De Brabant: “Vi racconto le connessioni tra Craxi e il Msi”

Lo studioso milanese ha approfondito i rapporti politici e culturali tra Fiamme e Garofano in un saggio per Oaks

Il Garofano e la Fiamma di de Brabant

Tommaso de Brabant – autore del saggio Il Garofano e la Fiamma. L’incontro mancato tra Craxi e la Destra italiana” (Oaks), quale il filo rosso che lega o avrebbe potuto legare Psi e destra italiana? La sensibilità sociale di estrazione socialista novecentesca unita all’anticomunismo?

“Bettino Craxi era un socialista tanto convinto, tanto legato alla sua idea e tanto affezionato al suo partito, quanto eclettico ed eterodosso: non per nulla ha dato origine ad una forma di socialismo nuova e peculiare, il “socialismo liberale” che a volte è detto persino “craxismo”; un’idea politica tanto ampia che Giano Accame ha avuto agio di parlare anche di “socialismo tricolore” – un discorso esatto, quello di Accame, ma che descrive solo parte (e il grande giornalista savonese, col suo libro più celebre, non aveva infatti alcuna pretesa di esaustività) della visione politica di Craxi. Non è affatto forzato che una proposta eterodossa attiri l’attenzione di chi giunge da percorsi politici diversi da quello di chi la pone: tanto meno se questi percorsi sono incrociati da osservatori intelligenti – e il Msi, che quando Craxi diventa segretario socialista è già, da fuori, totalmente identificato con l’ortodossia almirantiana, di fatto aveva al suo interno varie intelligenze eccentriche: per l’appunto Accame (non più tesserato col partito della fiamma, ma redattore in varie testate di destra, prima di dirigere il “Secolo d’Italia”), che con Beppe Niccolai fu tra i più entusiasti sostenitori d’una ricezione dei segnali che il Psi sembrava inviare (l’episodio più clamoroso fu il discorso di Lelio Lagorio, ministro della Difesa per il governo Spadolini, allo stadio di Livorno di fronte ai parà della Folgore). Niccolai addirittura vagheggiò una ricomposizione della rottura del 1914, ossia della cacciata di Mussolini dal Partito Socialista: qualcosa cui Craxi non aveva mai pensato.

Craxi era un socialista preparatissimo sulla storia del socialismo: perciò era inevitabile un suo confronto con la figura di Mussolini, esponente tutt’altro che marginale della storia del socialismo non solo italiano, ma europeo: anzi, protagonista Mussolini della storia della sinistra non solo italiana, ma europea. Una storia, quella del Mussolini socialista, per di più legata a Milano: la città di Craxi. Il rapporto di Craxi con la storia di Mussolini non deve insomma stupire, nonostante sia spesso travisata a destra (in nome d’una improbabile filiazione, ai fini dell’appropriazione della storia di Craxi) e a sinistra (dove tale irricevibile filiazione è invece sbandierata per scacciare sia Mussolini che Craxi dal pantheon della sinistra milanese, italiana e internazionale: dove pure hanno un posto ciascuno). Chi interpretò bene la questione fu Giorgio Bocca, di gran lunga il più intelligente del terzetto di “decani” del giornalismo italiano in cui è stato collocato con Biagi e Montanelli: nel 1983 pubblicò con Garzanti un volumetto agile e aggressivo, Mussolini socialfascista. Il socialismo reale non è socialismo ma come gli somiglia, con il quale squadernava al lettore italiano di buona intelligenza un fatto che la cultura dominante censurava: ossia che il fascismo non è stato quello per cui lo si continua a spacciare, ossia il braccio armato della reazione e del conservatorismo.

L’anticomunismo di Craxi (dovuto sia alla sua insofferenza per la sudditanza autolesionista del Psi rispetto al Pci, sia al trauma del suo viaggio da studente universitario in una Budapest insanguinata dai carri armati sovietici) fu salutato con entusiasmo, prima ancora che dai missini eretici, da alcuni imprenditori milanesi, simpatizzanti della Dc quando non dello stesso Psi, ed esasperati dal monopolio comunista sulla “intellighenzia” salottiera della cosiddetta capitale morale d’Italia. Comincia così, per esempio, l’amicizia tra Craxi e Silvio Berlusconi. Questo, nei mesi precedenti la nomina di Craxi a segretario del Psi (giugno 1976); quando poi l’Espresso pubblica un suo lungo articolo, Il vangelo socialista (agosto ’78) nel quale l’ex assessore di Palazzo Marino, consigliato da Luciano Pellicani, perora che i socialisti si devono liberare dell’ortodossia marxista (preferendo Proudhon: un pallino di Mussolini), gli intellettuali di destra si accorgono che all’imponenza fisica del leader milanese si accompagna il coraggio di sfidare (arrivando a togliere dallo stemma del suo partito il sol dell’avvenire, il libro dell’ortodossia marxista e soprattutto la falce e martello, lasciando il garofano: simbolo di resistenza e rinascita, poiché fiorisce nel gelo) l’egemonia culturale comunista”.

