Mistero svelato: Bruce Dudley è Sherwood Anderson. E la vita è l’affanno di un racconto

Sherwood Anderson ha una vocazione letteraria tardiva. Prima fa diversi mestieri: stalliere, fattorino, imbianchino… Tanti lavori da beccarsi il soprannome di “Jobby”. Questo fenomeno è comune ad altri scrittori

Sherwood Anderson

Può accadere che gli allievi raggiungano più notorietà del loro maestro ed è successo con Sherwood Anderson. Hemingway, Faulkner, Steinbeck, gli scrittori definiti dalla Pivano “I mostri degli anni venti” hanno attinto da lui, rimasto peraltro abbastanza sconosciuto.  Eppure per Emilio Cecchi è l’inventore, il pioniere della nuova prosa americana. Forse la ragione di questo oblio perché più autore di racconti che di romanzi. Racconti che Rosenfeld con entusiasmo chiama fiori di campo. I lettori sono portati a immedesimarsi con il protagonista, si affezionano, quindi prediligono le storie lunghe.   

Sherwood Anderson ha una vocazione letteraria tardiva. Prima fa diversi mestieri: stalliere, fattorino, imbianchino… Tanti lavori da beccarsi il soprannome di “Jobby”. Questo fenomeno è comune ad altri scrittori, è come se prima facessero il pieno di vita, imparando da essa invece che dalla scuola. Un pieno di carburante vitale assorbito, rubato dai loro simili con l’auscultazione delle pulsioni psicologiche di ognuno, negli anni barbari.  Poi come medium emettono l’ectoplasma e lo stendono nelle pagine, strati di essenza solidificati. L’espurgo di gioie, dolori e di speranze inaridite.  Tra le due esistenze, materiale ed immateriale,  c’è un intervallo esoterico. Infatti, Sherwood sparisce diversi giorni, come Agatha Christie.  E così altri artisti. Quasi dovessero recarsi nella dimora degli Dei a ricevere l’imprimatur dell’ascesi, dello scranno.

A trentasei anni Sherwood abbandona l’azienda di vernici, è il direttore, la famiglia con tre figli. Questo  all’improvviso, a metà frase di una lettera dettata alla segretaria. Getta il successo, divorzia dagli affari, compie il percorso inverso di Rimbaud che invece lasciò la poesia per fare il bottegaio in Africa.    Si dedica alla scrittura. Naturalmente l’avvio è  molto difficoltoso, c’è anche il  cambio di un paio di mogli. Il successo gli arriva con la raccolta di racconti: Winesburg, Ohio. Con l’aiuto di Freud e Jung, ovvero il torbido e l’introspezione, riesce a render nobile l’accozzaglia provinciale. Risveglia i morti di Spoon River, dona loro una seconda giovinezza, li costringe a vivere.

Nel 1925 scrive Dark Laughter, tradotto in Riso nero. Opera bersagliata dagli strali dei bacchettoni odierni per sessismo e razzismo.  Il libro  ha qualche assonanza, pur non essendone un continuo, con il precedente Poor White, Un povero bianco. Il plasma comune, la “carne”, è l’avvento  dell’industrializzazione che fagocita quanto c’è di precedente: la civiltà agricola.

È accaduto in Piemonte. La Fabbrica ha razziato i paesi, ai gagni scalzi ha dato le scarpe, la cravatta, ai genitori le dentiere. Ma ha desertificato la campagna, ha cancellato un mondo contadino. La poesia è finita triturata, incaprettata, nelle catene di montaggio del noto stabilimento. Il prezzo? La morte negli occhi di Pavese! Prima le donne a turno infornavano il pane per la comunità,  c’era fratellanza. Le micche sapevano d’acero, la crosta d’amicizia. Adesso la socialità paesana  si è sfilacciata, squamata. Non si pigia più l’uva con i piedi, il vino diventava aceto perché genuino, senza solfiti.    Nelle stalle non c’è più l’olezzo burroso e aspro, inebriante, sono mute di muggiti.  Le tampe, quei piccoli stagni colmi di acqua melmosa e anatre, sono diventate piscine pretenziose colme di vespe e calabroni.

I deportati, accalappiati,  costruiscono con la fatica un prodotto, l’auto, che poi acquistano con i proventi della loro fatica. Un din don assurdo. E con la terra hanno tenuto un matrimonio bianco, quello delle donne con il marito lontano, senza abbraccio.  Hanno commesso atti contro natura, avvalendosi di stregoni alchimisti con l’offesa di raccolti imposti con i fertilizzanti, i pesticidi.  Hanno avvelenato i pozzi, Abramo!

Il protagonista di Riso nero è Bruce Dudley, un giornalista. Durante un simposio sulla menzogna nel romanzo Sherwood, messo alle strette, si spoglia delle “mentite spoglie” e  ammette: “Sì, sono io.”

Il linguaggio è semplice, da amico che racconta in modo distratto. Fremiti, come se l’autore pensasse ad altro. Forse per il cervello ribollente, fantasia alla deriva, così afferma. Le frasi brevi, lampi. (Hemingway assimila.) Il suo tempo di narrare è quello cadenzato lento dei sermoni degli spirituals! I canti di lavoro degli schiavi. 

