Teatro Greco/Siracusa. “Aiace” di Luca Micheletti sedotto dall’opera totale

La tragedia di Sofocle apre la 59ª Stagione delle Rappresentazioni Classiche a Siracusa con la regia e l’interpretazione di Luca Micheletti. Messinscena stipata su tre ritmi. Domina la musica di Giovanni Sollima. Cast senza sbavature su cui brillano Roberto Latini e Daniele Salvo. Teatro sold out, applausi e perplessità

C’era da aspettarselo che Luca Micheletti, regista e baritono di fama internazionale, virasse sulla musica e sul canto. La presenza del maestro Giovanni Sollima, violoncellista e compositore italiano tra i  più eseguiti al mondo, aveva trasformato il dubbio in certezza. Così è stato: il ronzio della follia di Aiace Telamonio si trasforma in un tappeto su cui Sollima ha disteso una musica affascinante, affabulatoria tanto quanto quell’Odisseo, scaltro e lucido, che ha condotto Aiace al gesto estremo. Quello che non ci si aspettava era che la battuta di Luca Micheletti “Io sono Aiace”, detta durante la conferenza stampa di presentazione della Stagione, fosse uno spoiler. La sua Aiace è lo spazio dentro cui si accampa la ricerca di Micheletti intellettuale prima che artistica. Una messinscena ritagliata sulla sua capacità di penetrare il testo di Sofocle e di ricavarne le molteplici suggestioni filosofiche e antropologiche.

La tragedia. Aiace è la tragedia più antica di Sofocle, probabilmente datata 445 a.C., almeno quello sembra l’anno in cui fu rappresentata. Ha una trama semplice: Aiace, il più forte dopo Achille dei guerrieri greci impegnati nella guerra di Troia, si uccide gettandosi sulla spada conficcata al contrario sul terreno, per la vergogna di aver fatto strage di buoi e pecore, scambiate per i suoi compagni di battaglie. Un errore della follia che Atena, offesa dalla ὕβρις del valoroso eroe greco sprezzante dell’aiuto degli dei, gli ha instillato nella scena più suggestiva di Micheletti: memore della riforma sofoclea del terzo attore, il regista crea una triade verticale con Atena che mette nell’occhio di un fantoccio sdraiato raffigurante Aiace le gocce della follia, mentre un esterrefatto Odisseo giace ai piedi.

Accortosi dell’errore e coperto di ridicolo- “Ridere sui nemici non è forse la colpa più bella?” dice Atena a Odisseo- Aiace riesamina il suo gesto grottesco e decide di uccidersi. Dopo aver fatto al coro e alla concubina Tecmessa un discorso ambiguo che li convince del ravvedimento dai luttuosi disegni, abbracciato il figlioletto (qui Micheletti ha una debolezza che abbassa, seppur dolcemente, il dramma facendo entrare in scena la propria bambina a interpretare Eurisace), si allontana dalla tenda e consuma il proprio destino. Inizia la seconda parte della tragedia, detta a ragione “la piccola Antigone”. Scoperto il corpo di Aiace, cui il destino ha riservato di non far arrivare il vaticinio di Calcante che lo avrebbe salvato, il fratello Teucro si scontra con i capi Atridi per il seppellimento del cadavere. Ne nasce una disputa risolta dall’acume di Odisseo che convince Agamennone (interpretato da Edoardo Siravo) della sepoltura. Aiace è un personaggio singolare della tragedia greca. Nel numero: Aiace è isolato dai suoi stessi alleati la cui decisione di dare a Odisseo le armi di Achille è solo l’ultimo gesto di un’estraneità dovuta al suo stesso tracotante eroismo (Kleos e hybris). Nella identità: Aiace è estraneo al suo tempo, un eroe fuori contesto. Smisurato già in Omero, con Sofocle l’eroe diventa titanica fisicità dell’arcaico tempo della vergogna destinato a lasciare il campo alla società della colpa. Per questo Aiace si uccide, per impossibilità, più che per incapacità, di orientarsi in un contesto non suo. Sorpreso nel lembo di terra di nessuno tra il dirupo della vergogna e il precipizio della colpa, Aiace si sottrae, ancora una volta chiuso nel disconoscimento di tutto ciò che è fuori da sé.

La traduzione. Il fuori di sé, di conseguenza, prende le sembianze della necessità. Aiace è anche una tragedia della comunicazione (filo conduttore di questa stagione di eroi soli: Aiace, Fedra e Pirgopolinice) perché in essa le parole inganno (vedi lo scambio di battute tra Atena e Odisseo), ambiguità (nel contrasto tra Aiace e Tecmessa, qui reso con tono da dramma borghese o tra Aiace e il coro), incomprensione ne costituiscono il tessuto linguistico reso liricamente magmatico dalla traduzione di Walter Lapini. Lirico nelle immagini “torbida tempesta di follia” dice Tecmessa della follia di Aiace e questi pensa alla morte “lama della mia volontà” fino all’acme poetico del coro “il lugubre carro della notte cede il passo alla luce sfolgorante dei candidi cavalli dell’aurora”. Il magma sta nel ricorso al chiasmo “Vivere nobilmente o nobilmente morire” o alla resa assolutamente efficace delle frequenti interiezioni sofoclee o del passo sull’etimo del nome la cui traduzione è la più bella mai ascoltata “Ahi!, Ahi come Aiace. Chi potrebbe pensare che questo nome si sarebbe adattato così bene al mio destino?