Quali documenti inediti o poco approfonditi ha consultato per questo volume?

“La “chicca” più sorprendente è Il disastro di nazione dell’ingegner Antonio Venier, la cui prefazione è l’ultimo testo scritto da Bettino Craxi: la particolarità è che il libro è stato pubblicato da Ar, la casa editrice di Franco Freda. Un documento ormai difficile da trovare è il catalogo della mostra Anni Trenta. Arte cultura in Italia. Un altro libro molto bello e raro è l’Enciclopedia di Milano curata da un grande uomo di cultura purtroppo finito nell’oblio, Guido Aghina, e pubblicata da un genio recentemente scomparso, Franco Maria Ricci. Più accessibili i quaderni di Critica Sociale, tra cui alcuni scritti dall’esilio tunisino – per esempio Guerra d’Africa, oppure Rosso giallo nero sporco grigio. Quando Il garofano e la fiamma era soltanto un’idea un caro amico, Ranieri Lovati, mi ha fatto dono di un volume che riassume l’operato del primo governo Craxi, Fiducia nell’Italia che cambia, autografato dallo stesso Bettino: un colpo al cuore, e un segnale preciso; il giorno dopo telefonai a Valle per dirgli che pensavo di scrivere “un libro su Craxi visto da destra”. La scorsa estate, in un mercatino ho trovato un altro libro sull’azione governativa craxiana, con foto delle sue visite ai più disparati angoli dello Stivale, L’Italia che cambia, anch’esso firmato da Craxi; poco dopo, quando ormai si avvicinava la consegna all’editore, dopo essere stato da Eleonora, la mia tatuatrice di fiducia trovai, in un “bookcrossing” dell’Ortica, Un’onda lunga: raccolta di articoli e discorsi del 1988.

Trattandosi comunque di un argomento di storia contemporanea, di pochissimo anteriore all’attualità, oltre a documenti e testi fuori catalogo, c’è moltissima pubblicistica immediatamente reperibile, e che a volte si trova già sugli scaffali delle librerie: i due libri migliori che ho letto su Tangentopoli, quelli di Filippo Facci, sono usciti poco prima che cominciassi a scrivere Il garofano e la fiamma (30 aprile 1993, pubblicato nell’aprile 2021) o quando stavo raccogliendo i primi testi (La guerra dei trent’anni, aprile 2022). Il mio principale riferimento riguardo la diplomazia italiana sono stati gli articoli di un validissimo giornalista, Lorenzo Vita: adesso scrive per il Riformista e il Messaggero, ma nel libro cito integralmente un suo articolo apparso sul Giornale nel maggio 2023, “Lo spirito di Pratica di Mare e la geopolitica del Cav”, un ottimo saggio di geopolitica”.

Quali sintonie con la destra aveva Craxi? Il riformismo e la tensione per un’Italia autonoma o mai suddita a livello internazionale?

“Il riformismo è la cifra della proposta politica craxiana: purtroppo è anche il segno della sua sconfitta politica, anticamera di quella giudiziaria. Definito un po’ sbrigativamente “decisionista”, seguendo il luogo comune per cui gli “uomini forti” siano per forza di cose decisionisti, giunto al governo non cominciò a portare in atto quella “grande riforma” che pure aveva indotto Almirante, e con lui i missini convinti della necessità d’una svolta presidenziale, in tentazione forse non di allearsi, comunque di fare quello che tra i tifosi di calcio è un “gemellaggio”. Perso nel marzo 1987 Palazzo Chigi per colpa dei capricci di Ciriaco De Mita (che giunto finalmente alla presidenza del Consiglio, non se ne dimostrò degno), Craxi si illuse di tornarvi presto; non successe, e addirittura nel 1992, non subodorando che sarebbe stato l’anno dell’inizio della fine, si convinse d’essere destinato al Quirinale (poi lui e Andreotti si fecero i dispetti, e ci andò Scalfaro). I due grandi errori di Craxi furono quello, arcinoto, di fidarsi troppo di chi gli stava intorno; l’altro, un attendismo esasperato (oltre che stridente con la sua nomea di “decisionista”). Comunque sì, il suo riformismo gli attirò attenzione, anche simpatia a destra. Non portandolo a termine, anticipò lo scacco di Berlusconi, perenne vagheggiatore di una “rivoluzione liberale” che pure avrebbe salvato l’Italia dai danni che le ha procurato il Pds (dalla sudditanza in Unione Europea all’essere ostaggio dei trafficanti di migranti, dai governi tecnici allo sfacelo della diplomazia).

