La “maledetta primavera” degli innamorati di Yukio Mishima

Un romanzo giovanile del D'Annunzio giapponese, un breviario contro gli "amori costruiti in serra"

Yukio Mishima nel docufilm "The last debate"

Proprio al termine di questa nostra interminabile primavera piovosa, esce per i tipi di Feltrinelli il consueto inedito annuale di Mishima, dopo “Vita in vendita” e “In punta di penna”. “Una primavera troppo lunga” è un romanzo d’amore giovanile, uscito in Giappone nel 1956, che ha per protagonisti una coppia di fidanzati, Ikuo e Momoko – lui, unico figlio di una famiglia benestante con una madre ingombrante e un padre assente, lei figlia minore di una modesta famiglia di librai dell’usato.

I due, messi alla prova durante il lungo fidanzamento tanto dalle peripezie familiari quanto dai mille dubbi e perplessità fioriti nel loro foro interno e da qualche tentazione erotica esterna, finiranno per capire che, nonostante la tiepida passione fisica, l’amore che li unisce, come una ben oliata squadra sportiva, è capace di far superare loro le difficoltà della vita meglio che in solitaria.

Nonostante una trama non originalissima – che infatti è stata prontamente adattata per il cinema -, Mishima riesce a inserire nel romanzo alcuni spiritosi tocchi di humour giuridico e nipponico (ad esempio facendo dire a Momoko del suo pigro fratello: “…pare il Partito Comunista Cinese: finora era un leone dormiente, e adesso all’improvviso vorrebbe fare la Rivoluzione!”), e soprattutto molte delle dicotomie a lui più care: amore e morte, corpo e spirito, civilizzazione e bestialità, nonché un’interessante concezione di kalokagathìa capace di stroncare sul nascere ogni sindrome della crocerossina (Momoko pensa: “Le persone cresciute nella felicità sono belle!”, e l’autore commenta: “Non provava gusto a innamorarsi di uomini infelici o seriosi. Non che tipi del genere, dal carattere tenebroso, non la attirassero, ma la sua psiche femminile un po’ egoista la spingeva a disdegnare il contatto con esseri infelici, per il vago timore che l’infelicità fosse contagiosa”).

E se nelle brevi parentesi sui rovelli mentali e sensuali di Momoko è chiara l’influenza del maestro Tanizaki, ma anche l’influenza che Mishima avrà sul Kazuo Ishiguro di “Quel che resta del giorno” – nel romanzo compare proprio questa espressione – in certe, sparse, riflessioni più “impegnate” Mishima riecheggia non solo alcuni stilemi di Drieu la Rochelle: “Odiare, combattere, vincere: gli esseri umani hanno bisogno di questo tipo di sentimenti primordiali. Il vostro è un amore di serra: liberatevene stasera!”, ma anche certe sue considerazioni sul capitalismo degli anni ’40. Infatti, se Mishima scrive, acutamente, del diritto delle obbligazioni e in particolare del prestito di denaro “esse sono, in un certo senso, le fondamenta della società moderna, e il consesso civile funziona in base ai principi di quelle leggi contrattuali. Quindi [per Ikuo] era come studiare gli ingranaggi della società”, Drieu solo un decennio prima, in un articolo su “Le Fait” aveva individuato una svolta storica proprio nel momento in cui, nel medioevo, si era diffuso ed era stato apertamente tollerato il prestito a interesse, che aveva, di fatto, portato con sé lo sviluppo del capitalismo moderno.

E se la madre di Ikuo rappresenta quelle donne, ancora loro malgrado legate alla tradizione pur in un’epoca in rapido cambiamento, che concepiscono anche l’amore e i matrimoni come un gioco degli scacchi tra famiglie più che come una questione di sentimenti (d’altra parte, lo stesso Mishima fa dire, tra l’altro a uno dei suoi personaggi femminili più ribelli: “E già, a creare ideologie e principi in origine siete voi uomini, senza dubbio. Perché tanto avete tempo da perdere […] Ma siamo noi donne poi a mantenerli. Lo sai, vero, che conserviamo le cose con cura, noi”), alla fine del romanzo l’amore che trionferà sarà, per dirla ancora con Drieu, un amore che “ha scacciato il fantasma del denaro e dell’orgoglio” e che “ha il sapore dell’acqua fresca”.

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Camilla Scarpa

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