La messinscena. Cosa resta della traduzione così in equilibrio tra eleganza classica e modernità espressiva è affidato a una messinscena che convince fino a un certo punto. Micheletti appare prigioniero della partizione del testo di Sofocle. Testo complesso cui serviva un’operazione di snellimento che avrebbe reso giustizia della percezione della durata. L’allestimento realizza il principio di Henry Bergson sulla qualità del tempo. Se la prima parte è dominata dal pathos tragico con punte di recitazione declamatoria di Micheletti (Aiace) e di Diana Manea (Tecmessa) che alla fine ben si adattano alla situazione della macelleria e delle situazioni emotive che fanno scorrere l’azione, la seconda parte risulta prolissa, nonostante la regia abbia cercato la variazione ritmica ricorrendo all’ironia fino al limite del gioco con l’entrata di Teucro (Tommaso Cardarelli sa destreggiarsi nella immaginata richiesta di rendere antilirico il suo personaggio) e di Menelao (Michele Nani) personaggio destinato, da un po’ di messinscene a questa parte, alla sciocca neghittosità, qui a sfiorare la commedia: entra in scena con un “Ehi!” di televisiva memoria.

Su tutti svetta Roberto Latini con una recitazione moderna e fascinosa nel suo scambiarsi di voce tra Messaggero e Atena. Nella figura di Atena, Micheletti pare aver investito molto e Latini ha reso perfettamente il personaggio mostrando, nella modulazione dei toni e dei ritmi e nelle movenze pallidamente gender, non solo di possedere il mestiere ma anche di saper interpretare la cifra dello spettacolo: la specularità. L’idea nuova di Micheletti è aver creato un gioco di specchi: la dicotomia tra vergogna (la civiltà tetragona d’etica) e la colpa (civiltà del possibile) si manifesta nella scena con la raffinatezza del dualismo tra Aiace e Odisseo. Nei panni dei due personaggi lo stesso Micheletti (la cui interpretazione di Aiace supera la regia) e Daniele Salvo. E’ un Odisseo straordinario questo di Sofocle e Daniele Salvo ne è riuscito a cogliere la sfumatura eterodossa: l’eroe della metis ha paura, teme la vista del suo stesso macchinare (azzeccato l’inizio con Odisseo che mangia le interiora del toro che per Aiace era proprio lui), si aggira muto specchio tra il coro e intorno ad Aiace e solo nella seconda parte ritrova la sua identità di oratore/orditore di inganni e di campione di opportunismo “A chi dovrei pensare se non a me stesso?”.

Allo squilibrio dei tre ritmi (pathos, ironia, liricità) fanno da controcanto, con seduzione di opera totale,  scenografia, musiche, costumi e coreografia. I costumi sono il valore aggiunto. Daniele Gelsi ha realizzato l’idea della frattura tra le due ere, disegnando costumi non sul piano della contrapposizione ma della variazione, giocati sui tessuti e sui colori: sangue e spettralità, nero e rosso, follia e arroganza, antico (scudi, corazze e stracci) e ‘900 (stivali e cappotti militari). La scenografia di Nicolas Bovey è nella prima parte un trionfo splatter: una tenda insanguinata interpreta didascalicamente il celato e l’orrore, le carcasse e i resti del bestiame macellato grondano pelliccia e sangue (peluche e stoffe: certo, ripugnerebbe l’iperrealismo antianimalista ma esteticamente efficace di Damien Hirst). La carcassa del titano sconfitto (teschio e scheletro divisi da una colonna mimesi della spada) riempie lo spazio scenico, lo sposta in alto ma è solo un titanico omaggio al luogo e fallisce l’intuizione che di uno spettacolo dovrebbe essere auspicio. Le coreografie di Fabrizio Angelini interpretano alla lettera stasimi e parodo dell’ottimo coro (diretto da Davide Cavalli e Marcello Mancini) mentre il gioco di luci, sempre di Bovey, alterna senza stupore buio e luce. In effetti è lo stupore che manca in questa  messinscena di Aiace. Forse troppo pensata, troppo filosoficamente pensata per avere fluidità scenica, con il rischio di far perdere allo spettatore la qualità del particolare. E lo stupore, l’emozione.

Le musiche. Tranne che ci si lasci trasportare dalla musica. Tra i rumori di scena (ruggiti belluini, ululati di vento, ronzii di mosche memoria di Ghiannis Ritzos) si fanno spazio le bellissime musiche originali di Giovanni Sollima. I tre ritmi, precari nella drammaturgia, trovano senso nella partitura musicale. Canti tribali si alternano a cori lirici, ensamble di strumenti con violoncello, flauto, tromba e tamburi fino al clarinetto che si aggira tra il coro, lo studio sulla parola, che rende più del recitato omaggio alla prosodia ricreata da Lapini, modulato sulle incursioni di musica sacra e rock. E’ la musica a battere la durata bergsoniana: la musica è quello che resta, accanto a qualche folgorazione.

Come mettere in scena la morte: Lidia Carew si muove sinuosa (sebbene scappi un ovvio movimento alla Josephine Baker) nel carnaio putrefatto, abbraccia Aiace e lo bacia in una vaga citazione del dipinto di Edward Munch “il bacio della morte”.

 

 

 

Aiace di Micheletti è piaciuta al pubblico, che ha applaudito calorosamente anche se non a lungo. Forse ne ha apprezzato la vocazione tradizionale, con timide punte di contemporaneità. La tragedia di Odisseo è rimasta per il pubblico in teatro quella di Aiace. E va bene così.

 

Foto: Franca Centaro

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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