L’altro argomento è tuttora gettonatissimo: nella destra più ingenua è frequente il ritornello per cui Sigonella sia stato “l’ultimo momento in cui l’Italia ha tenuto la testa alta”. Si tratta d’una semplificazione, eppure è una convinzione valida: episodio torbido, contorto, inquietante; ne è stata esagerata l’importanza, ma ciò non toglie che Craxi e Andreotti che rintuzzano le pretese sbraitate da Reagan e i sotterfugi del suo ambasciatore suscitino nostalgia d’una politica energica, e che la celeberrima ripresa (purtroppo assai sgranata) degli avieri della VAM e dei carabinieri che fronteggiano i super-soldati della Delta Force sia un’immagine forte. Sigonella non è stato l’ultimo momento in cui l’Italia abbia giocato un grande ruolo nello scacchiere internazionale: quello semmai – seppur molti preferiscano tacerlo – è stato il capolavoro diplomatico di Berlusconi a Pratica di Mare, con la promessa di pace tra Putin e Bush jr.; forse Sigonella è più spettacolare, essendoci dietro anche una storia da film d’azione.

Un aspetto sottovalutato nell’incontro fra Craxi e la destra (non solo missina) italiana è quello alla base anche della simpatia, sopracitata, che seppe attirarsi da parte della grande imprenditoria milanese, presentandosi quale alternativa seria alle ciance degli intellettuali da salotto comunisti, e proponendo la tolleranza socialista alla cappa di zelo e ortodossia del Pci: i due fattori su cui si fondò la sua amicizia con Berlusconi. Il momento migliore di questo aspetto fu il discorso, scritto dallo stesso Craxi con Luigi Covatta, pronunciato da Claudio Martelli alla conferenza programmatica del Psi a Rimini nel 1982: il famoso discorso sulla “alleanza riformista fra meriti e bisogni”. Da un lato fu il segno della definitiva (due anni prima dei fischi a Berlinguer in quel di Verona) rottura con la sinistra massimalista, che squalificò la perorazione come “di destra” (si veda, quarant’anni abbondanti dopo, quali personaggi, quali ambienti ancora ritengono “meritocrazia” una parolaccia: vi si troverà l’Italia peggiore); dall’altro, fu la dichiarazione con cui Craxi scelse il suo elettorato di riferimento – il ceto medio produttivo, la borghesia intraprendente; una fetta di pubblico che in parte coincideva, almeno al Nord, con i simpatizzanti del Msi – la borghesia alla destra della Dc”.

In procinto di diventare presidente del Consiglio, Craxi convocò, fatto inedito, il Msi alle consultazioni: sul versante ufficiale ciò non ebbe conseguenze. Su quello ufficioso, invece?

