ci eravamo conosciuti per questo, per telefono, per commentare questa storia perché ne avevamo scritto. Io solo qualche articolo. Lui scrisse un libro molto bello, “Il naufragio”, per Feltrinelli. La ricostruzione della sofferenza delle famiglie è molto toccante. Quello per Alessandro Leogrande e il suo libro è l’unico credito che ho esplicitato nei ringraziamenti finali”.

Sulle vicende di cronaca amministrativa, politica, giudiziaria ed elettorale in cui la Puglia è entrata come nell’occhio di un ciclone, come avrebbe reagito Bleve? E lei, Marco Ferrante?

“Credo che Bleve non sarebbe stato molto interessato a questa faccenda. L’avrebbe ignorata. Per quanto mi riguarda, appartengo a una categoria di persone che non ha bisogno di queste storie per giudicare le classi dirigenti né credo che sia questo il punto. Il voto di scambio è un sintomo della pervasività sociale della politica, quando la società è fragile indipendentemente dalla latitudine. Non è una scoperta, è un fenomeno. Ma queste classi dirigenti locali – soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo nel Mezzogiorno – andrebbero giudicate, male, per un’altra ragione. Non hanno nessuna idea di futuro, se non di futuro personale attraverso la piccola gestione del potere. Poi incoraggiano un po’ di turismo, certamente importante per l’accoglienza, l’immagine identitaria e per gli imprenditori che investono, ma è un settore a basso valore aggiunto, non sufficiente a dare forza al tessuto economico. Sono classi dirigenti senza visione, al massimo una distratta e superficiale prospettiva alberghiera della vita”.

 


L’autore. Marco Ferrante è nato a Martina Franca nel 1964. Giornalista e scrittore, con i romanzi Mai alle quattro e mezzo (Fazi 1998) e Gin tonic a occhi chiusi (Giunti 2016) ha partecipato a due edizioni del premio Strega. Ha scritto anche due libri di ritratti, Casa Agnelli (Mondadori 2007, 2008), Marchionne (Mondadori 2009, 2011, 2018). Ha lavorato nella carta stampata e in tv (Il FoglioIl Riformista, Tg5, è stato vicedirettore di La7). Attualmente è a Mediaset, vicedirettore di Videonews, e direttore della rivista Civiltà delle Macchine- Fondazione Leonardo

Il libro. Bernardo Bleve ha un complesso rapporto con la sua terra – una Puglia rappresentata nella sua antica bellezza ma senza alcuna forma di retorica –, con la sua famiglia – la moglie Elena, i figli Gelasio, che lavora a Londra nel mondo dell’alta finanza, Francesca e il giovane Pietro – e con l’azienda agricola che ha ereditato e che ha trasformato in una prospera impresa industriale di bevande. Tutti legami nei quali si mescolano idealismo e vanità, ipocrisia e desiderio di operare per un riscatto. Alla fine degli anni novanta, quasi come sentisse il bisogno di riparare, attraverso il proprio impegno, a un’immensa disgrazia – l’affondamento di una motovedetta carica di profughi da parte di una nave da guerra italiana nelle acque di fronte a Brindisi –, Bernardo accoglie una famiglia di albanesi. Sospesi tra un passato lasciato al di là del mare e il futuro che si apre in Italia per i loro figli, gli albanesi portano con loro energie nuove ma al tempo stesso spezzano l’antico equilibrio.

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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