Bruce si chiede: perché la gente è triste, stanca? “A Hollywood sono pesci con le pinne tagliate.” La moglie scrive un racconto: uno si innamora di un manichino di cera in vetrina. Lui immagina i possibili finali, in concorrenza.  Confessa che vorrebbe maneggiare le parole come il macellaio  usa i coltelli e compra le bistecche. Ci sono  piccole oasi di non sense (Joyce fa l’occhiolino).  È disordinato nei discorsi e viene di dialogare con lui, raccontargli cosa si è fatto ieri, tanta è la confidenza. Alle volte salta di palo in frasca, ecco.

Bruce compie una fuga simile a quella fatta da il fu Mattia Pascal di Pirandello una ventina d’anni prima. Ma è omertoso sull’accaduto, ne parlerà solo nel XIII capitolo. Le sue allocazioni si srotolano senza spiegazioni. Unico indizio offerto è la poesia della fame del seme. “Perché non mi sono mai piantato?” La famosa sindrome degli hobo.

Per Sherwood il vivere è un amplesso senza precauzione. La vita una femmina che ci sta o non ci sta, e quindi la ama o la odia. È inseguito dai bulldozer che distruggono quello che descrive, e con il suo Bruce cerca rifugio nell’infanzia trascorsa, anche se misera e dolente. Il ricordo della madre morta. Questo a Old Harbor, Indiana.  Prima si ferma a New Orleans, un pellegrinaggio riverente al  Mississippi sulle cui sponde Hugh di “Un povero bianco” aveva le visioni mentali.

Razzismo? No, anzi c’è la denuncia. Dopo la guerra di secessione è stato abolito lo schiavismo ma i neri vengono sfruttati ancor meglio, non hanno sindacati o… padroni a proteggerli. E senza più gli oneri della compravendita. Frattanto l’indagine prosegue. Scrive: La gente rideva e cantava, i negri erano negri, i vestiti sgargianti. È Peccato? Il pazzo al battello urlava: tienti a galla!

Bruce ritorna nella cittadina dove è stato fanciullo, con un nome preso in prestito. Fa l’operaio, dipinge le ruote delle automobili.  Aline, la moglie di Fred, il padrone della fabbrica, vede Bruce e si invaghisce di lui. Per lei le piante sanguinano e piangono. È stata a Parigi, anche Sherwood: tutto coincide. C’erano Hemingway, la Stein, la libreria Shakespeare & Co, la generazione perduta, bla bla bla. Un revival a innaffiare le radici ma Sherwood preferisce l’America, l’Europa è vecchia e abusata. Esther ambigua accarezza Aline ma si fermano. A concludere saranno gli autori più sfrontati a seguire, Sherwood è timido. Sessista? Le donne fanno le donne, amano, subiscono, tradiscono. Altrettanto gli uomini che però sono impegnati a lavorare. Le donne licenziose sono tutte Bovary, gli americani eruditi le ritengono tali. Povera Emma!

Bruce va a fare il giardiniere da Aline, casa Grey. Fred è un ometto odioso, come tutti i padroni. Insomma, avviene la tresca tra la moglie e l’operaio. Bruce non è bravo solo con i pennelli! “Il bambino che aspetto non è tuo, Fred.” L’aria sulla collina era piena di riso: riso nero.

Avviene la dicotomia, Bruce e l’Anderson intraprendono sentieri diversi.   Bruce fugge con Aline, la donna di Fred. Questi per alleviare il dolore immagina di uccidere un negro, è vero, ma non lo fa. E poi c’è il suo sollievo di essere come uno ferito in guerra, sta male ma ne è fuori. Inoltre il sollievo di  non dover essere più un uomo per una donna. Bruce e Aline partono, non conosciamo la meta mentre Sherwood rimane con Fred. Lo scrittore è sconfitto, perché costretto ad assistere alla trasformazione dei villaggi in città. Le banche, le ferrovie, gli stabilimenti conquistano il predominio.

I luddisti hanno corsi e ricorsi, appaiono e scompaiono. E ogni tanto dall’utopia cercano di passare al fare. Alla Facoltà di Lettere nel 1968/1970 il gruppetto si è dissolto, si è sparpagliato nelle Bierre. I luddisti, fruitori dei benefici del progresso tecnologico che contestano.

Anche Sherwood come quella crema di americani ai quale piace fare i comunisti senza esserlo, ha quella vampata. C’è il consueto miscuglio di Pilgrim Fathers e Pioneers, padri pellegrini e pionieri, la diatriba tra Puritans e Antipuritans. Whitman semplifica in: paleface e redskin. Sherwood nel 1930 appoggia gli scioperanti a Danville. L’anno seguente si impegna nel movimento proletario. Con altri scrittori firma la richiesta di una “dittatura temporanea del proletariato”!! Ma continua a svolgere compiti per il Governo. 

Nel 1941 uno stuzzicadenti incautamente ingerito gli provoca la peritonite e pone fine alle sue velleità sociali. La sua lapide, al Round Hill in Virginia, predica: “La vita, non la morte, è l’avventura più grande.”  I censori dei nostri giorni  dovrebbero ricordare  che Bruce, Sherwood e i Neri  con le loro virtù ed errori hanno edificato quella calda cuccia nella quale loro si crogiolano, gesticolano il nulla. E l’importanza di ridere, ridere.

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Gianfranco Andorno

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