“Convocando Almirante e la delegazione del Msi a Palazzo Chigi, in qualità di presidente del Consiglio in pectore per la seconda volta (nell’estate del 1983, dopo il tentativo poi rientrato del 1979), Craxi ribadì la sua estraneità ai preconcetti e il suo coraggio di scompaginare gli schemi: mandò all’aria i pregiudizi che, finiti gli anni di piombo (la cui scia di sangue non era però finita: ancora in febbraio un ragazzo del Fronte della Gioventù, Paolo Di Nella, fu assassinato a Roma), ancora confinavano i missini nel ghetto. I giornali infatti accolsero la trovata di Craxi con scandalo e con allarme: si temeva che il gesto fosse l’anticamera all’accoglimento dei postfascisti nel dibattito politico. Almirante forse si accontentò di questa legittimazione informale: è comunque un dato di fatto che rifiutò quella formale, ossia respinse (cortesemente) la proposta, avanzata dal segretario del garofano, di affrancare il Movimento Sociale dalla “conventio ad excludendum” (l’arco costituzionale – il principio non scritto per cui soltanto i partiti che avevano contribuito alla stesura della carta costituzionale fossero legittimati a partecipare all’azione governativa – era “roba alla Ciriaco De Mita”, avrebbe detto Craxi ai suoi ospiti). Un po’ per evitare di “normalizzarsi” e diventare un partito come gli altri, come quelli legittimati; un po’ per la paura di governare, di lavorare seriamente all’amministrazione della cosa pubblica. La paura di crescere: molto più comodo, per il “predicatore macilento” (soprannome non del tutto benevolo attribuitogli, si dice, da Michelini o da Staiti) e i suoi seguaci, continuare a lamentarsi d’essere “esuli in patria”, a restare in un ghetto tanto angusto quanto comodo, crogiolandosi in un disimpegno e in un velleitarismo ottusamente compiaciuto che, paventarono gli eretici Niccolai e Tomaso Staiti, sarebbero significati condannarsi alla “insignificanza storica”. La storia diede loro ragione. Il 1983 sarebbe potuto essere, per il Msi, l’anno della promozione alla politica autentica (non tramite un’alleanza di governo, ma con un appoggio esterno più serio e fattivo di quello, dalle conseguenze disastrose, al governo democristiano di Tambroni): per di più grazie a un missino scomunicato (Marco Tarchi), a un comunista tollerante (Massimo Cacciari) e a un suo compagno di ampie vedute (Giampiero Mughini), sia gli intellettuali di destra che i ragazzi del movimento giovanile erano visti come interlocutori interessanti, non più come nemici del bene pubblico. Invece, fu soltanto il centenario della nascita di Mussolini: una celebrazione senza presente e tanto meno futuro”.

 Come rileggere il legame tra Craxi e il mondo arabo oggi, alla luce della tragedia di Gaza?

“La situazione affrontata da Craxi, e da lui analizzata nel celebre discorso parlamentare del 6 novembre 1985 – quando, difendendo le sue scelte nella crisi di Sigonella dalla crisi di governo innescata da Spadolini e dai ministri repubblicani, affermò la legittimità della lotta politica dell’Olp – era diversa da quella odierna. Sono cambiati gli attori: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, interlocutore di Craxi e del suo ministro degli Esteri, Andreotti, ormai è lo spettro del movimento guidato da Arafat; purtroppo, ha ceduto il passo ad Hamas, che essendo stata fondata nel dicembre del 1987 non esisteva all’epoca della crisi di Sigonella e del discorso di Craxi, risalenti all’ottobre e al novembre di due anni prima. I crimini di Hamas non tolgono insomma validità a quanto detto da Craxi in quell’occasione: né all’accostamento – una provocazione lanciata al PRI, atlantista, filoisraeliano e rispondente alla massoneria – tra i miliziani palestinesi e Mazzini; né alla sua difesa del diritto, per un popolo oppresso, di lottare. Quel discorso di Craxi – di cui ho citato la trascrizione, ma che è anche reperibile, nella sua parte più agitata, su YouTube – non soltanto non perde di validità con i recenti, tragici fatti: anzi, aumenta il suo valore di lezione di geopolitica. Craxi con quel discorso dimostrò di andare oltre gli schematismi nei quali il dibattito sulla questione palestinese è ormai prigioniero – la divisione dozzinale tra tifosi di Israele che confondono i palestinesi con la sola Hamas e perciò li criminalizzano, contro tifosi dei miliziani che attribuiscono a Israele una condotta nazista – e lasciò un’analisi dettagliata e profonda a favore della tesi “due popoli, due nazioni”. Lezione purtroppo recepita e ascoltata con anni, decenni di ritardo: uno strafalcione di cui furono responsabili, oltre ai sodali di Spadolini, i deputati missini. La scena di Almirante che, dopo aver accettato la proposta del buon Niccolai di stilare una dichiarazione ufficiale a favore delle scelte di Craxi, si trovò rabbuiato ad ascoltarne il discorso circondato da Tremaglia, Baghino e Berselli che, nonostante gli ammonimenti della presidente della Camera, Nilde Jotti, inveivano e gesticolavano contro il premier socialista, è insieme alla foto dello stesso Almirante nel grottesco “servizio d’ordine” a Valle Giulia nel ’68 l’immagine che più efficacemente riassume il principale scacco del partito della fiamma, e del suo pur intelligentissimo segretario storico: il vizio di rintanarsi in tatticismi contorti e deleteri, pur di non scendere mai a patti con la realtà”.

Il volume è un punto di partenza. Si può ancora ricercare contatti tra Psi e Msi nella rivista “Proposta” di Mimmo Mennitti o nelle attività editoriali di Giuseppe Tatarella…

“Tatarella, capogruppo alla Camera di Alleanza Nazionale, è stato il vicepresidente del primo governo Berlusconi; Mennitti, dopo una vita nel Msi, è stato l’intellettuale di vaglia che, assieme al professor Vittorio Mathieu, ha costituito l’anima nobile di Forza Italia. Quando da sinistra ancora infuriava la campagna calunniosa nei confronti di Craxi, a destra si cominciava un discorso serio su colui che è stato il miglior politico di sinistra italiano del Dopoguerra: Massimo Pini, fondatore della casa editrice più craxiana d’Italia, la SugarCo, è stato un componente importante di An; Maurizio Gasparri, uno dei “colonnelli di An” e tuttora senatore di Forza Italia, all’epoca di Mani Pulite ancora missino fu in pessimi rapporti con Craxi; poi ha cominciato un ripensamento della figura e dell’operato dell’antico avversario e, pur restando critico riguardo Sigonella, oggi è un estimatore di Craxi, al cui ricordo un anno fa ha dedicato un bel convegno al Senato. Unico partecipante di sinistra: Piero Fassino, oggi purtroppo deriso in pubblico (col solito vizio italiano del linciaggio) per una debolezza privata; eppure, lo scrive Valle nella prefazione a Il garofano e la fiamma, è stato il solo post-comunista ad avere il coraggio di ammettere che il Pci ha sbagliato – con Craxi, e non solo.

La rilettura di Craxi e del suo operato non riguarda tutta la destra: con le eccezioni dei bei comunicati ufficiali con cui i presidenti delle camere, Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, hanno salutato lo scorso gennaio il ricordo dello statista esule, né Fratelli d’Italia né la Lega (un partito ormai diverso da quello di Miglio e di Bossi, ma che ha comunque fondato le sue fortune elettorali sul giustizialismo forcaiolo), il discorso resta circoscritto a Forza Italia: il partito fondato da un amico di Craxi, nonché il rifugio naturale dei riformisti e dei liberali rimasti orfani dopo la soppressione del Psi.

Il garofano e la fiamma può essere il primo capitolo d’uno studio della relazione tra il più importante statista italiano di sinistra del Dopoguerra, e la destra italiana; ma è già il sunto d’un dibattito già cominciato, un dialogo purtroppo rimasto in sospeso, tra Craxi e le migliori intelligenze eretiche radunate attorno al Msi: Giano Accame, Beppe Niccolai, Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, Alfredo Mantica, Silvano Mantica, Gennaro Malgieri, Marco Tarchi, Pietrangelo Buttafuoco e Marco Valle, che di questa suggestione, di questo incontro mancato ha radunato le voci e i pensieri, trasformando – attingendo dalla sua biblioteca inesauribile, ma anche attraverso la sua esperienza e con la sua visione politica – un dialogo sospeso in un discorso compiuto. Uno studio che non sarebbe né mero eruditismo, né curiosità accademica, ma valida lezione politica, dato che Craxi – lo dimostra l’attualità più tragica, come il citato dramma di Gaza – parla, e continuerà a parlare. Lo fa, e lo farà, con la sua capacità profetica: che non era un dono, né una serie di coincidenze, ma l’intelligenza di leggere le situazioni. Craxi ha commesso degli errori, ma uno da cui è stato alieno è il ricorso agli schematismi, che oggi è la prassi: con i guai che ne conseguono. Non si fa la storia con i “se”, ma possiamo dire che “se” Craxi avesse assistito alla guerra fra Russia e Ucraina, oltre a soffrirne da sincero non pacifista, ma uomo di pace (ben diverso da tanti “pacifisti” che chiedono a gran voce l’invio di armi e il rifiuto delle soluzioni diplomatiche) sarebbe inorridito di fronte all’obbrobrio di chi fa mala informazione sentenziando, dal profondo d’una incultura abissale, che “ci sono un aggressore e un aggredito”. Banalizzazione che pure sembra, ahinoi, trovare consensi a destra.

Studiando un lato del paradosso – Craxi statista di sinistra rivalutato a destra – resta l’altro, quello sgradevole: Craxi statista di sinistra censurato, obliato a sinistra. Le ragioni sono (almeno) due: la vergogna d’essersi macchiati d’un crimine (perché la persecuzione del segretario socialista, coinvolgendone anche gli affetti, questo è: si aggiungano poi le innumerevoli violenze private e purtroppo anche le istigazioni al suicidio che sono state l’autentica cifra di Mani Pulite), e il rifiuto di ammettere d’aver sbagliato: nulla di sorprendente, riguardo la parte politica che si ammanta senza sosta di una superiorità morale e culturale alquanto fantasiose.

La sinistra italiana avrebbe avuto tanto da imparare da Craxi già all’epoca del suo governo: per esempio in occasione del referendum sulla scala mobile. Craxi – il politico non-dogmatico, non-schematico, non-conservatore per eccellenza – valutò la questione in base alla concretezza, alle esigenze dei cittadini e del mondo reale; Berlinguer (morto un anno prima del referendum) e i comunisti invece pretesero di piegare la realtà ai dogmi, agli schemi, alla propria pretesa di infallibilità: affetti da quella che Bob Dylan chiama Disease of Conceit. Ne risultò che la proposta, da parte socialista, che il decreto sostenuto da Craxi fece scendere l’inflazione e salire il potere d’acquisto degli italiani; da parte loro i comunisti persero (nonostante la consueta distribuzione di menzogne tramite stampa) il referendum e, ciò nonostante, ancora non si confrontarono con i propri errori, né con la realtà delle cose. Tutto ciò si ripete ogni anno (trascorso dalla sinistra italiana in trepidante attesa di dare in escandescenze alla fine di aprile), la stessa sinistra che ha linciato Craxi e che nell’armadio ha creduto di poter nascondere, oltre al di lui scheletro, i propri sbagli, continua a commetterli: non fosse bastata, nel crepuscolo della disastrosa segreteria Letta (il nadir d’una storia di fallimenti cominciata con il Pds e che sta proseguendo con il Pd) la terribile campagna elettorale delle politiche del 2022 – basata sulla contrapposizione, schematica, “noi contro loro, questo contro quello” – due anni scarsi dopo ne sta portando avanti, in vista delle europee del prossimo giugno, una peggiore – basata solo ed esclusivamente sull’attribuzione agli avversari di tutte le brutture umane; campagna elettorale che segue una festa (sempre che qualcuno, tra una rissa e l’altra, abbia festeggiato) della Liberazione caratterizzata più del solito da liti, disinformazione, menzogne, vittimismo.

Craxi, leader di sinistra eclettico, eterodosso ma convinto, socialista colto e ben preparato, figlio devoto d’un partigiano, non ha nulla in comune con la chiassosa bancarella dell’antifascismo incolto, mendace, cialtrone, chiassoso, volgare, intollerante, passivo-aggressivo, violento, pretestuoso che al momento è la sola dimensione della sinistra italiana. Craxi portava fiori a Giulino di Mezzegra non, come credono alcuni, per una nascosta ammirazione del Duce: ma perché credeva che la fine tragica del fascismo andasse ricordata come monito, che sul sangue versato dovesse fiorire la pacificazione. Craxi parla, e continuerà a parlare: guai a chi non lo ascolta. Si tratti della destra, che spesso alla riflessione profonda e alle visioni ampie e lunghe preferisce la faciloneria e, soprattutto in materia estera, gli schematismi; si tratti della sinistra, che gettata nel panico dai continui fallimenti e dalla sottaciuta consapevolezza che le sue pretese di superiorità etica e intellettuale non hanno alcun reale riscontro, e reagisce vendendo l’anima al business dell’immigrazione e allo sciacallaggio sui femminicidi, e compensando la mancanza di argomenti col ridicolo ritornello dell’antifascismo, arrivando a istigare una conflittualità che nessun altro ha cercato, accampando teatrini grotteschi intorno alla festa nazionale (piaccia o non piaccia, il 25 aprile questo è) e facendo d’una picchiatrice l’ennesima beniamina impresentabile.

La Milano di Craxi (e di Tognoli) è stata la città che si è scrollata di dosso la tetraggine degli anni di piombo; la sinistra che lo ha mandato in esilio è la fazione politica che sta riempiendo i muri cittadini e i cartelloni elettorali con slogan carichi d’odio”.

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Gerardo Adami

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